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La villa del mercante di cioccolato
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La villa del mercante di cioccolato
E-book561 pagine7 ore

La villa del mercante di cioccolato

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Info su questo ebook

La giovane figlia di un agiato produttore di cioccolato desidera guidare l’impresa di famiglia, ma il padre la pensa diversamente 

Stoccarda, 1903. Judith Rothman è la figlia di uno stimato produttore di cioccolato e vive una vita agiata. Trascorre ogni minuto libero nella cioccolateria sperimentando idee creative per nuovi dolci deliziosi. Non vede l’ora, infatti, di prendere finalmente le redini dell’impresa di famiglia. Il padre di Judith però ha ben altri piani per lei, che prevedono un matrimonio molto vantaggioso con un uomo che la figlia non ama, né potrà mai amare… Judith è disperata all’idea di essere costretta a rinunciare al suo sogno, ma l’incontro con Victor Rheinberger, giovane e carismatico ufficiale appena giunto in città, potrebbe cambiare ogni cosa. Riusciranno Judith e Victor a diventare padroni del loro destino? In un’epoca in cui il progresso ha velocizzato le lancette del tempo all’improvviso, l’amore sembra essere un sentimento ormai destinato solo a libri e favole.

Oltre 150.000 copie vendute
20 settimane nella classifica dei bestseller in Germania

Il destino di una donna.
L'eredità di una famiglia.
La storia di una passione.

«Il mix perfetto di cioccolato, storia e amore.»

«Molto ben scritto. Ci trasporta nella Stoccarda di inizio secolo senza rinunciare a un po’ di romanticismo.»

«Dolce preludio a un’imperdibile saga familiare.»

Maria Nikolai
è autrice di numerosi romanzi storici. Con La villa del mercante di cioccolato è riuscita a coniugare la sua passione per le saghe storiche, il romanticismo e il cioccolato.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2019
ISBN9788822737168
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    Anteprima del libro

    La villa del mercante di cioccolato - Maria Nikolai

    Capitolo 1

    Stoccarda, fabbrica di caramelle e cioccolato Rothmann, fine gennaio 1903

    Quando Judith Rothmann varcò il negozio della fabbrica di dolci del padre, il campanello della porta di ingresso emise il consueto suono squillante e familiare. Si assicurò di aver chiuso bene la porta dietro di sé e si pulì velocemente gli stivali bagnati sullo zerbino che era stato messo lì apposta. Il tempo era davvero inclemente. Pioveva ormai da diversi giorni e c’era vento e nebbia.

    Nell’attimo stesso però in cui quel mondo esterno così inospitale venne tagliato fuori, l’inconfondibile profumo di cioccolato e dolciumi di cui il negozio era pervaso la riappacificò. E fu subito di buonumore. A passi spediti misurò la stanza riccamente ornata di specchi, cornici d’oro e stucchi lasciando vagare il suo sguardo esperto sulla merce in esposizione.

    Un numero infinito di raffinate prelibatezze si presentava sul bancone pulito a specchio e nelle vetrine laccate di bianco lungo le pareti. Ovunque si guardasse c’erano vassoi e alzate, confettiere in vetro e barattoli con decorazioni artistiche dal contenuto invitante. Un dolce con glassa di cioccolato, fatto di frutta secca o marzapane, trovava posto accanto a stecche di zucchero rivestite di cioccolato, tavolette di cioccolato dei tipi più diversi e ogni genere di caramelle. Una selezione esclusiva delle specialità Rothmann, sistemata accuratamente su pizzi dalle tonalità chiare in cassettine di legno dipinte in modo delizioso, era in attesa di ricevere la giusta attenzione.

    Era giovedì pomeriggio e il negozio era affollato. Mentre risistemava qua e là alcuni vassoi, senza farsi vedere Judith si infilò in bocca un pezzetto del suo dolce preferito e gustò l’aspra dolcezza del cioccolato fondente ai frutti di bosco sciogliersi delicatamente. Senza dare nell’occhio esaminava intanto la clientela.

    Un signore elegante si era levato il cappello e stava cercando con tutta probabilità il regalo giusto per una visita pomeridiana. Voleva forse compiacere la sua adorata perché la decisione cadde su un assortimento di raffinati cioccolatini e alcune roselline rosse di pasta di zucchero. Accanto a lui due ragazzine ridacchiavano chine su un piatto d’argento con dragée di diversi colori. Un banco più avanti tre donne in costosi abiti di seta si stavano facendo mostrare una selezione delle migliori specialità che la casa avesse da offrire mentre una madre faticava, malgrado l’aiuto dell’istitutrice, a tenere a freno i suoi vivaci quattro figli strabordanti di desideri.

    Dalla prossima estate dovremmo vendere anche il gelato, pensò Judith vedendo quella scalmanata banda di monelli e si ripromise di parlarne con il padre. Aveva da poco acquistato un libro di ricette usato di Agnes Marshall ed era rimasta affascinata dalla descrizione di una macchina capace di preparare gelato utilizzando latte, panna, zucchero e aromi. Le numerose idee creative dell’inglese l’avevano fatta viaggiare con la fantasia e già vedeva l’azienda Wilhelm Rothmann al primo posto a Stoccarda come produttore di gelato alle mele cotogne, all’ananas, alla vaniglia e soprattutto al cioccolato. Che suo padre potesse persino essere scelto come fornitore di corte?

