I perfetti vicini di casa
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Info su questo ebook
Helen ha lasciato l’Inghilterra e si è trasferita in Germania insieme al marito. Il quartiere in cui andrà a vivere è un’esclusiva zona residenziale in cui abitano molti dei colleghi della scuola internazionale in cui Helen comincerà presto a lavorare. Ma Helen si accorge subito che c’è qualcosa di strano nei suoi nuovi vicini. Non appena l’affascinante famiglia che abita nella casa di fronte si presenta per dar loro il benvenuto, Helen comincia a sospettare che dietro la facciata di perfezione si nasconda qualcos’altro. E quando anche Gary, suo marito, comincia a comportarsi in modo strano, capisce che quello che credeva un sogno è destinato a trasformarsi in un incubo. Perché dietro alle menzogne e agli intrighi, la violenza è in agguato, e Helen è sempre più convinta che le persone che vivono accanto a lei siano capaci di qualunque cosa…
Bestseller in Inghilterra
Dietro le finestre si nasconde un segreto sconvolgente
«Un costante senso di inquietudine. Questa autrice rende quasi impossibile indovinare i colpi di scena e tiene il lettore incollato alle pagine.»
«Una storia avvincente piena di segreti oscuri e intrighi familiari.»
«Fa venire i brividi. La dimostrazione di quanto sia difficile poter dire di conoscere veramente qualcuno.»
Rachel Sargeant
È una scrittrice inglese. È nata nel Lincolnshire e si è laureata all’università di Aberystwyth, specializzandosi in scrittura creativa. Con uno dei suoi racconti ha vinto la Writing Magazine’s Crime Short Story competition. Vive nella campagna intorno a Gloucester con la sua famiglia.
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Anteprima del libro
I perfetti vicini di casa - Rachel Sargeant
Indice
PRIMA PARTE
Capitolo 1. Domenica 19 dicembre
Capitolo 2. Lunedì 5 aprile
Capitolo 3. Martedì 6 aprile
Fiona
Capitolo 4. Lunedì 12 aprile
Capitolo 5. Domenica 2 maggio
Capitolo 6
Fiona
Capitolo 7. Lunedì 3 maggio
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10. Martedì 4 maggio
Capitolo 11
Capitolo 12
Fiona
Capitolo 13
Capitolo 14. Giovedì 6 maggio
Capitolo 15
Fiona
Capitolo 16. Venerdì 28 maggio
Capitolo 17. Domenica 30 maggio
Capitolo 18. Lunedì 31 maggio
Capitolo 19. Martedì 1 giugno
Capitolo 20. Mercoledì 23 giugno
Capitolo 21. Domenica 19 dicembre
Capitolo 22. Giovedì 1 luglio
Capitolo 23
Capitolo 24. Venerdì 2 luglio
Capitolo 25. Lunedì 5 luglio
Capitolo 26. Venerdì 16 luglio
Capitolo 27. Venerdì 27 agosto
Capitolo 28. Sabato 27 novembre
Fiona
Capitolo 29. Mercoledì 1 dicembre
Capitolo 30. Giovedì 2 dicembre
Capitolo 31
Capitolo 32
SECONDA PARTE
Capitolo 33. Venerdì 3 dicembre
Capitolo 34
Capitolo 35
Fiona
Capitolo 36. Sabato 4 dicembre
Capitolo 37. Lunedì 5 dicembre
Capitolo 38. Martedì 8 dicembre
Capitolo 39
Capitolo 40
Fiona
Capitolo 41. Giovedì 14 dicembre
Capitolo 42
Capitolo 43. Sabato 18 dicembre
Fiona
Capitolo 44
TERZA PARTE
Capitolo 45. Sabato 18 dicembre
Capitolo 46. Domenica 19 dicembre
Capitolo 47
Capitolo 48. Martedì 21 dicembre
Capitolo 49. Martedì 21 dicembre
Capitolo 50
Capitolo 51. Mercoledì 22 dicembre
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Capitolo 56
Capitolo 57
Capitolo 58
Capitolo 59
Capitolo 60
Capitolo 61
Capitolo 62
Capitolo 63. Sabato 25 dicembre
Ringraziamenti
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Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,
le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto
dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,
memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e
tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore
Titolo originale: The Perfect Neighbours
First published in Great Britain in ebook format by
