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La moglie del mio migliore amico
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E-book148 pagine1 ora

La moglie del mio migliore amico

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Info su questo ebook

Ryan Matthews, ex dottore militare, è contento del suo nuovo ruolo di ostetrico: contribuire ogni giorno a rinnovare il miracolo della vita lo aiuta a superare il dolore di aver perso il proprio migliore amico in Iraq. Ma quando un giorno si ritrova sulla porta di casa la vedova di quest'ultimo, sola e incinta, tutte le sue certezze crollano e il suo mondo viene letteralmente capovolto. Da sempre abituato a contare solo su se stesso, si ritrova a doversi prendere cura di un'altra persona, con conseguenze irreparabili. Costretto a combattere contro dei sentimenti che non avrebbe nemmeno il diritto di provare, Ryan si rende conto che questa è l'unica battaglia che non sarà in grado di vincere.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2021
ISBN9788830526754
La moglie del mio migliore amico

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    Anteprima del libro

    La moglie del mio migliore amico - Susan Carlisle

    978-88-3052-675-4

    1

    Cosa faccio qui?, si chiese Phoebe Taylor per la centesima volta mentre cercava di stringersi la giacca sul ventre rigonfio. Chinando la testa contro il vento di Melbourne, Australia, continuò a camminare. Presto sarebbe cominciato a piovere.

    Lesse il nome della via... Morris Lane. Era il posto giusto. Non dovette nemmeno controllare il pezzo di carta che teneva nella borsa. Lo aveva imparato a memoria. Durante le ultime settimane lo aveva riletto decine di volte. Da quanto si sentiva così spaesata? Era accaduto per gradi negli ultimi mesi, mentre la sua pancia si gonfiava. Aveva sentito dire che la gravidanza cambiava le donne e ora capiva che quell'affermazione era vera. Temeva non soltanto i cambiamenti presenti, ma anche quelli futuri. Era terrorizzata all'idea di doverli affrontare da sola, senza nessuno che l'aiutasse.

    Percorse la via fiancheggiata da graziose villette. Joshua le aveva scritto che, se le fosse occorso qualcosa, avrebbe dovuto contattare Ryan Matthews. Tuttavia, chi era per lui? La moglie di un suo vecchio compagno d'armi. Si dicevano sempre quelle cose, di solito senza pensarle veramente. Però lei non sapeva a chi altro rivolgersi. C'erano i suoi colleghi insegnanti, ma erano tutti sposati con figli. Non avevano tempo di tenerle la mano. Conosceva molta gente, ma non poteva affidarsi a nessuno.

    Correva quel rischio perché Joshua glielo aveva consigliato. E perché aspettava il figlio di Joshua.

    Lo sconosciuto Ryan l'avrebbe aiutata? E, in seguito, le sarebbe rimasto vicino durante il parto? Avrebbe preso il posto di Joshua? Le sembrava impossibile che potesse acconsentire. Chi voleva sobbarcarsi la moglie incinta di un altro uomo? Non glielo avrebbe mai chiesto. Comunque come poteva prevedere il suo comportamento? Non sapeva niente di lui, a parte quello che le aveva detto Joshua.

    Quando l'aveva assalita il panico, si era ricordata della lettera del suo defunto marito. Le era parso che le offrisse la salvezza. Phoebe trasse un lungo sospiro. Era arrivata fino a quel punto, non poteva tornare indietro. In fin dei conti Ryan non poteva farle niente di male, al massimo l'avrebbe respinta.

    Di una cosa era sicura: non voleva più sentirsi sola. Voleva appoggiarsi a qualcuno, stare vicino a una persona che avesse conosciuto Joshua. Sentire qualche storia sul conto del marito che avrebbe potuto raccontare a suo figlio. Joshua e Ryan erano stati compagni d'armi, si erano aiutati a vicenda. Nella sua ultima lettera, sette mesi prima, il marito le aveva assicurato che, se mai le fosse occorso qualcosa... qualunque cosa... poteva rivolgersi a Ryan. E ora Phoebe stava andando da lui per scoprire se era vero.

