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Vorrei solo averti qui
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E-book532 pagine7 ore

Vorrei solo averti qui

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Info su questo ebook

Shot Series

August e Iris sanno di essere fatti l'uno per l'altra. Ma il tempismo dei loro incontri è sempre stato pessimo e così, nonostante la sintonia che c'era tra loro, hanno finito per prendere strade diverse. Lui è diventato una stella dell'NBA e lei combatte con la sua quotidianità. Ma non si sono mai dimenticati. Nel corso degli anni, nei loro momenti più bui, August e Iris ripensano all'unico, indimenticabile bacio che si sono scambiati. A quella notte, a quel bivio che ha cambiato le loro vite per sempre. E anche se sanno che è difficile, continuano a sperare in una seconda occasione.

«Questa autrice è in grado di trasmettere emozioni intense. La sua scrittura è ammaliante.»
Amy Harmon

«Un romanzo che riesce a toccarti l’anima.»
Lucy Score

Kennedy Ryan
è un'autrice bestseller di «USA Today» e vincitrice del prestigioso premio RITA. Ha fatto innamorare le lettrici di tutto il mondo grazie alle sue eroine forti e coraggiose che, anche nei momenti di difficoltà, superano gli ostacoli con determinazione.  È la fondatrice di un'associazione che si occupa di assistere le persone affette da autismo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2020
ISBN9788822740823
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    Anteprima del libro

    Vorrei solo averti qui - Kennedy Ryan

    1

    August

    Domani è il compleanno di mio padre.

    O meglio, lo sarebbe stato. È morto quindici anni fa, quando avevo sei anni, ma, nei momenti importanti, quelli che contano di più, sento che lui è ancora con me. E alla vigilia della notte più importante della mia esistenza, spero che lui possa vedermi. Spero che sia fiero di me.

    Domani si svolge la partita fondamentale della mia vita. Senza dubbio, il mio sedere dovrebbe essere al sicuro, nella mia camera d’albergo, non fuori, a passare il tempo in qualche bettola. Ingoio una manciata di noccioline e sorseggio il mio ginger ale. Al tavolo accanto al mio hanno appena ordinato un altro giro di birra. Dio, cosa darei per bere qualcosa di più forte che riuscisse a sciogliere quest’ansia prepartita, ma non bevo mai prima di un incontro. E quello di domani non è un incontro qualsiasi.

    Do un’occhiata al mio orologio. Quindici minuti di ritardo? Questo non è da coach Kirby. È l’uomo più puntuale che conosca. Il suo nome compare sullo schermo del mio cellulare proprio mentre sto per chiamarlo. Spingo via la ciotola delle noccioline, insieme alla sensazione che deve esserci qualcosa che non va.

    «Salve, coach».

    «Ciao, West». La sua voce ha un tono di calma forzata che mi convince che c’è davvero qualcosa che non va. «Lo so che sono in ritardo, scusami».

    «No, tranquillo. Va tutto bene?»

    «È Delores». Mentre pronuncia il nome della moglie, la sua voce si incrina. Il basket è il secondo amore del mio allenatore del liceo. Dal giorno in cui l’ho incontrato, durante il mio primo anno alla St Joseph, so che Delores è il primo.

    «Sta bene?»

    «Lei… be’, eravamo in albergo quando ha cominciato ad avvertire dolori al petto e difficoltà a respirare». Un sospiro preoccupato mi arriva dall’altra parte del telefono. «Adesso siamo al pronto soccorso. Stanno facendo un mucchio di dannati esami e…».

    «Di quale ospedale?». Sono già in piedi, mentre frugo nel portafoglio il denaro per pagare il mio esiguo conto al bar. «Sto arrivando».

    «Col cavolo». L’autorità con cui ha scacciato tutta la mia pigrizia per quattro anni rafforza la sua voce. «Domani sera devi giocare la finale del Campionato nazionale. L’ultimo posto in cui devi stare stasera è la sala d’attesa di qualche ospedale».

