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La casa dei pini fruscianti
La casa dei pini fruscianti
La casa dei pini fruscianti
E-book430 pagine6 ore

La casa dei pini fruscianti

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Info su questo ebook

Una donna viene trovata morta in un circolo di campagna, chiuso durante la stagione invernale. Il suo fidanzato, e poi suo fratello, sono sospettati di averla uccisa. Ma l'inchiesta e il processo riservano molte sorprese e scatenano laceranti conflitti interiori, mettendo in luce di volta in volta diverse possibili soluzioni, in un gioco che intreccia il destino e la felicità di tre persone.

Anna K. Green

Anna Katharine Green nacque nel 1846; figlia di un noto avvocato penalista di New York, ricavò dall’ambiente familiare una dimestichezza con il codice penale e l’ambiente giudiziario che le tornò molto utile nei suoi romanzi. Laureatasi in lettere a Pultney, nel Vermont, la Green fu la prima donna a scrivere un importante romanzo poliziesco e fu lei a coniare, per indicare un preciso genere letterario, l’espressione detective story, che aggiunse al titolo del suo famoso Il mistero delle due cugine (1878). Autrice di più di trenta opere, anche al di fuori del campo poliziesco, la Green morì a Buffalo nel 1935, un anno dopo che Il mistero delle due cugine era stato ristampato con l’entusiastica prefazione di S.S. Van Dine.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2013
ISBN9788854152113
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    Anteprima del libro

    La casa dei pini fruscianti - Anna K. Green

    173

    Titolo originale: The House of the Whispering Pines

    Traduzione di Donata Marciano

    Prima edizione ebook: luglio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5211-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Anna K. Green

    La casa dei pini fruscianti

    Newton Compton editori

    Personaggi principali

    Elwood Ranelagh

    presidente del circolo I pini fruscianti

    Adelaide Cumberland

    sua fidanzata

    Carmel Cumberland

    sorella di Adelaide

    Arthur Cumberland

    fratello di Adelaide e Carmel

    Zadok Brown

    cocchiere dei Cumberland

    Caleb Sweetwater

    investigatore

    Alonzo Moffat

    avvocato difensore di Arthur Cumberland

    Charles Clifton

    avvocato di Elwood Ranelagh

    Signor Fox

    procuratore distrettuale

    Libro primo. Un filo di fumo

    1. Con titubanza

    La luna era alta; ma nubi minacciose le correvano incontro... nubi cariche di neve. Fissavo queste nubi mentre guidavo senza badare a nulla, con disperazione, lungo le strade invernali. Ero appena stato deluso nel mio più grande desiderio, avevo perduto il prezioso tesoro che bramavo con tutto il mio indisciplinato cuore e, non essendo quel che definireste un uomo dotato di auto controllo, ero sconvolto dalla frustrazione ben oltre i limiti che per solito mi impongo di non travalicare.

    La luna e il branco tumultuoso di nubi, che si accalcavano per farla sparire alla vista, parevano rispecchiare la confusione mentale che rischiava di soverchiare i miei migliori istinti; tenendole distrattamente d’occhio, continuavo a guidare, e non mi resi conto di che strada avevo preso se non quando il rapido succedersi di numerosi e ben noti punti di riferimento non mi avvertì che avevo scelto il tragitto più lungo per tornare a casa, e che fra un attimo avrei costeggiato il parco dei Pini fruscianti, il nostro circolo di campagna. Che io avevo scelto? Diciamo piuttosto il mio cavallo; poiché avevamo percorso molte volte insieme quella strada, ed esso non aveva modo di sapere che la stagione era finita e il circolo era chiuso. Non ci pensai nemmeno io in quel momento, e stavo irragionevolmente chiedendomi se non avrei fatto bene a entrarvi e ad annegare la mia delusione in una sfrenata gozzoviglia, quando, come il gruppo di alti fumaioli si stagliò improvvisamente contro il grande cerchio della luna non ancora nascosta dalle nuvole, notai un sottile filo di fumo che si levava fra di essi, e mi resi conto, con profonda sorpresa, che non avrebbe dovuto esserci alcun segno di vita in un edificio che io personalmente avevo chiuso, con sbarre e catenacci, quello stesso giorno.

