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Colpevoli d'innocenza
Colpevoli d'innocenza
Colpevoli d'innocenza
E-book433 pagine5 ore

Colpevoli d'innocenza

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Info su questo ebook

Era un caso chiuso.
Ma la verità sta per tornare a galla.

Sono passati cinque anni da quando Rosa, dopo aver raggiunto il molo nel cuore della notte, si è gettata nell’acqua per togliersi la vita. Era una brillante studentessa di Cambridge che aveva appena perso il padre. La sua fu una morte tragica, ma non inaspettata. Ma è davvero tutto ciò che è accaduto?  Il caso fu archiviato come suicidio. Ma il fidanzato della ragazza, Jar, ancora non riesce a rassegnarsi. Vede Rosa ovunque: una faccia sul treno, una fi gura sulla scogliera. È ossessionato dall’idea che sia ancora viva. E poi, di punto in bianco, riceve un’email. «Trovami, Jar. Trovami, prima che lo facciano loro…». Mentre scava nel passato, Jar si inoltra in un mondo oscuro e sotterraneo dove nulla è come sembra. Di chi può fidarsi davvero? Un intrigo più grande di lui può essere la chiave per far luce sulla scomparsa di Rosa… anche se minaccia la sua stessa vita.

Bestseller internazionale
Pubblicato in 14 Paesi
Oltre 500.000 copie vendute

«Il ritmo è sostenuto e la trama è solida, ma è il cast di personaggi psicologicamente ambigui e sapientemente lavorati che lascia il segno.»
Publishers Weekly

«Il thriller di Monroe è un sogno paranoico con un sacco di colpi di scena. Una lettura avvincente che combina il brivido di un romanzo di spionaggio con la profondità di un racconto di formazione.»
Kirkus Reviews

«Un thriller ben scritto con personaggi ben caratterizzati e una trama avvincente che vi terrà con il fi ato sospeso fi no all’ultima pagina.» 
J.P. Delaney, autore del bestseller La ragazza di prima

J.S. Monroe
è lo pseudonimo di Jon Stock, un autore inglese di successo che, dopo aver collaborato con le più importanti testate inglesi e internazionali, ha deciso di dedicarsi interamente alla scrittura. Colpevoli d’innocenza è il primo libro scritto con il suo nome d'arte e ha ottenuto un successo straordinario: ha venduto oltre 500.000 copie ed è stato pubblicato in 14 Paesi. I diritti cinematografici della sua Legoland Trilogy sono stati acquistati da Warner Bros.
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2020
ISBN9788822743428
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    Anteprima del libro

    Colpevoli d'innocenza - J.S. Monroe

    EN.jpg

    Indice

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    PARTE SECONDA

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Capitolo 90

    Capitolo 91

    Capitolo 92

    Capitolo 93

    Capitolo 94

    Capitolo 95

    Capitolo 96

    Capitolo 97

    Capitolo 98

    Capitolo 99

    Capitolo 100

    Capitolo 101

    Ringraziamenti

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    2589

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Find Me

    Copyright © 2016 by Jon Stock

    All rights reserved including the rights of reproduction

    in whole or in part in any form

    Traduzione dalla lingua inglese di Giulio Silvano

    Prima edizione ebook: marzo 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4342-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    J. S. Monroe

    Colpevoli d’innocenza

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Per Hilary

    Anche se sono invecchiato, errando,

    per lunghe vallate e alte colline,

    scoprirò dov’è andata, lei,

    e la bacerò sulle labbra e prenderò le sue mani

    tra le mie.

    La canzone di Aengus l’errante, W. B. Yeats

    L’ho trovata qualche minuto fa, in un angolo, le ali tirate su, unite, come mani in preghiera. Forse ha dato un’occhiata alla mia vita, decidendo di nascondere la sua bellezza? Non posso fargliene una colpa. Papà mi ha insegnato ad amare le farfalle. Se ne restava una intrappolata in casa, non esitava a lasciare quello che stava facendo per liberarla. Ieri, quando eravamo sulla sua barca, ne ha trovata una – una fritillaria con i bordi perlacei, mi ha detto – ferma su una sacca per le vele sotto il sole. Mi ha chiamato, ma lei è volata via non appena mi sono avvicinata. L’abbiamo guardata in silenzio mentre svolazzava, spensierata, coraggiosa, troppo lontana dalla terraferma per sopravvivere.