    Judith era orgogliosa dei risultati raggiunti dalla sua famiglia. E lei si riconosceva proprio in quel mestiere. Da quando aveva messo piede nel mondo del cioccolato, non riusciva a trattenere entusiasmo e nuove idee. In cuor suo sperava che un giorno avrebbe potuto prendere delle decisioni importanti per la fabbrica Rothmann, sebbene suo padre sminuisse le chiare allusioni in tal senso come assurde chiacchiere femminili. Secondo lui alle donne spettava un ruolo di secondo piano, dovevano occuparsi della casa e educare i figli. A Judith non era certamente sfuggito che questa era senza ombra di dubbio una presa di posizione che non ammetteva obiezioni. In città come Monaco o Berlino sempre più donne assumevano ruoli in attività commerciali. Perché non poteva essere possibile anche a Stoccarda?

    Aveva nel frattempo proseguito il suo giro e alla fine si rivolse a una delle tre commesse che, nei loro abiti neri con i grembiuli bianchi inamidati di fresco, servivano i clienti.

    «Signorina Antonia, mi raccomando, oggi bisogna consigliare anche i biscotti alla menta appena sfornati. La cosa migliore è mettere i vassoietti direttamente sui banchi di vendita».

    «Certamente, signorina», rispose la ragazza eseguendo immediatamente gli ordini.

    La madre nel frattempo, insieme all’istitutrice e alla prole, aveva terminato i suoi acquisti e si avviava a lasciare il negozio. Alla porta di ingresso ebbe inizio un piccolo litigio perché tutti i bambini volevano uscire per primi. L’istitutrice, carica all’inverosimile di pacchetti e travolta da quel trambusto, barcollò e fece cadere parte del suo carico. Mentre cercava di riprendere l’equilibrio, il più piccolo dei fratelli inciampò su una scatolina e cadde lungo disteso sulle piastrelle del pavimento lanciando grida disperate.

    «Vuoi startene zitto!», sfuggì di bocca all’istitutrice. La madre le lanciò un’occhiata e senza scomporsi portò fuori il resto della frotta. Il lamento si fece più acuto, il piccolo rimase steso sul pavimento, con tono irato e a voce bassa l’istitutrice lo esortò nuovamente e, cercando di ricomporsi, iniziò a raccogliere i pacchetti.

    Nel tentativo di evitare che la situazione degenerasse, Judith prese una caramella gelèe di mele cotogne, la porse al birbantello e lo fece alzare. Allo stesso tempo diede istruzioni alla commessa Trude di aiutare l’istitutrice con le confezioni regalo rimaste sul pavimento e quando tutti uscirono chiuse finalmente la porta.

    I clienti presenti avevano seguito la disavventura, in parte indignati ma soprattutto divertiti, e ora erano tornati a rivolgere l’attenzione altrove, richiamati dai loro desideri. Con un breve cenno del capo Judith si congedò dal personale e, tramite una porta comunicante, arrivò alla tromba delle scale di un salone che collegava il negozio alla fabbrica.

    Quello era il cuore pulsante dell’azienda, un regno magico fatto di cacao, zucchero e spezie, che Judith amava sin da quando da bambina, piena di stupore e meraviglia, aveva varcato la soglia della fabbrica di cioccolato per la prima volta. In quel momento provò una strana sensazione allo stomaco.

    Già a colazione suo padre aveva fatto capire che la sera le avrebbe dovuto parlare di qualcosa di importante e da allora Judith non aveva smesso di chiedersi di cosa potesse trattarsi. Non era solito lanciare quelle velate allusioni e poiché la sua curiosità cresceva e la tormentava, aveva deciso di andare subito a cercarlo in azienda. Forse le avrebbe già svelato qualcosa, sebbene sapesse che non amava ricevere visite private durante l’orario di lavoro.

    Ignorando quella voce ammonitrice, salì determinata i gradini che la portarono al piano superiore dell’edificio dove si trovavano gli uffici aziendali.

    Quando Judith entrò, nella ragioneria regnava la calma tipica degli uffici in cui tutti sono molto affaccendati. Sugli scrittoi in legno di quercia laccato lavorava oltre una dozzina di uomini in giacca e cravatta. Erano impegnati a tenere la contabilità e l’inventario merci della fabbrica di cioccolato. L’aria odorava di inchiostro e carta, lucido, cera per pavimenti e dell’eau de Cologne degli impiegati. Quando questi si accorsero della presenza di Judith uno di loro le andò subito incontro.

    «Cosa posso fare per voi, signorina Rothmann?»

    «Mio padre è nel suo ufficio?»

    «Certamente. Lo avviso subito».

    «Non è necessario. È solo?»

    «In questo momento non c’è nessuno con lui, gentile signorina».

    Judith fece un cenno col capo. Mentre lui ritornava al suo posto, lei andò verso una stanza separata che si trovava in fondo, dalla parte opposta alla ragioneria, bussò alla porta a vetri colorata con decorazioni in filigrana ed entrò.

    Suo padre era in piedi alla finestra e stava guardando la strada davanti alla fabbrica. Quando vide Judith si voltò improvvisamente come se fosse stato colto in flagrante.

    «Judith!», disse in tono brusco. «Perché sei venuta qui?». Ritornò veloce dietro alla sua imponente scrivania in perfetto ordine dove si trovava aperto un grande registro contabile. «I tuoi fratelli hanno combinato di nuovo dei guai?»

    «No, signor padre», esordì Judith, accennando un sorriso. «Non questa volta».

    «Sarebbe meglio dare una controllata prima che succeda qualcosa».

    «Non vi preoccupate, signor padre, Robert li sta tenendo d’occhio». Il domestico aveva portato con sé i suoi vivaci fratelli gemelli di otto anni a fare una commissione. «Sono qui perché vorrei farvi una proposta», aggiunse Judith. Cercava di essere il più disinvolta possibile, e sperava di riuscire a carpire cos’era la cosa così importante che lui doveva dirle.