    Ero il presidente del circolo, e me ne sentivo responsabile. Mi fermai solo il tempo indispensabile per assicurarmi che non si trattasse di un’illusione ottica, e che effettivamente c’era un fuoco che bruciava in uno dei caminetti di quel luogo di ritrovo ormai deserto, e quindi piegai in direzione del cancello secondario. Per motivi che non è necessario spiegare adesso, non c’erano campanelli alla mia slitta, e di conseguenza mi avvicinai senza fare alcun rumore. Badai a non fame, e badai anche a fermarmi a una certa distanza dalla porta di ingresso e a lasciare cavallo e slitta fra le ombre nere della macchia di pini che si stringeva a ridosso dell’edificio. Ero certo che doveva esserci qualcosa che non andava fra quelle mura, ma, lo sa Iddio, non avevo idea di cosa potesse essere né di quanto profondamente avrebbe inciso sul mio destino il passo che stavo per compiere.

    Il nostro circolo sorge, come forse sarà utile rammentarvi, su un poggio ammantato da una fitta vegetazione di vecchi alberi del tipo che ho appena citato. Questi alberi, tutti pini e straordinariamente rigogliosi, arrivano solo fino all’estremità posteriore della costruzione, e qui immediatamente si apre alla vista un ampio tratto di terreno dolcemente ondulato che invoglia tutti gli amanti del golf a farne l’uso a cui è adibito dall’inizio della primavera alla fine dell’autunno. In questa stagione i campi, come pure i parterre e i vialetti, sono coperti da uno spesso strato di neve, e anche l’edificio, con i suoi pittoreschi timpani e le file di finestre a vetri romboidali, è difficilmente riconoscibile fra le ombre proiettate dalle folte cime dei pini che svettano alti e piegano i loro rami contorti sul suo tetto e verso i suoi angoli più sperduti, con gemiti e sussurri che suonano sconsolati all’orecchio delle persone facilmente impressionabili.

    Tutt’intorno, nel raggio di mezzo miglio non c’erano altre case. Era un vero circolo di campagna, gaio e pieno di vita in un certo periodo dell’anno, ma incredibilmente solitario e malinconico quando arrivava l’inverno, e seppelliva fiori e foglie sotto un’ampia distesa di neve immacolata.

    Avvertii questa impressione di isolamento quando mi staccai dal limitare degli alberi e mi accinsi ad attraversare i pochi metri di spazio aperto che conducevano alla porta di ingresso. L’improvvisa oscurità che tutto a un tratto mi avvolse, quando le nubi, che avevo osservato mentre avanzavano compatte, spiccarono il balzo finale verso la luna, aggiunse una brusca sensazione fisica alla mia depressione, e, in un altro momento, mi sarei fermato e ci avrei pensato due volte prima di tentare di aprire la porta. Ma la collera e la delusione che mi bruciavano non avevano lasciato posto nel mio animo per la paura. Anzi, ben contento degli incerti della situazione, mi feci strada sulla neve finché non urtai con un piede contro i gradini. Qui l’istinto mi obbligò a fare una sosta e a controllare rapidamente l’edificio dall’alto in basso sia da un lato che dall’altro. Non intravidi un bagliore nemmeno dalla più piccola delle sue finestre tirate a specchio. Ed era silenzioso quanto buio?

    Tesi l’orecchio, ma non udii nulla. Ascoltai ancora, e ancora non udii nulla. Allora salii baldanzosamente i gradini e poggiai la mano contro la porta.

    Il saliscendi era abbassato, e cedette sotto il mio tocco. Luci o non luci, rumori o non rumori, dentro c’era qualcuno. Il fuoco che aveva fatto salire il suo pallido filo di fumo su nel cielo illuminato dalla luna stava ancora bruciando in uno dei tanti caminetti del circolo, e davanti ad esso fra poco avrei visto...

    Chi?

    Che cosa?

    L’interrogativo non mi interessava granché.

    Tuttavia entrai, e mi richiusi silenziosamente la porta alle spalle. Nel farlo, lanciai istintivamente un’occhiata di fuori. Il cielo era nero come l’inchiostro e qualche fiocco vagante della tempesta di neve che ormai stava rapidamente avanzando cadde turbinando, mordendomi le guance e pungendomi la fronte.

    Una volta entrato, mi fermai dov’ero, un po’ per ascoltare, un po’ per decidere cosa sarebbe stato più opportuno fare. Il silenzio era assoluto. Non un suono turbava il grande edificio vuoto. I miei passi, quando mi mossi, sembrarono destare incredibili echi. Ne avevo fatti solo pochissimi, eppure, ai miei sensi acutizzati, il frastuono parve tanto forte da risvegliare i morti. Qualcosa mi obbligò ad arrestarmi, e ad immobilizzarmi. Nemmeno adesso udii muoversi nulla. Buio, silenzio ovunque. Però non buio completo. Via via che i miei occhi si abituavano al luogo in cui mi trovavo, scoprii che potevo distinguere i profili delle finestre e individuare la scala e gli archi da cui si aprivano i corridoi laterali. Riuscii persino a trovare il punto esatto da cui un paio di grandi coma ramificate si allargavano sulla rastrelliera per i cappelli, e subito dopo comparve anche l’appendiabiti, con la sua fila di pioli, ieri così pieno, e quel giorno tutto vuoto. L’appendiabiti mi attirava... non sapevo come mai, e, senza preoccuparmi del rumore che facevo, mi avvicinai e feci scorrere la mano lungo la parete sottostante. Con un esito sorprendente. Ad uno dei pioli erano appesi un cappotto da uomo e un cappello.