    Non so di preciso di che specie sia questa. Vorrei spalancarle a forza le ali, far arrivare un po’ di colore nella mia vita svuotata, ma sarebbe una violazione. E già ce ne sono state fin troppe.

    «Sta solo riposando», dice papà. Non l’ho visto arrivare, ma la sua voce non mi spaventa mai. È stato qui spesso nelle ultime settimane. Se ne va in silenzio, così come è arrivato. «I segni sotto le ali aiutano a non farsi notare».

    Proverò a non farmi notare, a tenere quella bellezza, che forse possiedo ancora, per Jar. E un giorno, con l’aiuto di papà, aprirò di nuovo le mie ali sotto al sole.

    Parte prima

    1

    Sono passati cinque anni dal suo funerale, ma Jar la riconosce subito. Lei è in piedi sulle scale mobili che vanno in su, lui sta scendendo, di nuovo in ritardo, dopo un’altra serata nella parte sbagliata della città. Entrambe le scale mobili sono piene di gente, ma gli sembra di avere la metropolitana tutta per loro: passano uno accanto all’altra come se fossero le ultime due persone rimaste sulla Terra.

    Il primo impulso di Jar è chiamarla, sentir risuonare il suo nome – Rosa – oltre il frastuono dell’ora di punta. Invece resta immobile a fissarla, incapace di dire o fare qualsiasi cosa, mentre lei affiora verso la superficie di Londra. Dove sta andando? Dove è stata?

    Inizia a battergli più forte il cuore, gli suda il palmo sul corrimano di gomma nera. Riprova a chiamarla, ma il nome gli si ferma in gola. Lei sembra distratta, ansiosa, di malumore. I capelli mossi con le mèche sono scomparsi, sostituiti da una testa rasata. Diversa dal ricordo che ha di lei. E la sua postura sembra più curva, schiacciata da un vecchio zaino, con una sacca a fiori di tela penzolante. Anche i suoi vestiti – pantaloni larghi da Alì Babà, una felpa di pile – sono trasandati, messi a caso. Ma l’avrebbe riconosciuta persino se si fosse nascosta in un cespuglio. Anche solo grazie alla sua ombra.

    Occhi verde acqua che danzano sotto le sopracciglia serie. E quelle labbra serrate e maliziose.

    Lei guarda giù verso la scala mobile, cercando qualcuno, forse, e fa un passo verso il flusso di persone in movimento. Jar controlla tra la gente lì sotto, mentre un foglio di giornale gli scivola accanto in un soffio di vento caldo, girando e ripiegandosi su sé stesso. Ci sono due uomini che si fanno largo tra la folla, spostando di lato le persone con la confidenza silenziosa dell’autorità. Dietro di loro le pubblicità digitali scorrono sugli schermi, girando come carte da gioco.

    Frustrato, Jar guarda la massa di turisti che gli bloccano il percorso su entrambi i lati, come se questo potesse in qualche modo farli disperdere. Sulle loro guide di Londra non c’è scritto che bisogna stare sul lato destro? Si ferma un secondo a riflettere, ricordandosi di quanto fosse spaesato i suoi primi giorni in città, appena arrivato da Dublino. E poi ha la strada libera, arriva in fondo alle scale mobili, sgattaiola via e in un lampo si gira e torna su. Sceglie la scalinata in mezzo, divora due scalini alla volta.

    «Rosa», chiama, avvicinandosi ai tornelli. «Rosa!». Ma nella sua voce non c’è alcuna sicurezza, non c’è abbastanza convinzione perché qualcuno si giri. Cinque anni sono tanti per continuare a sperare. Controlla l’atrio e la biglietteria piena di gente, immagina che lei sia andata a sinistra, prendendo il corridoio centrale di Paddington.