    «Ma, Delores…».

    «È una mia responsabilità e me ne sto occupando».

    «Ma, io posso…».

    «La tua famiglia è già arrivata in città?». Ignora la mia protesta per chiudere l’argomento.

    «No, signore». Faccio una pausa, cercando di controllare la mia esasperazione. «Matt doveva lavorare oggi. Lui e mia madre arriveranno in aereo domani».

    «E il tuo fratellastro?»

    «È bloccato in Germania. Ha un evento per alcuni suoi clienti». Io e il mio fratellastro potremo anche non avere lo stesso sangue, ma di sicuro condividiamo l’amore per lo sport. Io sul campo. Lui fuori, come agente.

    «Mi dispiace che non venga», dice il coach. «So quanto siete legati».

    «Va bene così», rispondo cercando di nascondere la mia delusione. «Ci saranno la mamma e Matt. E voi, ovviamente».

    «Mi dispiace di non riuscire a venire al bar, anche se il motivo per cui insisti a uscire la sera prima delle grandi occasioni non riesco davvero a capirlo».

    «Lo so, coach. È solo che avevo bisogno di…». Di cosa ho bisogno?

    Conosco il libro con gli schemi di gioco a menadito e ho guardato tanti di quei filmati che mi fanno male gli occhi.

    Stasera sono irrequieto. Anni di sacrifici, miei e della mia famiglia, mi hanno fatto arrivare fino a qui. E non avrei potuto farcela senza l’uomo con cui sto parlando al telefono. Il coach ha investito moltissimo su di me negli ultimi otto anni, anche dopo che mi sono diplomato e ho iniziato l’università. Quando i talent scout e i giornalisti sportivi spingevano perché diventassi professionista con un anno di anticipo, lui mi ha convinto a restare e finire gli studi. Per migliorare i miei fondamentali e maturare prima di entrare nell’NBA. Ma l’uomo che mi ha passato il suo DNA – la sua apertura alare, le sue mani grandi, il corpo alto e affusolato e, credo, anche il suo amore per questo sport – è la persona a cui continuo a pensare stasera.

    Mio padre.

    Non sapevo con chi avrei dovuto condividere questo momento, ma sapevo che non erano i miei compagni di squadra che sono andati a caccia di ragazze in qualche bar rumoroso. Anche se so che tutto quello che faranno la sera prima della partita sarà solo un po’ di casino, io non ne avevo proprio voglia.

    «Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, procuratela ed esci di lì», dice il coach, riportandomi alla realtà. «Riporta il culo in albergo. Mannard ti lascerà in panchina se non rispetti il coprifuoco, anche la sera prima del Campionato nazionale. Non ti devi montare la testa».

    «Sì, signore. Lo so».

    Tra l’attitudine io non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno del coach e la formazione militare del mio patrigno, mi viene naturale chiamare tutti signore e signora. Per entrambi, la disciplina e il rispetto non sono negoziabili.

    «Devo lasciarti», dice il coach. «Sta arrivando il dottore».

    «Mi tenga informato».

    «Lo farò». Fa una pausa prima di aggiungere: «Sai che domani ci sarò se ne avrò anche la minima possibilità. Devo solo assicurarmi che Delores stia bene. Lei è l’unica ragione per cui mi perderei la partita. Sono molto fiero di te, West».

    «Lo so, grazie, coach». L’emozione mi fa bruciare la gola e devo lottare per non perdere il controllo. Il compleanno di mio padre, la pressione per la partita di domani e adesso anche Delores in ospedale… Barcollo sotto il peso di questa giornata, di tutte queste cose, ma voglio essere sicuro che dalla mia voce non trapeli niente quando parlerò di nuovo. Il coach ha già abbastanza pensieri senza doversi preoccupare del fatto che io non possa essere pronto per domani. «Faccia quello che deve fare, Delores viene prima di tutto».

    «Spero di vederti domani», continua burbero. «Li straccerai tutti».