    «Adesso non ho tempo», le rispose il padre impugnando una matita. «È meglio che torni a casa o che aiuti a preparare i pacchetti dei campioni per i commessi viaggiatori. Ne parliamo stasera».

    «Ma è una cosa importante». Judith non si lasciò scaricare così facilmente. «Siete sempre alla ricerca di nuovi prodotti, non è vero?»

    «Perché, avresti ancora qualcosa da suggerire?».

    Judith fece finta di non accorgersi del velo di tensione nella sua voce. «Sì, se me lo consentite. Siamo ancora a inizio anno ma certe cose vanno programmate per tempo. Lo dite sempre anche voi, signor padre. Per questo ho pensato se non fosse il caso di proporre del gelato per l’estate».

    Suo padre rise con tono beffardo. «E questa per te è una cosa importante? Fammi questa cortesia, Judith, lasciami lavorare. Qui va tutto a scatafascio. Ci manca anche che debba pensare al gelato».

    «Certe idee non si possono rimandare», perseverò Judith. «Poco fa c’erano dei bambini in negozio e avrebbero potuto gradirlo. Certamente ci sono tante cose a cui dobbiamo pensare, come refrigerarli, il trasporto, ma…».

    «Basta, stai zitta», disse suo padre spazientito. «La tua potrebbe anche essere un’idea degna di considerazione, ma sono con l’acqua alla gola. Torna a casa. Anzi, dico a Theo di riaccompagnarti. Comunque durante l’estate sarai impegnata con altro e non dovrai preoccuparti della produzione di gelato».

    Judith rizzò gli orecchi. «Non ho capito, signor padre».

    «Non c’è nulla da capire». Si mise a tamburellare con la punta delle dita sul piano della scrivania. «Sai benissimo da sola cosa un padre possa aspettarsi da una figlia adulta. Per questa ragione ti preoccuperai presto di completare la tua dote».

    Per un attimo un silenzio carico di tensione invase la stanza e Judith cercò di cogliere il contenuto di quella frase. Infine riuscì a balbettare qualcosa.

    «Questo significa che devo…».

    «Ti sposerai. Significa precisamente questo. A ventun anni sei sufficientemente grande per farlo. In realtà avrei voluto parlartene stasera ma è andata così. Adesso lo sai».

    Tornò chino al suo lavoro.

    «Ma chi dovrei sposare?», chiese Judith inorridita.

    Non riusciva a credere a quello che le era stato appena annunciato, anche se da parecchio tempo aveva un leggero presentimento. «Non c’è nessuno, vero?»

    «Non ancora, ma non per molto», si limitò a dire suo padre e iniziò a fare annotazioni su una pagina del registro contabile. «Ti informerò per tempo. Dovresti avere più fiducia in me».

    A Judith tremavano le ginocchia. Il suo brutto presentimento non l’aveva ingannata. Ecco di cosa voleva parlarle. Doveva sposarsi e senza avere alcuna voce in capitolo.

    A fatica soffocò l’impulso di ribattere inopportunamente. Una risposta pungente avrebbe solo reso tutto ancora più difficile. Strinse allora le mani a pugno, girò i tacchi e lasciò la ragioneria in fretta e furia. Il rumore dei tacchi riecheggiò mentre si affrettava giù dalle scale, aveva il volto rigato di lacrime, anche se in realtà non avrebbe voluto piangere.

    Era troppo chiedere di aspettare ancora un po’ per il matrimonio? Fino a quando non fosse stata lei a trovare qualcuno? Un uomo che amava. E che avrebbe accettato e magari apprezzato il suo amore per il lavoro alla fabbrica di cioccolato e il fatto che non volesse finire chiusa in casa come sua madre.

    Judith si avvolse stretta nel cappotto e uscì in quel pomeriggio umido. Non sentiva né la pioggia, né il freddo mentre camminava senza meta lungo le strade di Stoccarda fino a ritrovarsi infine davanti alla stazione della ferrovia a cremagliera su Marienplatz. Salì su una delle carrozze dirette a Degerloch, una stazione climatica alle porte della residenza reale, dove abitava con la sua famiglia in una proprietà all’interno di un insediamento di ville di recente costruzione. Durante il viaggio verso casa il suo smarrimento si trasformò nel consueto spirito combattivo. Nessuno poteva decidere così facilmente della sua vita e del suo futuro. Nemmeno suo padre.

    Capitolo 2

    Coblenza, fortezza prussiana di Ehrenbreitstein, fine febbraio 1903

    Era l’alba e dal cielo offuscato dalla nebbia trapelava una luce pallida che quasi non toccava neppure terra. Non riusciva a scacciare né il freddo della notte passata né la sua ombra. I colori e le voci erano sbiaditi, i contorni della cittadella sfumati, persino il grande fiume, che da tempo immemorabile confluiva nelle acque della Mosella ai piedi dello spuntone di roccia, pareva ammutolito nell’aria caliginosa impregnata del fumo dei numerosi camini.

    Il familiare scatto di ritorno del catenaccio della sua cella spezzò la tranquillità mattutina. Victor era in piedi davanti alle sbarre della finestra che assicurava luce all’angusta stanza, si girò e annuì alla guardia carceraria che entrò.

    Il momento era arrivato.

    Per l’ultima volta il suo sguardo contemplò la stanzetta con l’arredamento spartano in legno e il telaio del letto in ferro, su cui aveva piegato meticolosamente la coperta a quadretti blu e bianchi. Dopodiché s’infilò il mantello logoro, sollevò la valigia consunta, prese il cappello e seguì la guardia fuori dal bastione in quella mattina diversa dalle altre. Attraversarono il cortile superiore e raggiunsero l’alto fronte orientale. Rimasero un attimo davanti alle quattro colonne del portico e Victor sentì ancora una volta su di sé l’effetto delle facciate color giallino degli edifici tutto intorno a lui, la cui architettura classicheggiante si contrapponeva in modo spettacolare all’aspetto minaccioso del resto della fortezza. Venne infine condotto nella camera di servizio del comandante della fortezza al primo piano sopra il comando centrale di polizia.