    Qualche minuto prima, a corto di soldi (e non dovrebbe, dato che manca ancora una settimana al giorno di paga), si era infilato attraverso i tornelli dietro a un viaggiatore ignaro. Ora deve rifare lo stesso, attaccandosi a un uomo anziano. Non ne è affatto contento, non trae alcun piacere dalla facilità con cui evita di farsi scoprire mentre mostra all’uomo il punto in cui infilare il biglietto e oltrepassa il tornello insieme a lui. Un inganno mascherato dalla gentilezza della gioventù.

    Corre finché non è al centro del corridoio, dove si ferma a prender fiato, le mani sulle ginocchia, sotto l’alta campata di archi della stazione austera del Brunel. Dov’è finita?

    E poi la vede di nuovo, diretta al binario 1, dove c’è un treno in partenza per Penzance. Corre facendo slalom tra la folla, lancia maledizioni e si scusa, cerca di non perdere di vista lo zaino.

    Mentre gira intorno a uno stand che vende biglietti di auguri, la vede più avanti, accanto alle carrozze di prima classe del treno. A quanto pare si sta guardando alle spalle (un tempo si infilavano a vicenda cartoline simili, comprate in negozi come quello, sotto la porta delle rispettive stanze all’università, cercando di far colpo uno sull’altra con la loro ironia da studenti). Istintivamente anche lui si volta. I due uomini stanno camminando verso di loro, uno ha un dito sull’orecchio.

    Jar guarda di nuovo verso il binario. Un adetto suona il fischietto, ordinando a Rosa di fare un passo indietro. Lei ignora quel monito acuto, spalanca la porta pesante e la chiude dietro di sé con un suono definitivo, irrevocabile, che risuona in tutta la stazione.

    Ora è il suo turno di avvicinarsi al treno. «State indietro», urla di nuovo la guardia, mentre la carrozza inizia a muoversi.

    Corre verso la porta, ma lei sta già camminando lungo il corridoio in cerca di un posto, scusandosi mentre sbatte contro il sedile di qualcuno. Il treno inizia ad accelerare e lui tiene il passo per guardarla mentre sistema lo zaino sulla cappelliera sopra di lei e si siede accanto al finestrino. Per la prima volta sembra accorgersi della presenza di qualcuno oltre il vetro, ma lo ignora. Si sistema sul sedile e prende un giornale lasciato lì da chissà chi, lanciando un’occhiata alla cappelliera con le valigie.

    Ormai il treno si sta muovendo troppo velocemente per lui, ma mentre corre, Jar batte la mano sul finestrino. Lei alza lo sguardo, gli occhi spalancati, preoccupati. È davvero Rosa? Non può più esserne certo. Non c’è alcun barlume di riconoscimento, nessun segnale che sappia chi è il tizio che la fissa. Non ricorda quanto si amassero un tempo? Jar vacilla, rallenta fino a fermarsi, guarda il treno che si allontana mentre anche lei lo fissa: come fossero due estranei.

    2

    Cambridge, trimestre estivo, 2012

    So che non dovrei scrivere tutto questo – non dovrebbero restare tracce o scie di condensazione nel cielo del Fenland, come direbbe la mia psicologa – ma ho scritto un diario per tutta la mia vita e devo parlare con qualcuno.

    Stasera sono di nuovo uscita con il gruppo di teatro. A quanto pare se volessi potrei avere la parte di Gina Ekdal. Continuo a ripetermi che sto facendo tutto questo per papà.

    Be’, non proprio tutto. Ho preso dell’ecstasy non appena siamo arrivati nel pub. Le candele sui tavoli bruciavano come crocifissi – belli, forse profetici – ma non era quello che avevo sperato. Penso di aver baciato Sam, il regista, e probabilmente Beth, che fa la parte di Mrs. Sørby. Avrei pomiciato con tutto il cast se Ellie non fosse intervenuta.

    Non ci riproverò, ma sono decisa a godermi ogni istante che mi rimane qui. Conosco questo gruppo, questa vita. Non è da me, ma è un progresso rispetto ai primi due semestri (San Michele e La Quaresima, come insiste a chiamarli papà, mentre io continuo a usare le stagioni). È così facile, facilissimo, finire nel giro sbagliato. Più difficile sbrogliarsi poi senza fare danni o sembrare una che fa la superiore.