HarperCollinsPublishers 2017
Copyright © Rachel Sargeant 2017
Rachel Sargeant asserts the moral right to
be identified as the author of this work
Copertina © Sebastiano Barcaroli
Traduzione dall’inglese di Lorena Marrocco
Prima edizione ebook: luglio 2019
© 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-3303-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Rachel Sargeant
I perfetti vicini di casa
OMINO.jpgNewton Compton editori
A Fergus, Gillian, Jenny, Peter e Karen
PRIMA PARTE
1
Domenica 19 dicembre
Il faretto è fissato al soffitto, in modo che i prigionieri non possano arrivarvi. Nonostante il mal di testa causato da tutta quella luce, Helen non si ripara gli occhi. Se li chiudesse, sarebbe di nuovo travolta: da quelle immagini dai contorni incerti che scorrono dall’alto in basso e da destra verso sinistra, e poi si fermano, ricominciano. Non sa quale verrà a tormentarla per prima. Se sarà fortunata, il violoncello da bambino, rovesciato, con il manico rotto e i fori di risonanza imbrattati di sangue. Oppure la cheesecake guarnita con ciliegie e sangue. O il pelo arruffato rosa e nero sulla pancia del cane morto. Magari il maglione a collo alto dal cui squarcio budella disgustose si riversano sul parquet. O Gary.
Si siede sul bordo del letto e si culla abbracciando le ginocchia. Se riuscisse a concentrarsi sul violoncello, forse il resto sparirebbe. Deve aggrapparsi a quello strumento appiccicoso, focalizzarsi su quella immagine, osservare la vernice ispessita sul legno, ricordare la mano piccola ed esperta che un tempo premeva sulla tastiera e sforzarsi di richiamare alla mente quel suono rilassante. No, non basterebbe a fermare le altre immagini. Già diciassette giorni e ogni particolare è ancora nitido davanti ai suoi occhi.
Si alza, cammina per la stanza. Le articolazioni sono intorpidite dalla mancanza di movimento. Le permettono di passeggiare nel cortile sul retro della stazione di polizia, ma chiede sempre di rientrare subito perché la neve ammucchiata contro il recinto le ricorda la sua cella. Completamente bianca. Nell’angolo, senza tavoletta né coperchio, il gabinetto. Bianco. Il pulsante verde della porta è l’unico colore vivido.
«Prego, si accomodi. Il suo avvocato sarà qui a momenti», le comunica dall’interfono il sergente alla scrivania. Inutile discuterci, sicuramente non parla bene inglese e lei, anche dopo otto mesi, è la classica anglosassone che all’estero non si sforza di imparare la lingua.
Si butta sul letto. Il materasso ha lo stesso odore dei guanti di gomma che usava in cucina. Lei lava i piatti, Gary li asciuga. Poi un’altra immagine: Gary con le caviglie piegate, lo sguardo vuoto, le spalle scarlatte. Cerca di scacciarla e concentrarsi su Gary nella loro cucina, accanto al lavello. Cerca di farlo sorridere, di farlo parlare, poi si rannicchia stremata. La serratura automatica della porta scatta, ma lei rimane in posizione fetale. È l’avvocato, Karola. La vicina dal viso rubicondo che alleva gli spaniel in giardino e con cui scambia un saluto ogni lunedì, quando portano fuori la spazzatura. Ora, però, è la signora Barton, l’unico avvocato tedesco bilingue che la scuola è riuscita a trovare in così poco tempo, ultimamente più abituata a raccogliere escrementi di cane che ad assistere donne accusate di omicidio.
Helen si volta verso il muro.
«Perché non ha menzionato Sascha Jakobsen?», domanda Karola.
Quel nome è una pugnalata per Helen. Non risponde.
«Ha detto alla polizia che eravate insieme in piscina, a Dortmannhausen».
Helen si tira su a sedere. «Davvero?»
«La polizia ha di nuovo ispezionato quella piscina gelata. Farebbe meglio a raccontarmi tutto», dice Karola sedendosi sul letto. Ha l’anima più nera del completo che indossa.