    «Sì, signore. L’intenzione è quella. Mi chiami appena sa qualcosa».

    Non mi disturbo neanche a cercare un cameriere e a chiedere il conto. Lascio semplicemente una banconota da venti dollari sul tavolo, più che sufficienti a pagare il mio mediocre ginger ale.

    Ho ancora alcune ore prima del coprifuoco, ma visto che il coach non può venire ad aiutarmi a distendere i nervi, tanto vale che me ne torni in albergo. Cercherò di sgattaiolare in camera senza farmi vedere dai miei compagni di squadra.

    Sono quasi arrivato alla porta, quando una sfuriata dall’altra parte del bar mi fa fermare.

    «Stronzate!», grida una roca voce femminile. «Sai benissimo che quella è una chiamata del cazzo».

    Sono quasi sulla soglia, quando mi volto per vedere la donna che impreca come un marinaio. Le curve mettono in risalto il suo corpo magro e slanciato: la rientranza della vita avvolta in una maglietta aderente, i fianchi rotondi fasciati dai jeans. Salta giù dallo sgabello e si sporge in avanti, il corpo teso per lo sdegno, i pugni colpiscono il bancone del bar e lei strizza gli occhi verso lo schermo piatto del televisore. Deve essere alta più di un metro e settanta. Un ragazzo della mia statura si abitua a svettare sopra gli altri, ma mi piacciono le donne un po’ più alte. I suoi capelli, scuri e densi come la mezzanotte, sono un’avventura, si muovono liberi e selvaggi in tutte le direzioni e le circondano il viso, scendendo fin sotto le spalle. Sembra arrabbiata, la bocca grande e piena è tirata e la mascella contratta.

    Il viso bellissimo e il suo atteggiamento mi intrigano. Anche se stanotte non farò sesso, almeno posso cercare di distrarmi dalla pressione che mi sta schiacciando da tutto il giorno. Che cavolo… che mi sta schiacciando da settimane. Voglio scrollarmi di dosso tutti i pensieri tristi che la morte di mio padre mi trasmette sempre, il pensiero di quello che ci siamo persi. Vederla così arrabbiata, mentre impreca contro il televisore e soprattutto contro gli arbitri, alleggerisce un po’ il peso che sto portando. Mi ritrovo a camminare verso l’unica cosa che è riuscita a penetrare il muro di tensione che mi circonda da quando siamo approdati al campionato universitario nazionale di basket alcuni giorni fa.

    «Coglione», borbotta, mentre sistema di nuovo il suo sedere avvolto nel denim sullo sgabello del bar. «Quello non era davvero un fallo palese».

    Mi siedo sullo sgabello vuoto accanto a lei e lancio un’occhiata allo schermo dove stanno ritrasmettendo la sequenza incriminata. «A dire la verità, sono quasi sicuro che quello fosse un fallo palese». Afferro una manciata di noccioline da una ciotola che si trova in mezzo a noi.

    «Allora o sei cieco e sordo come l’arbitro», dice senza staccare gli occhi dalla TV, «oppure stai cercando di rimorchiarmi. In ogni caso, non m’interessa».

    La mano con le noccioline si immobilizza a metà strada tra la ciotola e la mia bocca. Ho la possibilità di diventare il giocatore universitario dell’anno, sono stato lo studente atleta più popolare della mia università per quattro anni, e quando ero in seconda liceo sono stato nel programma Plays of the Week della ESPN. Nessuna ragazza mi ha mai scaricato da quando ero alle medie, ma non mi tiro mai indietro davanti a una sfida.

    «Voglio solo parlare». Faccio spallucce e mi volto verso di lei. «Ma se vuoi essere rimorchiata, potrei anche organizzarmi».

    Alla fine si degna di guardarmi. Il suo viso a forma di cuore lascia a bocca aperta, un mix di forza e delicatezza. Ha gli zigomi alti e sopracciglia scure che incorniciano un nasino rotondo e occhi color nocciola. Nocciola è una parola troppo semplice per descrivere tutte le sfumature di verde, marrone e oro. Non ho mai visto occhi come questi. Tanti colori insieme. Tante cose insieme. Mi chiedo se la ragazza dietro quegli occhi sia multidimensionale.