    Dopo il pub siamo andati a mangiare, anche se non avevo fame. Non so dove fosse, un posto giù vicino al fiume. Ero ancora piuttosto ubriaca, fino a che non è arrivato il momento di pagare.

    E in quel momento l’ho incontrato. Perché adesso, perché ora che rimane così poco tempo? Perché non nel primo trimestre?

    Stava girando intorno al tavolino, prendendo i soldi di tutti gli altri. Un conto diviso per quattordici, ci credi? Ma questo tipo non si è mai lamentato, nemmeno quando è arrivato da me e la mia carta non funzionava.

    «La macchinetta fa i capricci», ha detto, così piano che quasi non l’ho sentito. «Siamo troppo lontani. Meglio se vieni verso la cassa».

    «Scusa?», ho detto, alzando gli occhi per guardarlo. Non sono bassa, ma questo tipo era alto, come un grosso orso con la barba ben rasata e una leggera cadenza irlandese.

    Si è chinato, controllando che nessun altro potesse sentire. Aveva l’alito caldo e un odore di pulito. Sandalo, forse.

    «Allora, dobbiamo riprovare con la carta, più vicino alla cassa».

    C’era qualcosa nello sguardo che mi ha lanciato, un sorriso rassicurante, che mi ha fatta alzare dal tavolo per seguirlo fino alla cassa. E mi piacevano le sue grosse mani pulite, un anello discreto sul pollice. Ma non era per nulla il mio tipo. La mascella larga scendeva troppo rapidamente verso il mento e la bocca era molto sottile.

    Solo quando non eravamo più a portata d’orecchio si è voltato verso di me e mi ha detto a voce più alta che la mia carta era stata rifiutata.

    «Mi hanno chiesto di prendere la tua carta e tagliuzzarla». Ha sorriso. Il suo faccione si è illuminato e le sue proporzioni sono migliorate: il mento si è ammorbidito e gli zigomi si sono alzati.

    «Cosa facciamo?», ho chiesto, sollevata di saperlo dalla mia parte, a quanto pareva. Sono al verde dal giorno in cui sono arrivata.

    Mi ha guardato dall’alto in basso, rendendosi conto per la prima volta, penso, di quanto fossi ubriaca. E poi ha lanciato un’occhiata verso il tavolo.

    «È il cast?», ha detto.

    «Come hai fatto a indovinare?»

    «Nemmeno una mancia».

    «Magari la lasceranno in contanti», ho detto, subito pronta a correre in difesa dei miei nuovi amici.

    «Sarebbe la prima volta».

    «Quindi tu non sei del giro del teatro», ho detto.

    «No, non sono un teatrante».

    Mi ha fatto sentire in imbarazzo con quella parola. «E cosa fai quando non sei impegnato a parlar male dei miei amici?», ho chiesto.

    «Studio».

    «Qui? A Cambridge?».

    Era una domanda stupida, fatta con sufficienza, e lui non si è sbottonato troppo.

    «Scrivo un po’, anche».

    «Ottimo». Ma non stavo ascoltando. La mia mente era già tornata al problema del conto. Non avevo modo di pagare. Non voglio che quelli del cast sappiano che sono senza un soldo, anche se è una condizione che si adatta bene a questa professione. E non posso dir loro che tutte le mie preoccupazioni finanziarie, tutte le mie preoccupazioni in generale, a breve finiranno. Non posso dirlo a nessuno.

    «Ci sono abbastanza soldi nella scatola delle mance, le mance degli altri clienti intendo, per poterti coprire», ha detto.

    Per un istante sono rimasta senza parole. «E perché mai dovresti farlo?»

    «Perché penso che sia la prima volta che esci con queste persone e stai cercando di far colpo. Se non puoi pagare la tua parte magari rischi di perdere il ruolo. E io già non vedo l’ora di venire ad ammirarti. Ibsen non è malaccio, sai?».

    Ci siamo guardati in silenzio. Mi ha preso per il gomito perché ondeggiavo troppo. Iniziavo a sentirmi male.

    «Tutto okay?», mi ha chiesto.

    «Puoi riportarmi a casa?». Il tono della mia voce, biascicato e supplichevole, sembrava molto strano, come se stessi ascoltando qualcun altro che parlava.