Helen richiama a sé le gambe, allontanandole dalla donna. «Non c’è niente da dire».
«Da quanto conosce Jakobsen?».
Perché fa una domanda di cui sa già la risposta? La scuola è una boccia per pesci rossi in cui nuotano entrambe. Karola Barton sa tutto di lei, ogni dettaglio, come anche gli altri vicini. Quelli ancora in vita.
«Non era come pensa», risponde Helen.
Karola si alza, la piega dei pantaloni è perfettamente perpendicolare al pavimento. «E come era, signora Taylor?».
2
Lunedì 5 aprile
Otto mesi prima
Gary strinse la mano di Helen: «Emozionata?».
Lei non rispose. Era emozionata? Un nuovo inizio in un Paese nuovo. Moglie a tempo pieno. Abbozzò un sorriso e annuì.
Uscirono dall’autostrada – la Landstrasse, come la chiamava Gary – ed entrarono in una zona grigia, pesantemente cementificata. A Helen tornò in mente la gita delle medie in Bulgaria, in pullman, e i palazzi sovietici alla periferia di Sofia. Gary guardò il semaforo e indicò: «E là in fondo c’è la Niers International School».
Sulla destra, attraverso un’appuntita cancellata metallica, Helen intravide file di rastrelliere piene di biciclette parcheggiate. Sembrava quasi una stazione ferroviaria di provincia.
«Da qui non si vede bene», aggiunse Gary.
Accanto alla guardiola della sentinella c’era un uomo robusto con una divisa scura, il tetto di legno era scheggiato e crepato.
«Avete la vigilanza?», gli chiese.
«Non preoccuparti di Klaus. Questo posto è controllato a tempo pieno da due uomini della sicurezza. Ai genitori fa piacere, se non fosse che i ragazzi passano il tempo a giocare ai soldatini nelle guardiole».
Helen sorrise finché non notò un «Ausländer Raus» scritto con lo spray sulla pensilina dell’autobus. «Significa quel che penso?».
Il semaforo divenne verde e svoltarono a destra.
«Fuori gli stranieri, ma è raro vedere cose simili. La maggior parte dei tedeschi ama la scuola internazionale. Molti qui hanno un lavoro collegato all’istituto e grazie ai genitori degli studenti girano parecchi soldi».
Le aveva parlato dei genitori, tempo prima. In gran parte lavoravano nelle multinazionali con sede a Düsseldorf, i restanti erano ricchi del luogo disposti a pagare per far frequentare ai figli una scuola in inglese. E alcuni erano insegnanti.
«Pensaci, Helen», aveva detto Gary quando, durante i fine settimana in cui si vedevano e si tormentavano su dove andare a vivere, avevano stilato una lista dei pro e dei contro. «Non adesso, ma tra qualche anno, se avremo dei bambini, quella potrebbe essere la loro scuola. Ci sono molti vantaggi, stipendio compreso».
Era stato quello il fattore decisivo: lì Gary avrebbe guadagnato da solo più di quanto avrebbero portato a casa in due in Inghilterra. La testardaggine di Helen aveva ceduto davanti alle cifre nude e crude. Si era licenziata e aveva messo in affitto la propria casa.
Gary prese un dosso e la cintura di sicurezza le segò la clavicola.
«Hai notato i nomi delle strade?». Ne indicò uno composto di più sillabe, un guazzabuglio di Ls e di Es. «Riesci a leggerlo?».
Fece di no con la testa. Erano in viaggio, senza soste, da Calais. Passato il confine con la Germania, la segnaletica era diventata di uno stridente giallo teutonico. I nomi delle strade erano scritti in bianco, più o meno come in Inghilterra, ma erano impronunciabili.
Gary procedeva piano, per nulla infastidito dallo slalom tra macchine parcheggiate, bambini che giocavano e dossi. Helen osservò il suo profilo: gli zigomi arrotondati, la mandibola dolce, lo sguardo paziente. Chi avrebbe mai detto che la gentilezza potesse essere tanto affascinante? Si rilassò.
«A cosa pensi?», le chiese.
«A Birmingham». Si erano conosciuti là.