    «Non vorrei sfinirti prima della tua grande partita di domani». Contrae gli angoli della bocca come se stesse cercando con tutte le sue forze di non ridere di me.

    Questa cosa mi fa riflettere. Allora sa chi sono. Di solito questo è un punto a mio favore, ma ho la sensazione che lei non sia la tipica fanatica. «Sei una tifosa?».

    Com’era prevedibile, alza gli occhi al cielo, prima di rivolgere di nuovo la sua attenzione alla partita. Il barman si avvicina con una bottiglia in mano.

    «Cosa prendi?». Appoggia sul bancone la bottiglia di vodka, lanciando un’occhiata curiosa a me e alla donna che mi sta ignorando.

    «Potrei avere un ginger ale?».

    Con un sorrisetto canzonatorio mette via la vodka e tira fuori un ginger ale dal frigorifero sotto il bancone. Versando la bibita frizzante in un bicchiere, piega la testa di lato per sbirciare sotto la tesa del cappello che tengo calato sugli occhi.

    «August West?». Un sorriso gli illumina il viso.

    Annuisco, mi porto l’indice alle labbra e gli faccio segno di stare zitto, spero che non dica niente e mi lasci flirtare in pace. Non ho voglia di firmare autografi ed essere bersagliato da continui in bocca al lupo. Non gioco ancora nell’NBA, ma da quando la nostra squadra ha superato il primo girone del campionato NCAA, i media, per non so quale motivo, si sono concentrati su di me, facendo conoscere a tutti il mio profilo e rendendomi impossibile restare anonimo.

    «Ho capito», dice il barman annuendo con aria d’intesa, poi aggiunge, parlando sottovoce come se stessimo cospirando qualcosa: «Vuoi evitare il casino e la folla, eh?»

    «Qualcosa del genere». Rivolgo di nuovo il mio sguardo alla super tifosa, che ha occhi solo per il televisore. «La signora cosa prende?»

    «Una birra che può pagarsi da sola». Mi rivolge un sorriso sbilenco e prende un sorso dal suo bicchiere ancora mezzo pieno.

    «Oooooh». La pancia da birra del barman – rischi del mestiere – ballonzola mentre lui ride sotto i baffi. Mi dà un’occhiata di commiserazione prima di tornare all’altra estremità del bar a servire i clienti.

    «Allora, vieni qui spesso?». Non posso credere di aver appena detto una cosa del genere.

    Dalla sua espressione capisco che non riesce a crederci nemmeno lei.

    «Dopo mi chiederai che cosa ci fa una ragazza carina come me in un posto come questo?». L’umorismo nel suo sguardo ne mitiga un po’ la durezza.

    «Pensi che il mio gioco sia così debole?».

    Mi guarda di traverso, alzando le sopracciglia. «Stiamo parlando del gioco sul campo o fuori?»

    «Ahi ahi». Faccio una smorfia e piego la testa per studiarla. «E io che pensavo saresti stata una dolce distrazione fino al coprifuoco».

    «Io non sono la distrazione di nessuno», risponde. «Specialmente se si tratta di qualche giocatore che ha voglia di scaricare il testosterone».

    «Giudizi e pregiudizi», dico scuotendo la testa con finta delusione. «Non ti hanno mai detto di non giudicare un libro dalla copertina? Potresti non sapere…».

    «August West, un metro e novantotto, Piermont College, hai iniziato come playmaker, letale nel tiro da tre punti, QI relativo al basket non misurabile, tra i finalisti per entrare nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame. Oltre due metri di apertura alare e oltre un metro di elevazione». Il suo sguardo tagliente mi squadra dalla testa ai piedi, dalla tesa del mio cappello alla punta delle mie Nike, prima di rivolgersi nuovamente allo schermo.