    «Stacco tra un’ora». Stava guardando Ellie, che era venuta verso di noi. «Penso che alla tua amica farebbe bene un po’ d’aria fresca», le ha detto.

    «Hai pagato, Rosa?», ha chiesto Ellie.

    «Fatto tutto». E mi ha ridato la carta di credito.

    Ed è più o meno tutto quello che ricordo. Non ho nemmeno scoperto come si chiamava. Tutto ciò che mi rimane è una prima impressione: un uomo a cui il mondo non sembra metter fretta, che vive la vita al suo ritmo moderato; un temporeggiatore, avrebbe detto papà. E sotto quella calma esteriore c’è per caso qualcosa di selvatico, una passione controllata? Oppure è semplicemente una mia pia illusione?

    Ora me ne vergogno. Nessuno di noi due aveva un soldo, eppure alla fine era andata così: lui, scrittore irlandese che lavora in un ristorante, senza lamentarsene, servendo studenti con le braccine corte per pagarsi le bollette, e io insolvente con una carta di credito ormai in rosso.

    Una parte di me, una grossa parte, spera di rivederlo, ma non voglio che sia coinvolto in quello che mi aspetta. Ho ancora paura di aver preso la decisione sbagliata, ma non vedo altra possibilità di uscirne.

    3

    Jar è seduto alla sua scrivania a leggere i vari messaggi di scuse dei colleghi che, come lui, quella mattina non sono stati in grado di arrivare in tempo per la riunione delle 9:30. Ogni giorno resta meravigliato dalla sfrontatezza della gente. Ieri, Tamsin ha risposto alla email di gruppo dicendo che sarebbe arrivata in ritardo dato che i pompieri avevano dovuto salvarla perché era rimasta chiusa in bagno. Così, quando finalmente è arrivata, il volto arrossato e la camicetta abbottonata male, ci sono state varie battutine sui pompieri.

    L’offerta di oggi è più prosaica. La lavatrice di Ben ha allagato il pavimento della cucina; Clive dà la colpa a una mucca sui binari che ha rallentato il suo treno dall’Hertfordshire; e poi c’è Jasmine che dice: «Ero uscita di casa senza portafogli, sono tornata a prenderlo, arrivo tardi». Maria, la grande dame della reception, è in splendida forma: «Mio marito ha mangiato il pranzo al sacco dei bambini, devo farne un altro». Non male, pensa Jar, ma niente che possa competere con l’impareggiabile scusa di Carl dell’estate scorsa: «Mi sto ancora riprendendo dopo il festival di Glastonbury. Potrei presentarmi in ritardo di qualche giorno».

    Carl è l’unico vero alleato di Jar in ufficio, sempre disponibile per una birra dopo il lavoro, implacabilmente allegro, con le cuffie perennemente intorno al collo (se si offre di prendere il tè per tutti, va in giro per l’ufficio facendo una grossa T con le mani per avvertire). È un MC di musica jungle, quando non si occupa del canale musicale sul sito di arte e cultura per cui lavorano entrambi, e non si stanca mai di ripetere che chi ascolta la jungle non è retrò. Anzi, non è passata di moda e ha più successo che mai. È anche un vero malato di informatica, ma tende a dimenticare che Jar invece non ha alcun interesse per lo sviluppo di app o i paradigmi di programmazione.

    Jar ha pensato di mandare una email di gruppo all’ufficio, da Paddington, per spiegare il suo, di ritardo, ma non sapeva come l’avrebbero presa i capi: «Ho appena visto la mia ragazza dell’università che si è suicidata cinque anni fa. Tutti mi dicono che mi immagino le cose, che devo andar avanti, ma io so che è viva, in qualche modo, da qualche parte, e che non smetterò mai di cercarla fino a che non la troverò. Non era pronta per morire».

    A Carl ha detto tutto, ma non agli altri. Sa cosa pensano. Cosa ci fa un giovane e premiato scrittore irlandese, che ha esordito con una raccolta di racconti (un successo di critica se non addirittura commerciale), nel settimo girone dell’inferno di un ufficio ad Angel, a cacciare visualizzazioni su internet scrivendo articoli acchiappa-click su Miley Cyrus? Non è stato per niente bello quando gli hanno chiesto di iniziare con un pezzo sul blocco dello scrittore: Dieci autori che hanno perso il loro tocco. A volte si chiede se lui ce l’ha mai avuto.