Conclusi i lavori del convegno di insegnanti, al bar dell’università il viso di Gary le era apparso gentile in mezzo alla folla rumorosa. Era la persona con cui tutti volevano parlare, a cui tutti si avvicinavano, creandogli intorno uno strano girotondo. Quando lui si era accorto di lei, le aveva sorriso. Helen, di solito allergica alla massa, aveva raccolto l’invito e si era fatto strada per unirsi a quella danza. A fine serata, lei e Gary erano gli unici rimasti in pista.
«Rimpianti?».
Era ancora spaventata per il trasferimento? Aveva avuto tempo a sufficienza per decidere. Gli accarezzò il braccio e sorrise. Non era più spaventata, no. Un po’ in apprensione, forse.
«Ci siamo quasi. Ti piaceranno i vicini. Polly e Jerome sono fantastici. Vivono dall’altra parte della strada con le due figlie. Jerome Stephens è a capo del dipartimento di Scienze».
Dopo un altro paio di curve, Gary imboccò Dickensweg, un vicolo cieco di villette a schiera tutte uguali. A differenza della grigia zona bulgara che avevano attraversato, lì negli ultimi dieci anni le case erano state dipinte di giallo limone e le auto erano parcheggiate sul lato sinistro della strada, secondo una regola non scritta. Davanti a quasi tutte le porte d’ingresso c’erano biciclette, carrelli da rimorchio e passeggini, sembravano pronti per una vendita privata in giardino. Bidoni della spazzatura grossi e gialli stavano in agguato come degli strani mostri fatti di Tupperware.
Da una macchina sportiva saltò fuori un uomo con il viso arrossato e folti capelli bianchi. Gary suonò il clacson e alzò il pollice. «Abita alla porta accanto: Chris Mowar, capo del dipartimento di Arte».
L’uomo attraversò davanti a loro, facendo un profondo inchino e poi sparì in casa.
«Sono tutti a capo di qualcosa, qui?», domandò Helen.
Gary annuì. «Al civico 4 abita il capo del dipartimento di Geografia, ma non c’è quasi mai, e all’1 il responsabile delle pubbliche relazioni della scuola. E ovviamente il preside».
Frenò e indicò la strada. «Dopo quel boschetto c’è Hardyweg, dove vivono i capi degli altri dipartimenti. Weg significa strada. Dickens e Hardy. Trent’anni fa il consiglio comunale ha rinominato le strade in onore della scuola. Un bel gesto, non trovi?».
Helen sorrise. Sembrava bello, accogliente. Si sentì in colpa per aver pensato che la strada fosse appena un po’ trascurata.
Sulla via, tre ragazzi, in maglietta, short e stivali di gomma, giocavano con dei camioncini telecomandati. Non avevano freddo? Helen si tirò su la cerniera della giacca.
Gary frenò di nuovo. «Meglio non correre, quelli sono i figli del preside».
I ragazzi agitarono il braccio verso la macchina e poi si spostarono. Gary ricambiò il saluto e proseguì fino alla fine della strada. Al posto dell’ennesima casa a schiera, c’era una grande villa con un magnifico glicine che incorniciava la porta di ingresso e luminose persiane gialle a ogni finestra. «Numero Dieci» dichiarava una placca di legno intagliato. Non c’era traccia di quei brutti numeri civici di metallo che aveva visto sulle altre case.
Un senso di calore la avvolse. Aveva fatto bene a trasferirsi, un matrimonio a distanza non poteva durare a lungo. Avrebbe avuto un altro incarico, forse non sarebbe stata di nuovo a capo del dipartimento di Educazione fisica, ma ci sarebbe stato un posto per lei. Nel frattempo, si sarebbe goduta la vita in quella bella casa. Gary fece inversione e tornò indietro. «Quella è di Damian e Louisa. La chiamiamo il Numero Dieci, come la casa del primo ministro. Noi siamo al 5».
«Damian e Louisa?»
«Il preside e sua moglie, ricordi? Ti ho parlato di loro».
Si fermarono davanti a una villetta dal civico sbilenco, le aiuole infestate dalle erbacce e il cestino dei rifiuti rovesciato. A venti metri dalla lussuosa casa del capo di suo marito, Helen ingoiò la delusione.