    Quando uscì, una mezz’ora più tardi, chiese alla guardia carceraria di avere ancora un momento per sé. Questa annuì e rimase in piedi mentre Victor, passando accanto a un gruppo di soldati in esercitazione, andò verso l’ampio cortile e salì sul muro esterno di media altezza. Con tranquillità appoggiò il suo bagaglio e si sporse sulla massiccia recinzione.

    Si poteva solo vagamente intuire la grandiosa vista che nei giorni limpidi si aveva da lì su Coblenza e su entrambi i fiumi che in quel punto facevano una prolungata ansa e si mettevano in viaggio verso nord. Quello che si intravedeva erano solo le ombre di case, prati e campi. Delle vette lontane del Vulkaneifel, con i suoi placidi laghi e i fitti boschi, non si vedeva assolutamente nulla.

    Victor sospirò.

    Il primo momento dopo la sua scarcerazione se l’era immaginato diverso. Innumerevoli volte nei suoi pensieri era salito su quel muro, come un uccello che dispiega le ali. Avrebbe voluto assorbire quella genuina grandezza, osservare tutto dall’alto, prima di impadronirsi di nuovo del mondo, e prima che il mondo si impadronisse di nuovo di lui.

    La foschia di quell’umida giornata di febbraio diminuì il piacere del momento, ma Victor decise di non prendersela. Il panorama coperto non era certo un dramma dopo le amare lezioni degli ultimi anni. Era finita e questo era tutto ciò che contava. Si allontanò bruscamente, prese la sua valigia e si lasciò scortare per gli ultimi metri.

    La via verso la libertà passava sotto la Felsentorwache verso l’antistante Fort Helfenstein e da lì in discesa attraverso diversi posti di guardia e altre porte fino alla località di Ehrenbreitstein.

    Passo dopo passo sulla roccia scoscesa e ricoperta di vegetazione, Victor metteva distanza tra sé e l’estesa fortezza sopra di lui, considerata inespugnabile. Sul terreno fangoso le suole consumate persero più di una volta aderenza. Riuscì tuttavia a tenersi in equilibrio e ciò lo riempì di immenso orgoglio. Isolate raffiche di vento gli spiravano una fredda umidità sul collo che lo faceva rabbrividire. Quando finalmente arrivò in città, gli tremavano le ginocchia per la fatica.

    Dovette attendere al ponte di barche mobile fino a quando i due tronconi alzati si richiusero dietro a un piccolo battello a vapore, poi attraversò il Reno, corrispose i due scellini per il passaggio sul ponte e raggiunse finalmente il complesso dei giardini sul lungofiume, a Coblenza.

    La cappa di nubi si era diradata.

    Victor esitò.

    Poi, ancora una volta, si girò verso il monumento di difesa in alto sullo sperone, le cui mura grezze e senza intonaco stavano gradualmente prendendo forma nel giorno che avanzava.

    Per due anni la fortezza di Ehrenbreitstein era stata la sua prigione; quella massiccia testimonianza del potere prussiano a ovest del regno con il suo groviglio fatto di passaggi, ponti e strade per i rifornimenti, giovani soldati, acquartieramenti, officine di lavoro e casematte per la difesa, mura spesse, trincee e portoni. Là aveva scontato la sua pena per un duello che avrebbe evitato volentieri e il cui sfortunato epilogo lo aveva degradato al rango di criminale. Aveva se non altro avuto un trattamento privilegiato per la sua detenzione ed era giunto nei decorosi alloggi della prigione presso Coblenza, ben lontano da Berlino e dai ricordi opprimenti che Victor collegava alla sua città natale.

    Percepiva grida e risate, la sirena di una nave, il latrato di un cane. Il mondo aveva ritrovato la sua lingua e persino la triste aria invernale gli pareva spumeggiante.

    Camminò ad ampie falcate con passo deciso. Gli sembrò sempre più facile trascinarsi dietro le gambe e un improvviso senso di felicità gli pervase la testa e il corpo. In quel crescendo euforico era ovviamente ben consapevole che la libertà nuovamente conquistata celasse non solo infinite possibilità ma anche un certo pericolo. E con la stessa volontà con la quale voleva iniziare il suo futuro, avrebbe dovuto chiudere con il suo passato.

    Raggiunse il massiccio edificio a due piani della stazione di Coblenza. La camminata lo aveva accaldato, sebbene a ogni respiro formasse una nuvoletta bianca e senza quasi nemmeno aprire le labbra. Victor acquistò un biglietto e si sedette su una panca nella sala d’attesa. Ci voleva ancora un’ora buona prima dell’arrivo del suo treno.

    In un angolo del grande edificio scorse un distributore automatico dove due bambini, probabilmente fratello e sorella, stavano armeggiando. L’istitutrice sedeva accanto annoiata con il naso immerso in un libro. Intanto sembrò che i bambini fossero arrivati a una lotta in piena regola, nella quale la bambina non aveva nulla da invidiare al fratello, per la conquista di ciò che il distributore automatico conteneva. Finalmente, eccola trionfare con una piccola barretta nella mano. Era cioccolato, notò Victor divertito. Con il suo tesoro in mano si mise a correre per sfuggire al fratello, che prima fece il muso lungo, ma poi si lanciò determinato all’inseguimento.