    Conoscevo i miei compiti di presidente del circolo. E sapevo anche che a quell’ora non avrebbe dovuto esserci nessuno... che nessuno poteva esserci venuto con intenzioni oneste. Doveva essere qualche segreta e sinistra faccenda la ragione di quella misteriosa intrusione subito dopo che il posto era stato chiuso per l’inverno. Quel cappello e quel cappotto potevano dare un nome a chi si era insinuato lì dentro? Decisi di accendere una luce e controllare. Ma qui sorse una difficoltà. II gas era stato staccato proprio quel mattino, e non avevo fiammiferi in tasca. Ma mi venne in mente dove avrei potuto trovarne. Li avevo visti passando in cucina qualche ora addietro. Era semplice arrivarci dall’estremità del corridoio in cui mi trovavo. Non dovevo che farmi strada a tastoni per un paio di anditi per raggiungere la porta della cucina.

    Mi ci diressi subito, e poco dopo tomai silenziosamente indietro con una scatola di fiammiferi mezza piena in mano. Ma non ne accesi subito uno. Stavo giusto per farlo, quando l’inequivocabile rumore di una porta che si apriva da qualche parte mi indusse a cercare riparo nell’angolo più appartato e buio che mi capitò a tiro. E cioè dietro la scala, sulla destra, e poiché mi era sembrato che il rumore provenisse da sopra, fu il nascondiglio più logico che mi si offrì. E buono, come scoprii.

    Mi ci ero appena rincantucciato, quando l’oscurità al piano di sopra lasciò trapelare un debole chiarore, e sentii muovere dei passi da una delle tante salette al secondo piano, ma così lentamente e con tanta evidente titubanza che la mia immaginazione ebbe tutto il tempo di lavorare e di riempirmi la testa di diverse supposizioni, una più sconcertante dell’altra. Ora mi sembrava di stare ascoltando i movimenti di un ubriaco che cercava la via di uscita da una casa sconosciuta, ora il cauto avanzare di una persona spaventata per ragioni sue, e consapevole della mia presenza quanto io lo ero della sua.

    Ma la luce, che aumentava sempre più ad ogni sia pur incerto passo avanti che udivo, presto smentì quest’ultima ipotesi, perché nessun individuo sano di mente, timoroso di un agguato, avrebbe offerto a chi lo attendeva al varco addirittura il vantaggio del proprio volto rischiarato dalla fiamma di una candela; ed io non sapevo più cosa pensare, quando i passi titubanti si arrestarono, e mi giunse alle orecchie un debole singhiozzo, uscito da labbra talmente irrigidite dall’angoscia che i miei timori assunsero una nuova forma, e ciò che stava accadendo un significato che, nel mio attuale stato d’animo di intima sofferenza e turbamento, fu tutt’altro che gradito. Anzi, fui così vigliacco da prendere in considerazione l’idea di battermela, e un secondo più tardi avrei ceduto a quell’indegno impulso, se il suono di un secondo sospiro non mi avesse fatto rabbrividire, e se quasi immediatamente dopo i passi non fossero ripresi e non fosse apparsa sulla sommità delle scale una giovane fanciulla che teneva una candela in una mano e con l’altra si copriva la guancia sinistra.

    La vita riserva di questi colpi inattesi agli uomini, qualunque siano le loro vicissitudini o qualunque sia il loro temperamento. Il singhiozzo che avevo sentito mi aveva preparato a vedere una donna, ma non quella. Nulla avrebbe potuto prepararmi a un incontro con quella donna, in nessun luogo, quella notte, dopo quanto era accaduto fra noi e dopo che aveva distrutto la mia vita. Ma lì! In un luogo tanto isolato e tetro che io stesso avevo esitato a entrarvi! Cosa dovevo pensare? Come avrei potuto riconciliare una cosa così assurda con quel che avevo sempre saputo di lei, con quel che avevo sperato da lei per il futuro?