    Trovò il numero della casa, dipinto in nero sulla porta bianca. Una macchina che percorreva la via la distrasse per un attimo. Phoebe tolse il foglietto dalla borsa e lesse di nuovo l'indirizzo, poi tornò a sbirciare l'ingresso. Esitò, fissando i gradini; il suo coraggio pareva svanito.

    Cos'avrebbe detto? Aveva provato il discorso per settimane e non sapeva se sarebbe riuscita a ripeterlo. Mentre attraversava la città lo aveva ripetuto di nuovo, ma non riusciva a renderlo convincente. Il suo piano le sembrava assurdo. Forse era pazza, tuttavia doveva pur dire qualcosa, spiegare il motivo della visita.

    Ciao, sono Phoebe Taylor. Eri amico di mio marito. Ha detto che in caso di bisogno mi sarei dovuta rivolgere a te, ed eccomi qui.

    Avrebbe ottenuto la sua attenzione, poco ma sicuro. Si posò la mano sul ventre. Al momento penserà che sono venuta ad accusarlo di essere il padre.

    Trattenne il fiato e bussò alla porta. Passarono i secondi, e non venne nessuno. Non voleva tornare a casa senza avere visto Ryan. Le erano occorsi mesi per trovare il coraggio di andare là. Stava calando la sera, probabilmente sarebbe rincasato presto.

    A destra della porta c'era una piccola panca di legno. Avrebbe aspettato, sperando che arrivasse. Appoggiò una mano contro la parete e si sedette lentamente, ridacchiando per lo spettacolo che doveva offrire. Come un pallone sopra un vaso di fiori.

    In ogni caso aveva bisogno di riposare. Si stancava facilmente. Non era semplice tenere a freno venti alunni di quinta, ma amava il suo lavoro. Se non altro i suoi piccoli allievi la distraevano dal fatto che presto avrebbe avuto un bambino. Sola.

    Phoebe non aveva l'abitudine di piangersi addosso. Si era sempre considerata forte, capace di affrontare la vita. Era sempre riuscita a essere incoraggiante anche nei momenti in cui Joshua si preparava a tornare sotto le armi. Quando si erano sposati, sapeva bene cosa aspettarsi. Perché, allora, la sconvolgeva così tanto l'idea di avere il bambino senza un uomo al suo fianco?

    Dopo essersi accostata nuovamente i lembi della giacca sulla pancia, appoggiò la testa nell'angolo della veranda e chiuse gli occhi. Avrebbe riposato qualche minuto.

    Il sole era appena tramontato quando Ryan Matthews parcheggiò la macchina sportiva nel solito posto. Aveva guidato sotto la pioggia dall'ospedale a casa. La luce dei lampioni proiettava le ombre degli alberi sul marciapiede e sulle verande delle case.

    Era reduce da una giornata faticosa con tre parti, uno dei quali particolarmente difficile. Niente era andato per il verso giusto. Entrambi i gemelli si erano presentati in posizione podalica. Tuttavia i bimbi erano venuti al mondo strillando e scalciando. Grazie al cielo! Tutta la stanchezza era parsa svanire appena aveva sentito il primo gemito. Amava accogliere una vita e odiava arrendersi alla morte.

    Scese dalla macchina e prese la borsa con gli indumenti. Troppo esausto per cambiarsi, portava ancora il camice dell'ospedale. Per quanto amasse il suo lavoro, trentasei ore di seguito erano troppe. Non vedeva l'ora di una doccia calda e di andarsene a letto per godersi una giornata di vacanza al risveglio. Una sedia da aggiustare, insieme a un tavolo che aveva promesso di riparare per un amico, lo aspettavano nel seminterrato che aveva trasformato in laboratorio. Non voleva pensare, soltanto godersi il piacere di creare qualcosa con le proprie mani.

    Con la borsa in mano e un rotolo d'indumenti da lavare sotto il braccio, salì i gradini. La luce era ancora accesa sopra la porta. Si fermò bruscamente sulla scala d'ingresso. Seduta sulla veranda c'era una donna chiaramente incinta. Come ostetrico nel reparto maternità del Victoria Hospital di Melbourne, quel giorno ne aveva viste fin troppe. Come se non fossero bastate quelle dell'ospedale, ne trovava una sulla soglia di casa!