    Victor non poté trattenere la sua curiosità. I distributori automatici lo avevano sempre affascinato e quello era abbastanza nuovo. Si alzò e guardò attentamente l’apparecchio. Stollwerck. L’azienda di Colonia aveva da anni molta creatività nella produzione dei suoi cioccolatini e aveva iniziato anche a fornire i propri distributori automatici in tutto il mondo. Offrivano, tra le altre cose, saponette, ma nelle stazioni anche biglietti di viaggio.

    La macchinetta in ghisa pitturata di grigiazzurro con pregiate decorazioni d’oro gli arrivava quasi fino al mento. Dietro a una finestrella incastonata a forma di arco si trovavano, ben visibili, diversi scomparti con tavolette di cioccolato. In alto c’era una fessura per l’inserimento delle monete e sopra a un cartello smaltato si trovavano le istruzioni. Una tavoletta costava dieci scellini. Immediatamente Victor fece un calcolo approssimativo delle tavolette di cioccolato contenute e si rese conto che per Stollwerck si trattava di un affare remunerativo. Rinunciò a prenderne una, in compenso il suo spirito d’ingegno si era messo in moto. Tornando al suo posto iniziò già a fantasticare di lavorare a un progetto simile.

    Una volta stabilitosi nella sua nuova patria e con una dimora, si sarebbe cimentato in uno schizzo. Con questi pensieri tolse dalla tasca dei pantaloni un biglietto spiegazzato sul quale c’era un indirizzo: edgar nold, silberburgstraße, stoccarda.

    Dopo la sua scarcerazione non sarebbe mai venuto in mente a Victor di cercare fortuna proprio a Stoccarda, ma da quando un compagno di prigione gli aveva caldamente consigliato la residenza reale nel sud del paese, non se l’era più tolta dalla mente. A quanto pareva Stoccarda era in piena espansione, offriva quindi buone opportunità di lavoro ed era sufficientemente lontana da Berlino per un nuovo inizio libero da fardelli. Perlomeno lì nessuno lo avrebbe giudicato.

    Pochi giorni prima un compagno di prigionia gli aveva dato il recapito di un lontano parente, appunto un certo Edgar Nold, al quale avrebbe potuto rivolgersi dopo il suo arrivo. In quel modo gli sarebbe stato più semplice muovere i primi passi nella nuova città.

    Finalmente un sibilo acuto annunciò l’arrivo del treno di Victor che si arrestò con una frenata stridente; un colosso di acciaio immerso nel vapore e in una cortina di fumo. Dei viaggiatori scesero dagli scompartimenti di prima classe. Erano avvolti in caldi scialli o lunghi cappotti, gli uomini abbassavano i cappelli fin sul viso. Alcune signore indossavano pellicce pregiate e avevano le mani nascoste in manicotti di pelliccia, mentre la servitù si occupava dei loro bagagli e apriva in fretta gli ombrelli per proteggere i loro padroni dal tempo avverso. Dalle altre carrozze scesero i meno abbienti che con le dita intirizzite trascinavano da soli le loro borse e valigie. Frettolosi, puntarono verso l’uscita.

    Victor lasciò l’atrio della stazione e andò sul binario. Attese paziente che il grappolo di viaggiatori si distribuisse nelle carrozze. In uno scompartimento di terza classe stipò il suo bagaglio, si sedette sulla panca di legno e osservò dal finestrino appannato l’andirivieni sul binario.

    Infine le porte si chiusero. Con un fischio stridulo il treno si mise in lento movimento.

    Era l’inizio della sua nuova vita.

    Capitolo 3

    Stoccarda, villa di città dei von Braun, una sera di marzo 1903

    Il liquido verde riluceva in modo seducente. In ciascuno dei tre calici di cristallo sul tavolo erano imprigionati i riflessi dell’assenzio che, nella luce bassa della candela che andava consumandosi, creava l’atmosfera tipica di una heure verte francese.

    Altrettanto rilassati erano i tre giovani uomini che si erano ritrovati nelle prime ore di quella sera per celebrare il costoso rito che li univa da molto tempo.

    Era stato il longilineo Edgar Nold che aveva portato la prima bottiglia di vermut da un viaggio a Parigi, dopo essere rimasto fortemente impressionato dalla ricercata sciatteria con la quale gli intellettuali francesi celebravano la loro ora verde. Da allora la sua anima sensibile di artista cedeva più che volentieri allo charme della bevanda alle erbe, il cui consumo non prometteva solo una sbornia di tutto rispetto. Gli regalava sempre la sensazione di essere sospeso sulle cose in modo insolito, senza rabbia né risentimento. E quando succedeva davvero così, pensava solo al giorno tanto atteso in cui la sua pittura sarebbe stata apprezzata. Se solo non avesse trovato così difficile immortalare paesaggi su tela o dipingere ritratti. Entrambi erano richiesti e ben pagati dalle famiglie più in vista di Stoccarda ma il suo talento non era né per delle mere riproduzioni della realtà, né per la realizzazione di ritratti abbelliti di compiaciute classi elevate. Per un certo tempo aveva invece lavorato con campioni in filigrana e un gioco di motivi floreali, che non davano un effetto pesante e sovraccarico, bensì leggero e pieno di gioia di vivere. Ovviamente non ne aveva ricavato un soldo, ma Edgar credeva nel suo talento. Era stato qualche volta a Monaco dove si era appena formata una nuova generazione di artisti, aveva incontrato altri con le sue stesse idee e aveva cercato di andare a lavorare allo «Jugend» come illustratore. La rivista usciva ormai da sette anni e stimolava il dibattito popolare sull’arte. Era rimasto molto dispiaciuto quando aveva ricevuto un cortese ma incomprensibile rifiuto. I suoi quadri erano troppo tradizionali. Edgar non capiva più come girava il mondo. Per Stoccarda era troppo moderno, per Monaco troppo conservatore.