    Per raccogliere le idee e per riprendere il controllo sul turbinio dei miei pensieri, fissai lo sguardo su quella figura e sui tratti di quel viso a me così familiari come se fossero stati quelli di una sconosciuta che volessi decifrare e giudicare. Ho detto che era una donna, e certamente come tale l’avevo amata, ma quando, in quel momento di curioso distacco, la osservai scendere, sospingendo tremebonda un piede dopo l’altro giù per i gradini, ebbi modo di constatare che solo le emozioni che le stravolgevano i lineamenti erano quelle di un’adulta; che il suo volto, il suo modo di incedere, e il caratteristico profilo infantile dell’unica sua guancia visibile appartenevano a una creatura che soltanto ieri si trovava nella stanza dei giochi.

    Ma bellissima! Non si vede spesso una bellezza così. Benché sfigurata da un’agitazione tanto grande da stringermi il cuore e da indurmi a chiedermi se ne ero io la sola causa, risplendeva di un fascino particolare che la designava come una di quelle pochissime che sono la fortuna o la rovina degli uomini. Questo era il patrimonio con cui era nata, questo era il suo destino, che non poteva eludere, a cui non poteva sottrarsi, nemmeno adesso alla giovanissima età di diciassette anni. Tutto ciò chiunque lo avrebbe capito al primo sguardo. Ma quello che non era altrettanto chiaro, nemmeno a me che pure sapevo cosa era accaduto fra di noi in quelle ultime ore, era perché il suo cuore dovesse essere così più maturo dei suoi anni, e perché il turbamento di cui ero testimone lasciasse indovinare una così impressionante intensità di sentimenti. Qualcosa di orribile e spaventoso, un abisso di orrore, l’aveva accolta in quello strano luogo. Il semplice dolore si esprime con un linguaggio differente da quello che leggevo sui suoi lineamenti stravolti e in quel suo scendere lento e malfermo. Cosa era successo di sopra? Era fuggita da me per imbattersi in che cosa? Le mie labbra si rifiutarono di chiederlo, le mie gambe si rifiutarono di muoversi, e se osai respirare, lo feci con tanta prudenza che i suoi occhi non si girarono mai dalla mia parte, nemmeno quando arrivò all’ultimo gradino e si fermò lì per un attimo, dondolandosi, forse per la sofferenza o forse per l’incertezza. Il suo viso era quasi del tutto rivolto verso di me adesso, e avevo appena iniziato a discernervi qualcosa oltre alla sua tragica bellezza, quando fece un movimento brusco, e spense la candela che teneva in mano. Un momento quella magica e incantevole immagine, e poi il buio, anzi potrei dire il nulla, perché non credo che nessuno dei due si mosse per parecchi secondi. Poi si udì un tonfo, seguito dal suono di di passi che correvano. Aveva gettato a terra il candeliere, e si era slanciata lungo il corridoio. Pensai che stesse venendo verso di me, e istintivamente mi schiacciai contro la parete. Ma si fermò a una certa distanza da dove mi trovavo, la sentii brancolare, e poi gettarsi con un balzo improvviso sulla porta di ingresso. La porta si aprì, e il vento entrò fischiando. Sentii il freddo della neve sul viso, e mi accorsi che imperversava la bufera. Poi fu di nuovo tutto buio e silenzioso. Lei era scivolata in fretta di fuori e la porta si era richiusa alle sue spalle. Un altro istante, e udii lo scatto della chiave che girava nella serratura, lo udii e non lanciai un grido, tanto erano ottenebrate le mie facoltà mentali! Ma una volta che l’operazione fu compiuta, e uscire mi fu reso difficile o, meglio, per il momento impossibile, sentii tutti i miei timori cedere il passo a un’ansia che esigeva provvedimenti immediati, perché la fanciulla era uscita senza scialle o nulla con cui coprirsi la testa ed io sapevo, per averlo provato, quanto era fredda la notte. Dovevo seguirla e trovarla, e portarla in salvo, se possibile, dalla bufera. Il tragitto fino in città era lungo, e il freddo l’avrebbe assalita, e forse le avrebbe levato le forze, dopo di che il vento e la neve avrebbero fatto il resto.