    Negli ultimi mesi ha visto Rosa sempre più di frequente: al volante di macchine di passaggio, nel pub, sull’autobus numero 24 (nel posto in prima fila, dove si sedevano sempre quando erano a Londra, diretti a Camden). Le sue apparizioni hanno un nome preciso, secondo il loro medico di famiglia su a Galway: allucinazioni post traumatiche da lutto.

    Suo padre ha un’altra idea, parla con esaltazione della spéirbehan, la donna celestiale che appariva nelle poesie visionarie irlandesi. «Come puoi essere così insensibile?», lo ha rimproverato sua madre, ma a Jar non importa. Lui vuole bene a suo padre.

    Ha passato molto tempo a casa sua a Galway subito dopo la morte di Rosa, cercando di capire cosa fosse successo. Suo padre possiede un bar nel Quartiere Latino. Restavano seduti la sera tardi a parlare delle segnalazioni, una in particolare, quella sulla costa del Connemara (lui parlava, il babbo ascoltava). Sa bene che alcuni sono solo falsi allarmi, ma gli altri, quelli che non riesce a verificare…

    «Sei pallido come un cadavere, amico», dice Carl, buttandosi sulla sua sedia che lascia andare l’aria con un sibilo. «Hai visto un fantasma, per caso?».

    Jar non dice niente e fa il login nel suo computer.

    «Cristo, mi dispiace, bello», dice Carl, passando in rassegna dei CD promozionali che tiene sulla scrivania. «Pensavo solo che…».

    «Ti ho preso un caffè», lo interrompe Jar, passandogli un latte macchiato. Non vuole prolungare l’imbarazzo del suo amico. Carl è leggermente sovrappeso, la faccia da bambino con un sorriso angelico e un cespuglio di rasta chiari in testa. Ha la fastidiosa abitudine di accorciare le parole nelle email (sforti per sfortunato) e quando parla dice in continuazione cose come top e mitico, ma non ha nessuna malizia, a differenza della maggior parte delle persone che Jar conosce.

    «Salute». C’è una pausa di imbarazzo. «Dov’è successo?», chiede Carl.

    «Lo faccio io il doodle di oggi», dice Jar, ignorandolo.

    «Sicuro?»

    «È Ibsen. Un mio vecchio amico».

    I pezzi giornalieri sul doodle di Google li scrivono a turno. Dovrebbero aprire la pagina Google australiana la sera prima e avvantaggiarsi di undici ore sul mondo che dorme, ma spesso se ne dimenticano. Le storie restano nascoste nel sito internet, dove nessuno può vederle, ma sono una vera boccata d’ossigeno per i dati sul traffico, dato che la gente clicca pigramente sul logo del motore di ricerca abbellito con la grafica del giorno.

    Mezz’ora dopo, avendo scritto già più del necessario su Ibsen, in particolare sul personaggio di Gina Ekdal in L’anitra selvatica e su una meravigliosa performance studentesca a Cambridge di cinque anni prima, Jar è giù in strada, a proteggersi dalla pioggia insieme a Carl, nel vicolo accanto all’ingresso dell’ufficio, dove aleggia ancora la puzza di birra della sera prima – e di cose peggiori.

    «Un altro giorno un po’ moscio», dice Jar, riempiendo il silenzio. Capisce che Carl si sta preparando per affrontare un tema imbarazzante e si guarda intorno alla ricerca di una distrazione: «Mangiatore di pizza, ore quattro».

    «Dove?», chiede Carl.

    Jar con uno scatto della testa indica un uomo che cammina sul marciapiede: parla al cellulare tenendolo in posizione orizzontale davanti alla bocca, come una fetta di pizza. Carl e Jar lo guardano, sorridendo. Hanno entrambi una passione per le persone che parlano al cellulare in modi buffi: quello furtivo che parla sussurrando dietro la mano a conchetta, quella che si sposta in continuazione il telefono dall’orecchio alla bocca. Il mangiatore di pizza, però, è uno dei loro preferiti.