    Poi, qualche mese prima si era trasferito nella capitale francese. Suo padre gli aveva pagato con riluttanza il viaggio rinfacciandogli in tono offensivo che a quasi ventotto anni dipendeva ancora dai suoi sussidi. Ma proprio quel viaggio era stato il tassello decisivo per completare il mosaico; finalmente Edgar sapeva esattamente cosa avrebbe fatto. Durante le lunghe passeggiate attraverso Parigi aveva studiato i manifesti pubblicitari appesi in ogni dove su muri e colonne e che reclamizzavano qualunque cosa: sigarette o liquori, un negozio di abbigliamento maschile, una libreria, opera, teatro o i locali dell’intrattenimento leggero come il Moulin Rouge. Dagli antiquari si era fatto mostrare i manifesti degli anni passati, affascinato dalle forme ridotte all’osso del defunto Toulouse-Lautrec e dalla potenza del colore negli schizzi di Jules Chéret.

    Quando dopo alcuni giorni e notti pesanti era tornato a casa, aveva preso una decisione. Avrebbe fatto l’artista di manifesti e confezioni. Nel frattempo gli era capitata tra le mani una copia del Manuale della pubblicità aziendale moderna di Bruno Volger. Da allora cercava di lavorare su quelle illustrazioni e di sviluppare un suo stile proprio, nella speranza di mettere piede nel settore dei manifesti e di porre fine alla sua miseria economica. Prima o poi doveva semplicemente accadere.

    Un tintinnare lieve interruppe i suoi pensieri cupi e lo riportò alla realtà.

    Si passò velocemente la mano tra i riccioli castano chiari e guardò Max accanto a lui che aveva appoggiato un cucchiaio forato di argento su uno dei bicchieri e ci aveva messo sopra dello zucchero pressato a forma di dado.

    Si conoscevano da quando portavano i pantaloni corti, figli di imprenditori benestanti, le cui famiglie erano legate da tempo immemorabile da un rapporto di amicizia. Max, erede del florido produttore di macchine Ebinger, Albrecht von Braun, rampollo del banchiere più influente a Stoccarda in quel momento, e lui, pittore e bohémien, con un padre che possedeva una fabbrica di saponi i cui affari negli ultimi tempi non andavano più così bene e che accoglieva le ambizioni artistiche del figlio con umiliante incomprensione.

    Max gli strizzò l’occhio.

    Edgar avvicinò il bicchiere e il cucchiaio da assenzio e afferrò una zolletta di zucchero. Era ora di qualche battutella tra uomini.

    «Allora, Ebinger. È vero quello che ho sentito? Che tra poco potrai ereditare dal tuo vecchio?», chiese al suo amico preparando il cucchiaio d’argento nello stesso modo di prima.

    «Nemmeno tra cent’anni!».

    «Quello no, ma forse tra cinquanta?»

    «Lascia perdere, Nold», prese la parola il paternalista Albrecht, anche lui impegnato con i suoi attrezzi per l’assenzio. «Sappiamo bene che Max non capisce nulla di macchine per maglieria e che il suo vecchio lascerà la fabbrica solo quando finirà nella tomba».

    «Mettiti comodo, Ebinger», proseguì Edgar. «Fatti dare una scrivania e fai andare avanti il tuo vecchio. Così intanto hai tempo di scoparti le domestiche di Stoccarda».

    «Ma quello lo sta già facendo», fece presente Albrecht e spinse il suo bicchiere pronto sotto uno dei quattro rubinetti di metallo della fontana di vetro per l’assenzio che stava al centro del tavolo.

    «Da tempo», aggiunse ironicamente Max.

    «Allora dovresti pensare di tentare la fortuna a Berlino o a Monaco», suggerì Edgar. «Ti consiglio Monaco. Là le ragazze sono belle sode, grezze e vogliose».

    «Andrò in Italia», disse Max.

    «Per le fanciulle?», chiese Albrecht seriamente stupito.

    «Per le ragazze, ovvio!», replicò Max sarcastico.

    «Davvero interessante, Ebinger», disse Edgar. «L’Italia. Il tuo vecchio ti lascia andare?»

    «Sono io che decido, non lui».

    «Quanto ci rimani?»

    «Non lo so. Qualche settimana, qualche mese».

    Edgar fischiò in segno di apprezzamento. «Ma pensa un po’, questo non lo sapevo. Tuo padre racconta a tutti che devi entrare nella direzione aziendale. Non ha mai parlato di un lungo viaggio».

    «Non ne sa nulla».

    Albrecht rimase in totale silenzio mentre Max spinse il suo bicchiere sotto la fontana per l’assenzio e aprì con cura uno dei piccoli rubinetti.

    Pian piano l’acqua ghiacciata stillò sulla zolletta di zucchero e attraverso i fori del cucchiaio di argento colò nel calice con l’assenzio ad alta gradazione. Poco dopo si sviluppò la louche che trasformò l’iniziale colore verdastro della bevanda alle erbe in un liquido bianco come il latte.

    «Il risveglio della Fata Verde!» urlò Albrecht affascinato. «Ebinger, è chiaramente bella ed è chiaramente femmina. Fa proprio al caso tuo!».

    Dopodiché anche lui aprì il rubinetto sopra al suo bicchiere e osservò voluttuoso come la Fata Verde prendesse vita. «Ma non credere che abbia rinunciato al desiderio di una donna», aggiunse lui in modo eloquente. «È esattamente il contrario».

    Diede un’occhiata alla cerchia.

    «Avanti, racconta!», lo incoraggiò Edgar che stava chiudendo in quel momento il suo rubinetto.