    Mi avventai contro la porta e la scossi con violenza. Non si mosse. Allora corsi alle finestre. I ganci cedettero abbastanza in fretta, ma non così i vetri; uno aveva il cordone rotto, un altro sembrava incollato all’intelaiatura, e stavo ancora combattendo con un terzo quando udii un suono che mi fece rizzare i capelli in testa e riportò tutta la mia attenzione a quel che si trovava alle mie spalle e sopra la mia testa. C’era ancora qualcuno nel circolo. Avevo dimenticato tutto con l’apparizione della donna che vi ho descritto in un luogo così estraneo a qualsiasi idea io avessi potuto avere dei suoi movimenti quella particolare sera. Ma quel suono, breve, secco, ma troppo lontano per essere del tutto identificabile, sollevò dei dubbi che, una volta destati, mutarono completamente il corso dei miei pensieri e non mi avrebbero dato pace sinché non avessi perlustrato l’edificio da cima a fondo. Trovare Carmel Cumberland sola in quel luogo desolato era stata una scoperta sconcertante che avevo avuto qualche difficoltà ad accettare. Ma Carmel lì e in compagnia di un altro nello stesso momento in cui avevo sperato nella realizzazione della mia felicità... Ah, questa era un’ipotesi troppo intollerabile per non verificarla immediatamente. Anche se mi era passata davanti agli occhi in uno stato di estrema prostrazione, quasi di agonia, non lei, per quanto cara mi fosse e per quanto grandi fossero le mie apprensioni nei suoi riguardi, dovevo trovare per prima, ma lui! L’uomo che stava dietro a tutto questo, forse dietro alla mia delusione; l’uomo del cui operato forse ero stato testimone, ma la cui identità non riuscivo lontanamente a immaginare.

    Lasciata la finestra, mi feci strada a tentoni lungo la parete finché non raggiunsi l’appendiabiti da cui pendevano il cappotto e il cappello di quell’individuo. Che fosse mia intenzione portarli via e nasconderli, nella mia ansia di non farmi sfuggire l’intruso e costringerlo a darmi una crudele spiegazione per il dolore che mi stava dando, o che volessi solo assicurarmi che fossero gli abiti di uno sconosciuto e non di qualche socio del circolo penetrato lì di nascosto, è di scarsa rilevanza alla luce di quanto scoprii con sorpresa. Cappello e cappotto erano spariti. Non c’era nulla sull’appendiabiti. La parete era sgombra da un capo all’altro. Lei aveva preso quegli articoli di abbigliamento maschile; non era uscita nella tempesta di neve priva di protezione, ma...

    Non sapevo che cosa pensare. Nulla di quel che conoscevo dei suoi impulsi fanciulleschi, nulla di quanto era accaduto fra noi prima e nel corso di quella sera, mi avrebbe mai fatto prevedere una follia di quel genere. Tastai di nuovo la parete da un angolo all’altro; la tastai a ritroso; toccai persino i pioli, e li contai mentre mi spostavo avanti e indietro, sfiorandoli uno per uno; ma non potei cambiare i fatti. Era in quel punto che Carmel aveva cercato a tentoni. Stava cercando quel cappotto e quel cappello (un cappello maschile... una bombetta, come mi ero preoccupato di accertare quando lo avevo toccato) e, con questi indosso, era tornata a casa come probabilmente da lì era venuta, e non c’era un uomo in quella storia, o se c’era...

    Il dubbio mi spinse su per la scala. Senza più tentare di sciogliere l’enigma che mi annebbiava la mente, iniziai la mia cauta ascensione. Non avevo il minimo timore, ero troppo pieno di collera per averne.

    La disposizione delle stanze al secondo piano mi era ben nota. Ne conoscevo ogni angolo e potevo spostarmi dappertutto all’interno del circolo senza bisogno di una luce. Presi soltanto una precauzione... quella di sfilarmi le scarpe ai piedi della scala. Volevo cogliere l’intruso di sorpresa. Ero disposto a ricorrere a qualsiasi sotterfugio pur di riuscirci. I fiammiferi che avevo in tasca me lo avrebbero reso possibile, se lo avessi sentito respirare anche una sola volta. Trattenendo il fiato, salii silenziosamente di sopra, e mi fermai un istante sull’ultimo gradino, per ascoltare. C’era uno spaventoso silenzio dappertutto, ed ero incerto se partire dalle stanze davanti o se seguire un certo stretto corridoio che conduceva a una scala sul retro, quando mi ricordai del sottile filo di fumo che, levandosi da uno dei fumaioli, aveva inizialmente attirato la mia attenzione sull’edificio. Quello era il mio indizio. C’era soltanto una stanza su quel piano in cui si sarebbe potuto accendere un fuoco. Era a pochi metri da dove mi trovavo, e si affacciava sul corridoietto di cui ho appena parlato. Perché mi ero affidato solo alle orecchie quando il naso mi sarebbe stato di migliore guida? Mentre muovevo i pochi passi che mi occorrevano, avvertii un leggero odore di bruciato e, senza più incertezze sulla strada da seguire, mi feci animo e, dopo aver spalancato la porta socchiusa, accesi un fiammifero e mi guardai ansiosamente attorno.