    «I tuoi salti possono ricordare Michael Jordan, ma la tua difesa lascia a desiderare», dice lasciandosi sfuggire una risatina. «E la mia non è una supposizione. Lo so per certo».

    Anch’io non posso fare a meno di ridere perché il coach Mannard mi ha tormentato per tutta la stagione – be’, a dire la verità sono quattro anni che mi tormenta – dicendomi che devo migliorare in difesa. Il mio tiro da tre punti è la mia arma migliore, ma lui si preoccupa dei fondamentali che faranno di me un giocatore completo. Ed è evidente che lo pensa anche lei.

    «Così mi dicono». Mi volto con la schiena verso il bar e appoggio i gomiti sul bancone. Ha tutta la mia stima. «Com’è che sei così esperta di basket?»

    «Vuoi dire perché sono una ragazza e dovrei guardare le partite delle cheerleader?». Mi lancia un’occhiataccia carica di indignazione.

    «Ehm… vuoi dire competizioni? Anch’io so che quelle delle cheerleader sono competizioni e non partite».

    «Uau, visto?», dice con una buona dose di sarcasmo. «Tu conosci le cose da ragazze e io conosco le cose da ragazzi. Sarà la giornata degli opposti?».

    Rivolge di nuovo la sua attenzione allo schermo come se non le importasse niente di avermi fatto una grande impressione. Noi ragazzi imprechiamo spesso e a maggior ragione quando si tratta di sport. Una donna che sa parlare di sport e che impreca? Uno stramaledetto unicorno luccicante. Questa ribatte colpo su colpo. Anzi, il colpo vincente è suo. In lei c’è un entusiasmo, una fiducia in sé stessa che mi fa venire voglia di saperne di più.

    Tante ragazze si limitano a fare lo specchio. Cercano di capire quello che ti piace così possono conquistare un giocatore di pallacanestro. Questa ha le sue opinioni, tiene il punto e non gliene frega niente se ti piace o no.

    E a me piace.

    «Visto che tu sai tante cose di me», le dico, «mi sembra giusto che io sappia qualcosa di te».

    Volta la testa di pochi centimetri, occhi incollati allo schermo come se distogliere lo sguardo dalla partita la uccidesse. La sua espressione, quegli occhi mutevoli, si addolciscono un pochino. «E cosa vorresti sapere, esattamente?»

    «Il tuo nome sarebbe un buon inizio».

    Sorride. «La mia famiglia mi chiama Gumbo».

    «Gumbo?». Mi va di traverso il ginger ale… quasi mi strozzo. «Perché hai le orecchie grandi?».

    Rischio e la tocco, spostandole un ciuffo di riccioli ribelli. La linea del suo orecchio è assolutamente delicata e ciocche di capelli scuri si attorcigliano al suo collo.

    «Non Dumbo». Ride e si allontana e i suoi capelli mi scivolano via tra le dita. «Gumbo, come la zuppa».

    «Avevo capito». Ed era vero, ma dovevo inventarmi qualcosa se volevo rubare quel tocco senza che lei si tirasse indietro sconcertata. «Allora, perché Gumbo?».

    Esita e, per un momento, temo di non essere riuscito a rompere il ghiaccio come credevo. Alla fine, con un’alzata di spalle, continua: «Forse non hai notato l’accento, perché non vivo più là da molti anni, ma io sono di New Orleans».

    Adesso che me lo ha detto, sento qualcosa nella sua voce che mi ricorda quella città. Quella parlata lenta, strascicata, condita di musica e mistero.

    «La mia famiglia si è trasferita ad Atlanta dopo Katrina», dice con un sospiro che cerca di camuffare con una risata. «Ma io sono di New Orleans al cento per cento. Un prodotto creolo originale. E se il creolo non fosse un mix abbastanza eterogeneo, mio padre è mezzo tedesco e mezzo irlandese».