3
Martedì 6 aprile
Qualcosa la disturbò. Il caldo fagotto accanto a lei dormiva profondamente, raggomitolato sotto le coperte. Si girò. Di nuovo quel trillo.
«Gary». Spostò il piumone. «Il campanello».
Si era svegliata già una volta e aveva trovato Gary in piedi accanto alla finestra, ma, troppo stanca per fare domande, si era rimessa a dormire. Ora invece lui si raggomitolò ancora di più.
«Gary?».
Scese dal letto e diede un’occhiata in giro in cerca della vestaglia. La indossò sul corpo nudo e si diresse al piano di sotto. Il campanello suonò di nuovo.
Davanti alla porta c’era una donna dall’aspetto impeccabile. I capelli lunghi fino alle spalle erano di una sfumatura nocciola che solo un salone di lusso poteva far sembrare naturale e anche il trucco era perfetto. La donna la squadrò: i capelli arruffati, il viso struccato e la vestaglia di spugna fuori moda. Helen tirò giù il bordo senza riuscire a farlo arrivare oltre metà coscia.
«Entro, così non prenderai freddo», disse la sconosciuta facendosi strada all’ingresso. Chiuse la porta e l’aria si riempì del suo profumo Chanel. Helen finì per scusarsi di essere ancora a letto alle otto e mezzo. Sentì una vampata salire alle guance e al collo. Perché si comportava da stupida? Era a casa sua e avrebbe potuto dormire anche tutto il giorno, se avesse voluto.
«Hai fatto un lungo viaggio, Helen. È comprensibile», disse la donna.
Helen tirò di nuovo il bordo della vestaglia. Quella donna sapeva molte cose su di lei. Si domandò se tutti i vicini fossero così invadenti e si augurò di no.
«Sono passata per dirti che sto organizzando la tua festa di benvenuto. Stasera, alle sette, sette e mezza. Non devi portare nulla per questa volta. C’è Polly che mi aiuta e ovviamente Mel, santa donna». Alzò gli occhi al cielo, poi, senza attendere una risposta, aprì la porta e uscì.
«Ma… dove? E come ti chiami?», gridò Helen.
La donna si girò. «Gary non te l’ha detto? Sono Louisa».
Si incamminò lungo il vialetto, evitando le erbacce che spuntavano tra le pietre della pavimentazione.
Camminavano mano nella mano verso casa di Louisa e Damian Howard.
«Non avremmo dovuto portare qualcosa? Mi sembra scortese presentarci a mani vuote».
«Non preoccuparti. A Louisa piace ricoprire di attenzioni i nuovi arrivati. Immagino sia il compito della moglie di un preside». La tirò a sé sorridendo. «Andiamo, non vedo l’ora di vantarmi della mia splendida sposa».
Ad aprire la porta venne uno dei bambini che aveva visto giocare in strada il giorno prima. Avrà avuto otto anni.
«Ciao, Toby», disse Gary.
Il bambino indossava una camicia bianca e un papillon nero. «Sono molto felice di vederti», rispose. Sembrava recitare una parte. «Lascia che prenda il tuo cappotto. Oh, non lo hai». Quel particolare non previsto dal copione sembrò disorientarlo.
«Non preoccuparti, amico», disse Gary dandogli una pacca sulla spalla.
L’ingresso ampio odorava di buono, forse un’erba aromatica. Non c’era traccia della pratica moquette beige che avviliva i pavimenti della casa di Gary. Louisa e Damian dovevano averla sostituita con il linoleum. Poi, guardando meglio, Helen si rese conto che il pavimento era di legno massiccio. E così era questo il Numero Dieci. Si stampò queste parole in testa.
«Gary, caro». Louisa comparve in corridoio e lo baciò su entrambe le guance. Indossava dei pantaloni marroni su misura e una camicia di chiffon color crema. La moglie del primo ministro in tutto e per tutto, all’altezza della propria casa.
Louisa guardò i jeans di Helen. «Stai bene vestita casual», disse inclinando la testa nella sua direzione e mandandole un bacio.