    Vuota anche quella stanza, come tutto il resto. Qualche sedia, una toletta... si trattava di uno spogliatoio per signore... delle ceneri ancora fumanti nel caminetto, un divanetto su cui erano accatastati dei cuscini. Ma nessuno. Il suono che avevo udito non proveniva da lì, eppure qualcosa mi trattenne dal continuare le mie ricerche. Gelato fino alle ossa, con i denti che mio malgrado mi battevano, mi fermai sulla soglia, e quando il fiammifero mi si spense fra le dita restai lì a rabbrividire nel buio, in preda a una sensazione che assomigliava al terrore più di qualsiasi altra avessi mai provato in vita mia.

    2. Lei... proprio lei

    Perché, lo ignoravo. Non sembrava esserci motivo per un turbamento così eccessivo. Non avevo paura di essere assalito: era un’apprensione di altra natura. Inoltre, un eventuale attacco sarebbe dovuto venire da dietro... dalla porta aperta sulla cui soglia mi trovavo, mentre ciò che mi incuteva terrore mi stava davanti, dentro la stanza che, come ho già detto, appariva completamente vuota. Che cosa dava adito ai miei timori, e perché non fuggii? C’erano altri corridoi da perlustrare, perché indugiare lì, al buio, quando forse l’uomo che pensavo si nascondesse fra quelle mura stava approfittando di quell’opportunità per filarsela?

    Se mi posi queste domande, non mi diedi risposte, ma dubito di essermele poste in quel momento. Avevo dimenticato l’intruso; la curiosità che mi aveva condotto fin lì era stata annullata da un’altra appena nata, la cui origine e il cui soddisfacimento si nascondevano fra le quattro pareti che stavo fissando, senza vederle. Non vedere ma percepire... era questo che rendeva la situazione così paurosa? In questo caso accendere un altro fiammifero mi avrebbe aiutato. Ne sfregai uno subito dopo aver fatto questa riflessione, e di nuovo feci girare lo sguardo.

    Non notai che un particolare nuovo, ma che mi fece indietreggiare fin quasi a metà corridoio. Poi una certa tenacia da mastino che ho mi venne in soccorso, e rientrai con un balzo nella stanza fermandomi davanti al divanetto con il suo mucchio di cuscini. Erano molti... tutti quelli che c’erano lì dentro... e altri ancora! Erano stati tolti dalle sedie, sfilati da sotto le finestre, e l’intero repertorio era stato accatastato lì secondo una disposizione che mi colpì per la sua artificiosità. Era stata un’idea del custode? Non potevo crederci, e stavo per tirare su uno di questi cuscini, quando quell’irragionevole terrore si impossessò di nuovo di me e mi sorpresi a fissare, al di sopra della mia spalla, il caminetto da cui si levava un pallido filo di fumo che un colpo improvviso di vento, forse, aveva soffiato dentro la stanza.

    Mi sentii male. Era l’odore? Non era quello della legna che brucia, e nemmeno della carta... ma a questo punto il secondo fiammifero si spense.

    Messo ormai in grande agitazione (da cosa?, direte voi) trovai a tentoni la strada per uscire dalla stanza e arrivare sulla sommità della scala. Mi ero ricordato della candela e del candeliere che avevo sentito gettare a terra da Carmel Cumberland al piano di sotto. Volevo prenderli, e risalire, e chiarire quegli inquietanti dubbi. Avrebbe potuto trattarsi della più grande sciocchezza del mondo, ma ero molto turbato e volevo tranquillizzarmi. Nient’altro mi sembrava altrettanto urgente, e tuttavia non avevo smesso di stare in ansia per la bella e delicata donna che vagava per le strade coperte di neve malgrado la bufera, così come non ignoravo che non me la sarei mai perdonata se avessi consentito la fuga dell’uomo che sospettavo si fosse nascosto da qualche parte sul retro dell’edificio.

    Cercai a lungo il candeliere, e ancora più a lungo la candela, ma finalmente recuperai sia l’uno che l’altra, e, dopo aver acceso la candela, mi sentii, per la prima volta, più o meno padrone della situazione.

    Tornato rapidamente nella stanza su cui adesso si appuntava la mia curiosità, poggiai il candeliere sulla toletta, e mi avvicinai al divano. Senza sapere cosa temevo, o cosa mi aspettavo di trovare, strappai dal mucchio uno dei cuscini e me lo gettai dietro le spalle. Sotto ce ne erano altri... ma non era ancora tutto.