    Credo che proprio la sua bellezza indefinibile sia parte del suo fascino. Qualcosa di elusivo e indecifrabile. Non avrei mai indovinato le varie etnie che si fondono per creare un viso come il suo: la bocca grande e carnosa, la pelle ramata e una struttura ossea straordinaria. Penso di non aver mai visto una persona come lei. Il suo è un viso che non si dimentica. Mai.

    «Sono un miscuglio di tutto quello che il bayou¹ può portare». Prende un sorso del suo drink e poi continua: «Quindi mia cugina dice che ho più ingredienti del…».

    «Gumbo», finisco con lei. Sorridiamo entrambi e lei annuisce. «Allora anche tu sei un meticcio come me».

    «Non volevo dirlo». Il suo sguardo vaga sul mio viso e i miei capelli, sul mio aspetto indefinibile quanto il suo. «Ma ora che ne hai parlato…».

    «Lascia che ti mostri qualcosa». Prendo il mio cellulare e scorro le fotografie finché non ne trovo una della mia famiglia: è stata scattata qualche anno fa durante una vacanza in campeggio. «Guarda».

    Prende il telefono e il suo sorriso svanisce. So quello che vede. Mia madre sorride all’obiettivo, i capelli rossi incorniciano il suo viso pallido nel sole invernale. Il mio patrigno e il mio fratellastro sono in piedi dietro di lei, entrambi alti e biondi.

    E poi ci sono io.

    I miei capelli sono quasi rasati a zero per cercare di domare i riccioli scuri che non riescono a decidere in che direzione crescere. La mia pelle ha il colore del miele più scuro e i miei occhi sono grigi come l’ardesia. Non potrei assomigliare meno alla mia famiglia neanche volendo.

    «Come vedi anche noi siamo diversi». Sorrido da sopra il mio bicchiere, mentre sorseggio il mio ginger ale. «Credo di essere un Gumbo anch’io».

    Anche lei mi sorride e mi restituisce il telefono, ma, piano piano il sorriso scompare dal suo viso, sostituito dalla curiosità che vela il suo sguardo quando si volta di nuovo verso di me. Ma qualsiasi cosa abbia voglia di domandarmi, non lo fa.

    «Cosa?», le chiedo io alla fine.

    «Cosa vuoi dire con cosa

    «Mi sembrava che volessi dire qualcosa».

    Per un istante, si chiude in sé stessa e io penso che non me lo dirà, ma poco dopo, guarda in alto sorridendo.

    «Ti sei mai sentito come se fossi fuori posto dappertutto?». Lo dice quasi sottovoce se paragonato alla confusione del bar. Per sentire mi chino verso di lei, le nostre teste quasi si toccano. «Voglio dire, come se fossi sempre in bilico, in mezzo a due cose».

    La sua domanda dà voce a qualcosa che ho provato spesso, anche se non ne ho quasi mai parlato. A volte mi sento fuori posto nella nuova famiglia di mia madre. Forse non assomiglierò molto al mio padre afroamericano, ma di certo non assomiglio a nessuno della mia famiglia. La maggior parte dei bambini somiglia a un genitore o all’altro e prova un senso di appartenenza basato su questa somiglianza. Io invece mi sono sempre sentito un po’ alla deriva. Il basket è diventato la roccia a cui potevo aggrapparmi.

    «So cosa vuoi dire». Mi schiarisco la voce prima di continuare. «Mio padre è morto quando io ero molto piccolo e mia madre, dopo poco, si è risposata. Mi ci è voluto un po’ di tempo per abituarmi alla cosa, specialmente a essere diverso, quando tutto quello che volevo era essere come gli altri».

    «Ti capisco», mi dice.

    Faccio spallucce.

    «Grazie al basket, ho incominciato a preoccuparmi meno di adeguarmi agli altri e a pensare di più a come distinguermi dagli altri». Roteo il bicchiere fra le mani. «Ma anche così, a volte mi sento… non so… fuori posto».