    «So che non sono affari miei», dice Carl, tirando fuori una sigaretta mentre l’uomo scompare tra la folla. La tiene tra il pollice cicciotto e l’indice come un bambino che scrive con il gessetto. «Ma forse dovresti pensare di farti vedere da qualcuno. Sai, per Rosa».

    Jar fissa il vuoto, le mani ben infilate nella sua giacca scamosciata, guarda il traffico sotto la pioggia e gli schizzi nella strada davanti a loro. Vorrebbe avere anche lui una sigaretta, ma sta cercando di smettere. Di nuovo. Rosa non ha mai fumato. È sceso solo per far compagnia a Carl, per fargli capire che non ci è rimasto male per quello che è successo prima. E per saltare la riunione delle undici.

    «Penso di conoscere una che potrebbe aiutarti», continua Carl. «È una terapista specializzata nel lutto».

    «Ti sei messo di nuovo a frequentare i becchini?», chiede Jar, ricordandosi dell’esperimento finito male nel mondo degli appuntamenti ai funerali. Basandosi sul principio che i feromoni tendono a schizzare in alto durante le cerimonie funebri – «C’è un sacco di lutto nella lussuria, e un sacco di lussuria nel lutto» – Carl si era imbucato a qualche veglia nella speranza di trovare l’amore. Non necessariamente la vedova, ma una qualche sventola confusa vestita di nero.

    «Mi ha messo il cuore».

    Jar guarda il suo amico, sorpreso.

    «No, okay, non è vero. Mi sta aiutando con un pezzo».

    «Su Tinder?»

    «Pensava che potessi essere interessato a una nuova ricerca che stanno facendo sugli effetti benefici della musica nelle sale d’attesa degli strizzacervelli. Mettono un po’ di jungle vecchio stile e la gente si apre di più».

    «O più probabilmente si buttano giù dalla finestra». Jar fa una pausa. «Il fatto è che dopo l’episodio di stamattina sono ancora più convinto che Rosa sia viva», dice, prendendo la sigaretta da Carl e inspirando intensamente.

    «Ma non era lei, no?»

    «Però poteva essere lei. È questo il punto».

    Restano in piedi in silenzio, guardando la pioggia. La speranza è una cosa fragile e privata, pensa Jar, e gli altri possono distruggerla così facilmente. Inspira di nuovo dalla sigaretta di Carl e poi gliela ridà. Non può fargliene una colpa se è scettico. Stanno per tornare su in ufficio quando Jar con la coda dell’occhio vede un movimento, un uomo alto che si siede dietro la finestra di uno Starbucks, dall’altra parte della strada. Giacca nera della North Face, il colletto tirato su, normalissimi capelli castani, nessun tratto caratteristico. Un uomo senza volto del tutto insignificante, se non fosse che è la terza volta che Jar lo vede in due giorni.

    «Riconosci quell’uomo?», dice Jar, facendo un cenno verso lo Starbucks.

    «Non mi sembra proprio».

    «Giuro che era al pub ieri sera. E sul mio autobus».

    «Ti stanno di nuovo seguendo?».

    Jar annuisce per assecondarlo, ma sa che il suo amico sta per prenderlo in giro. Gliene ha già parlato, della sensazione di essere osservato.

    «Sai che una persona su tre soffre di paranoia?», dice Carl.

    «Così poche?»

    «Le altre due lo stanno seguendo».

    Jar vorrebbe accontentarlo con la risata di prassi, qualcosa che gli faccia vedere che sta bene, che si sta solo immaginando tutto, ma non ci riesce.

    «La sensazione che ho provato quando l’ho vista sulla scala mobile…». Fa una pausa per dare un’altra occhiata a quell’uomo. «Rosa è là fuori, Carl, ne sono certo. Sta cercando un modo per tornare».

    4

    Cambridge, trimestre autunnale, 2011

    Sono passate due settimane da quando sono arrivata qui, e papà mi manca più che mai. Pensavo che cambiare ambiente, ricominciare da capo, avrebbe spezzato il circolo, ma non è così. Nemmeno la nebbia della Settimana delle Matricole riesce a nascondere la grossa carcassa del mio dolore. Eravamo un duo perfetto, come sale e pepe, o Morecambe e Wise (il suo programma preferito). Nessuno dei miei amici ha un rapporto del genere con il padre. Uniti dal destino, senza aver avuto nessun potere decisionale in merito. Semplicemente era così.