    Sfuggita di sotto uno dei cuscini, scorsi una lucente treccia di capelli femminili. Lanciai un’esclamazione soffocata, e ne tolsi altri, quindi caddi in ginocchio sconvolto dall’orrore più grande che si possa provare. Davanti a me c’era la morte... una morte violenta, gratuita, e la vittima era una donna. Ma non si trattava soltanto di questo. Anche se non le avevo ancora scoperto la testa, credevo di aver capito chi era, e che... Trascorsero solo pochi secondi o molti minuti prima che sollevassi l’ultimo cuscino? Non lo saprò mai. Mi parve un’eternità, ed io non sono un sentimentale, ma ho una specie di coscienza che in quell’intervallo si risvegliò. E da allora non si è mai più riaddormentata.

    Il cuscino non le nascondeva le mani, ma non gliele guardai... non ne ebbi il coraggio. Dovevo prima vederla in faccia. Non Io tirai via di scatto; lo feci scivolare lentamente da una parte, come se alle mie spalle ci fosse qualcuno che mi stringesse con forza il braccio per trattenermi. Ed effettivamente qualcosa mi tratteneva, ma non qualcosa di concreto... piuttosto i terrori che si affollano nell’animo di chi presagisce un’orribile sventura. Non me la sentivo di dar loro conferma senza essermici preparato. Scoprii un’altra ciocca di capelli; poi una guancia, semicelata alla vista da riccioli sciolti e cuscini rigonfi; quindi, con una preghiera a Dio perché avesse misericordia, una fronte gelida, due occhi sbarrati... E dopo aver visto questo lasciai ricadere il cuscino, perché non mi era stata concessa misericordia.

    Era lei, proprio lei! E nello sguardo che incontrai era impressa una sentenza irrevocabile... una sentenza e nulla di meno terribile, per quanto io potessi supplicare il cielo di aver pietà di me, e malgrado ciò di cui aveva bisogno il mio cuore così atterrito e pieno di pentimento.

    Morta! Adelaide! La donna che avevo avuto intenzione di ingannare proprio quella sera, e che così mi aveva punito! Per un momento non riuscii a pensare ad altro che a questa sbalorditiva realtà, quindi i come e i perché ridestarono in me un frenetico bisogno di sapere e, afferrato il cuscino, io scansai di scatto e contemplai il viso miserando e severo che mi apparve, quasi che volessi strappargli la storia del gesto sconsiderato che mi aveva ridato la libertà come non la avrei mai riottenuta, oh no, neanche se i desideri del mio cuore fossero stati esauditi con tutta la pienezza che avevo sperato solo qualche ora prima.

    Ma tranne che per quegli occhi sporgenti, per sempre accusatori, il suo viso non mi disse nulla; così, facendomi forza per affrontare la situazione, cercai di scoprire quanti più dettagli potevo dalle sue condizioni e quanto le stava attorno. Perché si trattava della mia promessa sposa. Quali che fossero stati i miei progetti, per quanto il mio amore per lei fosse svanito ad opera dell’incantesimo gettato su di me da sua sorella... la fanciulla che mi era appena passata davanti, Adelaide ed io eravamo stati fidanzati per parecchi mesi, e il giorno delle nostre nozze era già stato fissato.

    Ma tutto questo ormai era finito... finito come era finita la sua vita; improvvisamente, incomprensibilmente, e non per volere di Dio. Persino l’anello che portava al dito era scomparso, il pegno del nostro fidanzamento. Questo era prevedibile. Certamente se lo era tolto prima di darsi una morte che mi denunciava come traditore di quel simbolo. Avrei rivisto l’anello. Lo avrei trovato accluso ad una lettera piena di amarezza. Non volevo pensare né all’uno né all’altra in quel momento. Volevo tentare di capire come aveva commesso quel gesto, se avvelenandosi oppure...

    Doveva essere stato un veleno; nessun altro mezzo sarebbe parso adatto a una donna raffinata come lei; ma allora, perché quei segni sul suo collo, che diventavano sempre più scuri via via che li guardavo?

    Mi sentii girare la testa fissandoli. Piccoli, delicati ma mortali, tennero incollati i miei occhi su entrambi i lati di quel bianco collo finché non mi resse più il cuore e indietreggiai sino alla parete opposta, senza più vedere la stanza, o il divanetto, o il cadavere che vi era adagiato, ma il volto incantevole di una fanciulla, atteggiato in un’espressione più adulta dei suoi diciassette anni, che rendeva inutile ogni tentativo da parte mia di illudermi, quando la ragione esigeva inesorabilmente che le dessi una spiegazione per quella morte. Come suicidio la aveva, come assassinio no, a meno che...

    Ed era stato una assassinio!

    Nell’istante in cui me ne resi conto, crollai a terra.