    «Conosciamo la signora?», chiese Max, apparentemente sollevato che la conversazione non vertesse più sui suoi programmi per il futuro.

    «La figlia di Rothmann», spiegò Albrecht con tono trionfale.

    «Judith Rothmann? Dici sul serio?», Max guardò Albrecht esterrefatto e scosse la testa incredulo. «Chi l’avrebbe mai detto».

    Albrecht sorseggiò contento dal suo bicchiere.

    «Carina, la ragazza», affermò Edgar. «Riccioli d’oro e occhi azzurri. Un mix tra cobalto e blu oltremare. Il suo fisico merita…». Accennò delle forme con un movimento della mano, mentre Max non poté fare a meno di tirare una frecciata al meno attraente Albrecht. «Certo che quando ci sono di mezzo i soldi le donne non fanno le schizzinose».

    «Suo padre ha già il suo patrimonio, non si tratta di quello», replicò Albrecht risentito.

    «Si tratta sempre di quello», ribatté Max.

    «Ebinger non demorde», disse Edgar in tono conciliante e sollevò il suo bicchiere. «Che ne dite di brindare con l’assenzio a questa buona novella?»

    «Con l’assenzio brindiamo alla nostra vita da scapoli, amici», disse Max con enfasi.

    «Sì, il matrimonio non fa per te, Ebinger», replicò Albrecht ancora un po’ risentito. «Riusciresti a stare con una donna al massimo per una settimana».

    «Mah, con la piccola Rothmann forse anche due», ribatté Max sogghignando.

    Albrecht sbuffò.

    «Quando sarà, quindi?», chiese Edgar cercando di calmare la situazione.

    «Non è ancora stato deciso». Albrecht finì in un sorso solo il contenuto del suo bicchiere.

    «Ma la sua mano l’hai già chiesta, non è vero?», tornò alla carica Edgar.

    «Non personalmente. Mio padre ha parlato con il suo. È cosa fatta».

    «Allora non ci dovrebbe essere più alcun impedimento. Noi ci saremo!», disse Edgar sinceramente contento per l’amico.

    «Ma in tutta questa faccenda la sposa ha mai avuto la possibilità di dire la sua?», il tono di Max si fece improvvisamente pungente.

    «Non sarai per caso geloso, Ebinger?», chiese Edgar stupito e guardò avanti e indietro tra il moro e atletico Max e il pallido e corpulento Albrecht.

    Max alzò soltanto un sopracciglio.

    «Lo sapete», constatò Albrecht «le cose di una certa importanza vanno gestite dagli uomini. E questo da sempre. Una donna non ha l’idea generale delle cose, la sua mente non è fatta per questo… per decisioni di ampia portata».

    «Non ne sarei così sicuro», replicò Max.

    «Judith Rothmann sa essere caparbia ed esigente. Forse l’ultima parola non è ancora detta», fece presente anche Edgar.

    Tutto d’un tratto Albrecht, al quale il secondo bicchiere di assenzio era andato lentamente alla testa, iniziò a ridere. «Ah, amici. Anche se non mi credete capace, tocca a me stavolta portare a casa la piccola Rothmann! Il suo vecchio le avrà già insegnato la necessaria obbedienza. E a voi rimangono ancora le altre dame di Stoccarda. A te, Max, magari proprio un’italiana dal temperamento focoso, se i tuoi programmi di viaggio vanno in porto».

    Max mosse il suo bicchiere e si comportò come se non avesse sentito quell’osservazione.

    «Non ti preoccupare, Albrecht. A Max Judith Rothmann non interessa, ha altre possibilità», disse Edgar cercando di alleggerire la conversazione. «E poi non sarebbe così stupido da avvicinarsi troppo a una verginella e correre il rischio di sposarsi in un batter d’occhio. Per te sarebbe l’anticamera dell’inferno, non è vero Ebinger?»

    «Altroché», rispose Max laconico, lasciando sgocciolare il cucchiaio e posandolo di lato.

    «A proposito, mi è arrivato da poco un coinquilino» raccontò Edgar per cambiare argomento. «Un ex carcerato di Ehrenbreitstein».

    «E dove sarebbe?», chiese Albrecht, accogliendo con interesse il nuovo tema della conversazione.

    «A Coblenza sul Reno», rispose Edgar. «Lo avevano rinchiuso lì per un duello, ma non so nulla di preciso. Non ha detto molto».

    «Se è stato arrestato per un duello allora era probabilmente un militare», disse Max. «Altrimenti non ci sono quasi più duelli, almeno per quel che ne so».

    «Può essere. Viene da qualche parte della Prussia, mi ha detto», disse Edgar pensieroso. «Un mio zio, che era insieme a lui a Ehrenbreitstein, gli ha dato il mio indirizzo. Può essere stato solo quel poeta matto, un fratello di mia madre di Coblenza. Con gli argomenti scomodi dei suoi versi si è sempre messo nei guai. Credo che mia madre sia l’unica che gli scrive ancora ogni tanto».

    «Non mi dire che hai accolto in casa tua un ex detenuto come se niente fosse», commentò Albrecht. «Sei coraggioso».

    «Mi ha ispirato fiducia. E ha già trovato lavoro alla fabbrica di birra Dinkelacker. Non credo che starà da me ancora a lungo», replicò Edgar.

    «Comunque sia», spiegò Albrecht con modi affabili. «Non so voi, ma a me è venuta fame. Vogliamo salire a Degerloch e mangiare qualcosa al Löwen?»

    «E a fare un salto dai Rothmann?», scherzò Edgar.

    Albrecht sogghignò.

    Max finì il suo bicchiere. «Potremmo mangiare qualcosa anche qui».

    «Sì, rimaniamo quaggiù, è meglio. Anche se due passi all’aria aperta non ci farebbero male. Che ne dite dell’Adler?», propose Edgar.