    Mi sono arrabbiata così tanto ieri sera al Pickerel quando la gente ha iniziato a parlar male dei propri genitori. Poi la ragazza della stanza accanto, Josie la sonnolenta, di Jersey, anche lei studia letteratura, l’ha chiesto a me. Chiaramente l’atmosfera è cambiata dopo che ho parlato, una nota stonata nel brusio ubriaco del pub. Nessuno sapeva più cosa dire o dove guardare. Per un istante mi sono vista dall’alto, chiedendomi se è così che papà guarda le cose di questi tempi.

    Cinque minuti fa, quando mi sono svegliata alla luce del sole che passava dalle tende economiche dell’università, era ancora vivo e stavamo andando a pranzo fuori insieme a Grantchester. Avevo intenzione di raccontargli delle mie prime settimane a Cambridge, le associazioni in cui sono entrata, la gente che ho conosciuto. E poi mi sono ricordata. Papà mi parlava sempre di questo posto. Siamo venuti qui insieme solo una volta, durante l’estate, una settimana prima che morisse (è così strano scriverlo). Era come sempre, così irrequieto. Papà aveva un entusiasmo incredibile per la vita, un’intelligenza energica. Se ne avesse avuto la possibilità mi avrebbe fatto vedere Cambridge con la sua bicicletta pieghevole (quella che usava per andare al lavoro), o facendo un po’ di jogging (aveva il fisico asciutto del corridore). E invece siamo andati a piedi, di buon passo, io facevo fatica a stargli dietro.

    Tanto per iniziare mi aveva mostrato quello che continuava a chiamare il suo college, che ai quei tempi era solo per uomini. Da non credere, no? È confortante sapere che era qui prima di me, che camminava negli stessi vialetti, che attraversava le stesse corti solenni. E poi mi ha portato a fare un giro in barchino, ha detto che è quello che si faceva lì. Almeno non si è messo un cappellino di paglia.

    Quel giorno era insolito, ci sono stati dei momenti di silenzio. Lui mi ha spiegato che le cose al lavoro erano dure. Non parlava quasi mai del suo lavoro e di solito io non chiedevo niente. Sapevo solo che la sua professione ci aveva portati in varie ambasciate in giro per il mondo, soprattutto nell’Asia del Sud, e che dipendeva dal ministero degli Esteri. Spediva dei report a Londra che nessuno leggeva, si divertiva a dire per scherzo.

    Negli ultimi due anni era stato assegnato a Londra. Non so bene se fosse una promozione, ma comunque viaggiava di tanto in tanto. Ero abbastanza grande per badare a me stessa quando era fuori. E abbastanza grande da accompagnarlo a eventi di lavoro quando tornava, incluso un party in giardino a Buckingham Palace l’anno scorso. Aveva indossato la stessa giacca di quel giorno sul fiume Cam.

    «Devo andare in India», mi aveva detto, chinandosi ingiustificatamente mentre passavamo sotto il ponte Clare.

    «Che fortunato».

    Mi ero pentita del mio tono di voce. Sapevo che non gli piaceva assentarsi per lunghi periodi.

    «Ladakh», aveva aggiunto, sorridendo.

    Sperava di indorare la pillola. Avevamo fatto un bel viaggio una volta lì, a Leh. Passavamo il tempo nei bar hippy su Changspa road, a guardare giovani israeliani che arrivavano in città sulle loro Enfield Bullet in cerca di ristoro nelle montagne dopo il servizio militare. Probabilmente è il mio posto preferito al mondo. Voglio avere un lavoro un giorno che mi permetta di viaggiare, come papà.

    L’ho guardato annuire verso un barchino che veniva dall’altra direzione. Due genitori orgogliosi seduti davanti, il figliol prodigo che teneva il timone lungo i Backs. Sono certa che la carriera di mio padre sia stata ostacolata dalla sua ostinazione a essere sempre presente per la sua unica

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