    A giudicare dalla posizione raggomitolata e dal colore bluastro delle labbra, doveva essere lì da un pezzo. Perché sfidava il freddo? Avrebbe dovuto avere cura di sé, specialmente in quello stadio della gravidanza. Un braccio era steso sul ventre. Portava un grazioso copricapo confezionato all'uncinetto e i capelli rossi le incorniciavano il viso, scendendo sulle spalle.

    Ryan trasse un sospiro rassegnato e continuò a salire i gradini. Quando giunse all'ultimo, la sconosciuta si riscosse e aprì gli occhi. Erano grandi, color ambra con pagliuzze dorate. Non aveva mai visto occhi così ipnotici... e tristi.

    Provò l'impulso di proteggerla e ne fu stupito. Non gli capitava spesso. Aveva fatto voto di non legarsi a nessuna donna, di non provare emozioni troppo profonde. Represse l'impulso, dicendosi che doveva dipendere dalla stanchezza.

    «Le occorre qualcosa?»

    La sconosciuta si raddrizzò lentamente, si strinse la giacca sul ventre e lo fissò senza rispondere.

    «Ha bisogno di aiuto?» le chiese nuovamente.

    «Lei è Ryan Matthews?» domandò la donna.

    Lui spalancò gli occhi e indietreggiò di un passo, fermandosi un attimo prima di cadere sui gradini. La conosceva? Sembrava giovanissima. Eppure, per qualche motivo, il suo viso non gli era nuovo. Che l'avesse vista nella sala d'attesa dell'ospedale?

    Sbirciò di nuovo il suo ventre. Aveva sempre usato contraccettivi, a parte il fatto che quella donna era troppo giovane per lui. Probabilmente le serviva un medico. «Sì.»

    «Sono Phoebe Taylor.»

    Quel nome avrebbe dovuto dirgli qualcosa? Ryan socchiuse gli occhi, osservandola al tenue chiarore del crepuscolo. «Ci conosciamo?»

    «Devo andare.»

    La donna tese il braccio, come se volesse appoggiarsi alla parete per alzarsi. Così facendo, lasciò cadere un pezzo di carta.

    Ryan lo raccolse. C'erano scritti il suo nome, l'indirizzo e il numero di telefono. Glielo avevano dato alla clinica?

    «Chi glielo ha dato?» chiese.

    «Dovrei proprio andare.» Phoebe si diresse verso i gradini. «Mi scusi, ho fatto male a venire. Me ne vado subito.»

    «Non capisco.»

    «Non so bene cosa volessi fare. Me ne vado» insistette con voce tremante.

    Lui allungò la mano per cercare di rassicurarla. «Pensi al bambino.»

    «Non faccio altro. Devo andare. Mi scusi, ho fatto male a venire. Non so... cosa mi sia saltato in mente. Non mi conosce.» Si prese la testa fra le mani e scoppiò a piangere. «Me ne vado. È... troppo imbarazzante. Deve credermi pazza.»

    Ryan stava cominciando a pensarlo. Quale persona sana di mente si sarebbe comportata in tal modo?

    «Non ho mai fatto niente di simile. Devo andare» sussurrò.

    Le parole erano soltanto un bisbiglio fra le lacrime e lui faticò a sentirle. Si guardò intorno. Se avesse continuato con quell'atteggiamento, i vicini avrebbero chiamato la polizia.

    Come aveva detto di chiamarsi? Phoebe?

    «Dovrebbe calmarsi. L'agitazione nuoce al bambino. Fa freddo e fra poco sarà buio. Entri, ha bisogno di asciugarsi.»

    Certo, non era quello il suo programma per la serata, ma non poteva lasciarla lì.

    «No, davvero, l'ho già disturbata abbastanza. Dovrei proprio andarmene.» Per fortuna aveva smesso di piangere, ma i suoi occhi erano ancora lucidi. Gli rivolse uno sguardo addolorato. «Vede, ha conosciuto mio marito...»

    «Suo marito?»

    «Joshua Taylor.»

    Ryan fece una smorfia. JT apparteneva al passato. Una parte della vita che si era lasciato alle spalle. Da sette mesi non sentiva quel nome... da quando aveva saputo che era morto durante il bombardamento del suo convoglio.

    Perché sua moglie era là? Ryan non voleva

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