Helen si irrigidì, ma lei sembrò non accorgersi di averla offesa. «Toby, cucciolo, sposta lo zaino. È una trappola mortale là sulle scale, dove lo hai lasciato. Mettilo nel seminterrato e preparati per l’esibizione».
«Sì, mamma», rispose lagnoso.
Il pavimento di legno proseguiva in un salotto con al centro un lussuoso tappeto color crema. Tutti i presidi vivevano in case così o solo quelli delle scuole internazionali? Una carta da parati a righe gialle e oro ornava la parete opposta. Alle finestre alla francese c’erano tende di velluto blu. Erano semichiuse, ma Helen riuscì a scorgere un trampolino nel grande giardino sul retro. Sulle altre pareti campeggiavano stampe di arte moderna. Le porte scorrevoli aperte sulla sala da pranzo, rivelavano una tavola elegantemente apparecchiata.
«Lo so, quelle porte sono terribili», disse Louisa spuntando dietro di lei con un’insalatiera piena. «Il prossimo progetto è farle togliere e abbattere il muro divisorio. È difficile per Damian accogliere ospiti importanti in un ambiente così piccolo. Non è vero, tesoro?». Diede un colpetto sul braccio di un uomo alto e biondo che era entrato portando due bicchieri di champagne.
«Si possono far accomodare dodici persone, Louisa. È sufficiente. Tu devi essere Helen. Io sono Damian». Il sospiro che aveva rivolto alla moglie si trasformò in un sorriso. Porse a entrambe un bicchiere e baciò Helen su una guancia. Il bacio fu castigato, ma la mano indugiò sul polso. Damian Howard le diede l’idea di essere il tipo che poteva trascorrere molto tempo a baciare le mogli altrui.
«Caro, perché non accompagni Gary a scegliere la birra? Sono certa che la preferisce allo champagne. Helen, vieni a conoscere Jerome e Polly. Jerome è il capo del dipartimento di Scienze». Con abile mossa, Louisa allontanò la nuova arrivata dal marito e la accompagnò dalla coppia che era appena entrata.
Jerome le strinse la mano.
La moglie, che reggeva un baby monitor, la salutò con un sorriso. «Gary ci ha parlato così tanto di te. Siamo felici di conoscerti». Indossava dei jeans. Chissà se Louisa aveva fatto ironia anche su di lei.
«Pensi che possa posarlo?», chiese la donna al marito, tenendo il monitor. Si voltò verso Helen: «Stiamo alla porta accanto, il numero 8, quindi controlliamo le bambine nel caso si sveglino. È questo il bello di abitare qui: sai sempre chi hai intorno».
Helen annuì, ma era stupita che una coppia borghese lasciasse le bambine senza supervisione, a parte un accessorio del Kit Maternità.
Suonarono alla porta e Louisa fece accomodare un’altra coppia. Era l’uomo che Helen aveva visto scendere dall’auto sportiva rossa. Le prese la mano. «Sono Chris Mowar e tu devi proprio essere la mia nuova vicina. Sarà un piacere».
L’uomo le trattenne la mano e scrutò il suo viso con occhi scintillanti. Helen pensò che fosse il caso di ritrarsi, ma Chris la lasciò andare a fatica, come se lei ci avesse messo più forza del necessario. Ebbe la sgradevole sensazione di essersi comportata esattamente come lui aveva previsto.
«Questa è Mel», disse l’uomo, come se stesse presentando qualcuno incontrato in corridoio.
La donna cercò di tenere in equilibrio il grosso piatto che reggeva con la sinistra per stringere la mano a Helen con la destra, ma non ci riuscì. Aveva la fronte imperlata di sudore. Quando Damian arrivò con un vassoio con la birra per Gary e altro champagne, la donna cercò di dargli il piatto che aveva portato.
«Scusa, Mel, io sono solo il barman. Poserò qui il tuo drink».
«Posso tenere io il piatto mentre bevi», disse Helen.
Mel fece di no con la testa. Doveva avere circa trentacinque anni, più o meno la stessa età del marito, Chris, ma lui era invecchiato meglio, nonostante i capelli bianchi. Era anche vestito meglio: la camicia di seta che indossava sembrava costosa. Osservando Mel, invece, Helen si domandò se Louisa non le avesse detto per scherzo che era una festa in maschera sexy: gli aderentissimi pantaloni di lycra leopardati evidenziavano la cellulite sulle cosce.