    3. Aprite!

    Ho detto che per prima cosa pensai al veleno. Fu una conclusione ovvia, certamente indotta dall’aver notato due bicchierini su un tavolino davanti al camino. Non appena riacquistai coscienza dei miei timori, mi accostai al tavolino e guardai dentro i bicchieri. Erano vuoti. Non da molto, però. In entrambi trovai tracce di anisetta, ed anche se non c’era nessuna bottiglia nelle immediate vicinanze, non dubitai che questa si trovasse da qualche parte nella stanza. Cosa era accaduto prima e dopo che era stato bevuto quel liquore?

    Quando rialzai la testa che avevo chinato sui bicchieri... che fra l’altro non erano bicchieri del circolo, scorsi il mio viso riflesso nello specchio sopra al camino. Mi vennero dei pensieri assurdi. In quello stesso specchio solo pochi minuti prima si erano riflesse altre due facce, e per aver potuto vedere le loro espressioni nel momento fatale avrei volentieri dato l’anima.

    Quale era stata la sua... e quale quella dell’altra? Come mi sarebbe stata chiara la storia di quegli orribili, irrevocabili istanti, se quello specchio così abile e pronto nel rimandare le immagini avesse potuto trattenerle, e in caso di bisogno mostrare di nuovo ciò che una volta aveva dato vita e movimento alla sua superficie!

    Fissai lo specchio inanimato, ma solo per scorgervi il mio viso stravolto di furia e disperazione... un viso che non riconoscevo più... un viso che insensibilmente accrebbe il mio orrore sinché non mi strappai di scatto dal punto in cui mi trovavo, e mi girai per guardarmi attorno in cerca di altri indizi chiarificatori, prima di arrendermi alla convinzione che stava gettando lo scompiglio nella mia mente, nel mio cuore e nella mia coscienza. Ahimè! C’era ben poco altro da vedere. Un paio di ferri per arricciare i capelli giacevano in terra accanto al caminetto, ma non appena li presi in mano li lasciai ricadere con un brivido di indicibile odio, per poi trasalire al rumore che fecero battendo sulle piastrelle. Perché era proprio lo stesso identico rumore che avevo sentito dal piano di sotto. Quei ferri, poggiati contro il caminetto, erano scivolati quando la porta di ingresso si era richiusa sbattendo con forza, e a parte me non c’era nessun altro uomo nel circolo, né c’era stato. Soltanto le due donne. Ma il momento in cui questa scoperta avrebbe potuto essermi di conforto era passato. Mille volte meglio se un uomo.... avrei quasi detto qualsiasi uomo, fosse stato lì con loro, piuttosto che essersi rinchiuse in un posto così isolato, con rancore e ragioni per dolersi in un cuore, e un fuoco ingannatore e omicida nell’altro. Avevo constatato con i miei occhi... avevo intuito... ma non desistetti dalle mie ricerche. Un legnetto o due fumavano ancora sulla pietra del focolare. Fra la cenere erano sparpagliati alcuni frammenti di carta che si accartocciarono sotto il mio tocco. Sul pavimento lì davanti non trovai altro che una forcina per capelli; tutto il resto era in perfetto ordine nella stanza, salvo che per i cuscini e per quella mostruosità sul divanetto, che attendeva una seconda occhiata che fino ad allora mi ero astenuto dal darle.

    Non potevo più rimandare quell’occhiata. Dovevo conoscere la profondità dell’abisso su cui stavo in bilico. Non dovevo far torto col pensiero a chi mi aveva sorriso come un angelo di luce... una giovanetta, sul cui bel viso la freschezza dell’innocenza saltava agli occhi di tutti tranne che ai miei, e ai miei non solo da... diciamo dieci spaventosi minuti? Sembravano secoli... tutti gli anni della mia vita e anche di più. Eppure il suo incantevole seno non aveva palpitato poi così tante volte da quando ¡’avevo considerata una dea in terra, e adesso due piccoli segni sulla gola priva di battito di un’altra donna avevano fatto calare un velo di sangue sulla sua bellezza, e conferito a una bambina gli attributi di una Medusa. Però la speranza non era morta del tutto. Avrei cercato ancora, e forse scoperto che i miei occhi si erano ingannati, che non c’erano segni, o se ce ne erano, non quelli che la mia immaginazione aveva creduto di vedere.

    Mi girai, e lasciai cadere lo sguardo prima sui piedi. Non vi avevo fatto attenzione in precedenza, e mi sorprese notare che le scarpe in cui erano calzati erano tutte ricoperte di neve. Era venuta a piedi, dunque, come l’altra se ne stava andando via a piedi in quel momento. Lei, che detestava gli sforzi ed era così delicata di costituzione che era difficile

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