    «Per me va bene», disse Max alzandosi.

    «Alla cena, al duello e alle donne», disse Edgar ridendo quando lasciarono la villa del banchiere e si avviarono.

    Capitolo 4

    Degerloch, dintorni di Stoccarda, villa della famiglia Rothmann, inizio luglio 1903

    Una calda estate si era adagiata sulla campagna. In realtà era la stagione che Judith prediligeva in assoluto, ma con le lunghe giornate le era tornata la preoccupazione che suo padre avrebbe presto realizzato il suo proposito di vederla sposata. Questo perché, dopo che quel tema non era stato quasi più nominato negli ultimi mesi, di recente lui aveva raccontato dettagliatamente delle nozze a un lontano parente durante una cena guardando Judith in modo eloquente.

    «Ma perché noi donne dobbiamo per forza sposarci?», chiese sospirando mentre sullo specchio del tavolo da toeletta seguiva la sua cameriera personale che quella domenica mattina si stava occupando come sempre di sistemarle i capelli. La luce del sole che penetrava dalla finestra le solleticava il naso. A fatica trattenne uno starnuto per non rovinare l’opera in corso di realizzazione sulla sua testa.

    «Non c’è nulla di male nello sposarsi, gentile signorina», rispose Dora prendendo dal forno il ferro arricciacapelli caldo. «Tra noi domestiche molte sognano un giorno di poter formare una propria famiglia».

    «Molte di voi? Anche tu, Dora?», chiese Judith giocando con un vasetto di crema che stava di fronte a lei nel vano portaoggetti.

    «Non sono sicura di ciò che dovrei sognare, signorina Judith. I sogni hanno un problema. La maggior parte delle volte non si avverano». Dora separò con attenzione una ciocca dei capelli di Judith lunghi fino ai fianchi, infilò le punte tra le piastre calde e le arricciò. In quel modo aveva già realizzato delle onde regolari per la metà dei capelli di Judith. Era una lunga procedura che fortunatamente non era necessaria ogni giorno e prevedeva che Judith si lavasse i capelli la sera prima con sapone e una soluzione di aceto. I ferri caldi dovevano ridare la lucentezza andata persa. Comunque i capelli di Judith non erano mai completamente lisci. Se si lasciavano naturali formavano degli estrosi ricci.

    «Ma ammesso che si esaudiscano, cosa desidereresti, Dora?»

    «Mi piacerebbe molto viaggiare, gentile signorina».

    Judith si sorprese per la risposta. «Non ti piace stare qui da noi?»

    «Certamente, mi piace qui. Ma vedere qualcosa di nuovo sarebbe una bella cosa».

    Judith pensò un attimo e portò l’indice al labbro inferiore, un’abitudine che aveva sin da piccola. «Ti capisco bene! Mi piacerebbe molto andare a trovare mia madre al lago di Garda. Ciò che scrive di quel posto sembra così affascinante. L’immenso lago e le montagne intorno, vorrei vederli una volta di persona». Judith chiuse un attimo gli occhi. «Ma soprattutto è maman che vorrei rivedere». Una leggera tristezza si insinuò nella sua voce.

    «Sì, è sicuramente meraviglioso là», cercò di consolarla Dora. «E la gentile signora si rimetterà presto e tornerà a Stoccarda».

    «Speriamo», disse Judith. «È lontana ormai da così tanto tempo».

    Dora pregò Judith di girare un po’ il capo e tornò a utilizzare il ferro per i capelli. «Deve riposarsi per bene. Il medico là lo saprà di certo quando potrà lasciarla tornare a casa».

    Judith cambiò argomento. «Da quanti anni sei con noi, Dora?»

    «Quattro, gentile signorina».

    «E prima? Dov’eri?».

    Dora indugiò. «Be’, ci sono stati altri posti, ma dovevo ancora imparare», spiegò infine in modo vago.

    A un tratto Judith si rese conto di quanto poco sapesse dei domestici, sebbene vivesse sotto lo stesso tetto con molti di loro. «Quanti anni avevi quando sei andata via di casa?», continuò a chiederle timidamente, sebbene avesse intuito che non era un argomento di cui Dora parlasse volentieri.

    «Avevo quindici anni. Quindi, non più così giovane. Babette, lei ha dovuto prendere servizio già a dodici anni».

    Dora aveva finito di fare i ricci a Judith e si apprestava a realizzare un’acconciatura semplice da passeggiata. Prese alcune ciocche dietro il capo per farne una treccia, cotonò i capelli rimanenti e li attorcigliò morbidi, così che incorniciassero il volto di Judith in un’onda soffice. Infine raccolse la treccia in una crocchia e la fissò con delle forcine.

    Judith guardò soddisfatta il risultato nello specchio.

    «Ti è uscito ancora una volta benissimo, Dora».

    «Grazie, gentile signorina». Dora sorrise contenta. Poi l’espressione del viso si fece pensierosa. «Posso chiedervi perché non siete d’accordo con il matrimonio, signorina Rothmann? Intendo dire, per una donna è un bene avere un uomo che pensi a lei».

    «Mm, come posso spiegarti? Credo che ciò che mi dà più fastidio è che a noi donne non venga chiesto nulla. Qualcuno decide in quale preciso momento dobbiamo sposarci e possibilmente anche con chi».

    «Ma», ribatté Dora, «forse per le giovani signore del vostro ceto sociale sono veramente i padri a sapere meglio chi è quello giusto per la famiglia e che può offrirvi la vita a cui voi siete abituata».

    «Ciò che dici potrebbe essere anche vero, Dora. Comunque vorrei decidere io se e quando sposarmi e soprattutto con chi. E

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