Quando Louisa tornò, Mel le porse il piatto. «Panini dolci, deliziosi», disse Louisa. «Mettili in cucina».
Polly guardò il baby monitor. «È per Purdy che sono più preoccupata. Questa settimana si è infilata tra due cuscini rischiando di soffocare».
«Purdy è il loro dalmata», spiegò Damian a Helen riempiendole il bicchiere. «Siamo una strada di amanti dei cani. Karola Barton, al numero 1, ha rinunciato a una carriera da avvocato per allevare springer spaniel. Secondo l’ultimo conteggio, lei e Geoff hanno sei cucce nel giardino sul retro. Anche noi abbiamo un cane, anche se Louisa lo tratta come se fosse il nostro quarto figlio. È nella stanza della musica ora». Con la testa indicò una porta oltre la sala da pranzo. «Sicuramente si unirà a noi per l’esibizione».
Prima che Helen potesse domandare a cosa si riferisse, Louisa batté un cucchiaio su un bicchiere. Tutti si zittirono e lei fece il suo annuncio: «È fantastico avervi qui ad accogliere la nuova arrivata, Helen. Vi prego di unirvi a me nel darle il tradizionale benvenuto alla Niers School».
Gli ospiti applaudirono con entusiasmo. Sembrava di entrare in una comunità religiosa. Helen tenne gli occhi bassi, fissi sul parquet, fino a quando l’applauso non cessò. Louisa smise di applaudire e tutti la imitarono.
«Ora i ragazzi si esibiranno per noi», disse. «Toby mi ha supplicato di poter suonare Kalinka, non è vero, Toby?».
Il ragazzino fece un sorriso confuso e aprì la porta dietro al tavolo della sala da pranzo, quella della stanza della musica. Apparve un cane grande quanto un orso polare che annusò gli ospiti colpendo le loro gambe con la coda scodinzolante. Mel Mowar deglutì e indietreggiò fino al tavolino da caffè.
Louisa afferrò il cane per il collare e lo trascinò attraverso la stanza. «Per l’amore di Dio, Mel, lo sai che Napoleon non ti fa niente. È solo socievole. Su, tutti nella sala della musica».
Mel respirava in modo irregolare ma nessuno si curò di lei, neanche suo marito Chris.
«Andiamo?», le sussurrò Helen all’orecchio.
Mel le sorrise sollevata.
Nella piccola stanza c’erano un pianoforte, una libreria di spartiti musicali e tre bambini: uno al violoncello, uno al violino e uno al tamburello. Appena gli ospiti entrarono, il più piccolo li salutò agitando il tamburello.
«Murdo, non suonare fino a quando non ti faccio cenno», gli disse Louisa.
«La la la», rispose il bambino.
Helen ebbe l’impressione che fosse più piccolo di quanto sembrasse, era carino. Sorrise.
Le dita eleganti di Louisa sfiorarono i tasti. Era palese che Toby non l’avesse affatto pregata di suonare quel brano. Lo aveva scelto la madre per mettere in mostra il proprio talento.
Helen spostò lo sguardo dalla libreria alla TV nell’angolo, poi sugli altri ospiti in quella stanza angusta. Guardò qualsiasi cosa pur di evitare l’espressione compiaciuta di Louisa. C’era una finestrella che dava sul giardino e qualcosa sul recinto sul retro attirò la sua attenzione. Un luminoso puntino arancione e un’ombra scura in movimento. Strizzò gli occhi per mettere meglio a fuoco.
Louisa eseguì un accordo difficile e Jerome Stephens fece un passo avanti per applaudire, coprendole la visuale. Helen inclinò la testa e vide delle mani e dei gomiti sul recinto. Poi apparve una faccia che sputò una sigaretta e sparì.
Stava per avvisare i padroni da casa, quando Toby andò al violoncello. Sarebbe stato scortese interrompere il bambino. Avrebbe aspettato che finisse. Si aspettava che suonasse malissimo, dando per scontato che Louisa fosse una di quelle madri illuse