    «Anch’io. La mia pelle era più chiara di quella degli altri ragazzi del quartiere. I miei capelli erano diversi». Scuote la testa riempiendo l’aria intorno a noi con il profumo del suo shampoo, un profumo dolce e agrumato. «Molte ragazze credevano che io mi ritenessi migliore di loro, mentre tutto quello che volevo era assomigliare a loro. Essere come loro. Per alcuni anni ho vissuto con mia cugina, altrimenti me ne stavo per conto mio».

    Com’era stato per lei? Una bellissima anomalia nel nono distretto di New Orleans. Forse non ho bisogno di immaginarlo. Forse lo so per esperienza.

    «Una vita molto solitaria, eh?», le chiedo.

    «Sì». Passa il dito indice sull’orlo del bicchiere, le sue ciglia si abbassano come se volessero impedirmi di vedere i suoi ricordi, nascondere il dolore, ma è lì, nella sua voce e io lo riconosco.

    «A volte, anche se avevamo la casa piena di gente», le dico sottovoce, così che solo noi possiamo sentire, «io finivo nel cortile sul retro a giocare a basket da solo, finché non diventava buio».

    Come se ci fosse un centro magnetico, i nostri corpi si sono voltati uno verso l’altro. La confidenza che si è creata fra di noi, ci avvolge e ci separa dalle conversazioni volgari, dal karaoke improvvisato dall’altra parte della stanza, dal tifo selvaggio per la partita in TV. Ci siamo solo noi, due disadattati. Pochi minuti con una completa estranea e all’improvviso mi sento compreso come non mi era mai successo in tutta la vita.

    «Ci si abitua a stare soli», dice alla fine.

    «Che mi dici di tua madre? Siete molto legate?»

    «Legate?». Mi guarda di traverso e butta la testa all’indietro. «Non proprio. Ha fatto molti sacrifici per me e non è mai stato facile. È una tosta, una sopravvissuta e io la rispetto, ma non sono sempre stata d’accordo con le sue scelte. Non ricordo che abbia mai conservato un lavoro per più di qualche settimana».

    «E come facevate a tirare avanti?»

    «È una bella donna». Mi guarda con circospezione come se si aspettasse un giudizio da me. «Diceva sempre che è facile trovare un uomo che voglia prendersi cura di una bella donna».

    Non so cosa dire. Anche mia madre è una bella donna, ma non riesco a immaginarla a vivere in quel modo – contando solo sul suo aspetto – perché appena mio padre è morto lei ha cominciato a insegnare e, da allora, ha sempre lavorato sodo.

    «Tu sei una bella donna». Le sfioro il ginocchio con il mio. «E scommetto che sei perfettamente in grado di provvedere a te stessa».

    Comincia a sorridere con gli occhi e poi lo fa anche con le labbra. «Grazie».

    Non devo neanche chiedere per quale complimento mi sta ringraziando.

    «Mia zia ha due anni più di mia madre», continua. «E mia madre l’ha sempre vista fare così. Hanno visto la loro madre vivere così. Usavano quello che avevano per ottenere quello di cui avevano bisogno».

    Sospira prima di bere un sorso del suo drink e poi continua: «Mia zia è venuta a vivere con noi ad Atlanta dopo Katrina, hanno cambiato codice postale, ma non hanno cambiato abitudini. A quanto pare in qualsiasi parte del mondo ci sono uomini desiderosi di prendersi cura di belle donne».

    «A parte tua cugina, sei legata a qualcun altro della famiglia?»

    «Solo a Lotus». Un’ombra passa sul suo volto. «Lei andò a vivere con la bisnonna nella zona sud della città e io rimasi a New Orleans, ma quando, alcuni anni fa, si è trasferita ad Atlanta per studiare all’università, ci siamo riavvicinate».

    Scuote la testa, come per scacciare i pensieri, i ricordi. «Be’, abbiamo parlato abbastanza della mia famiglia disfunzionale. Dimmi di te. Tuo padre era Perry West, giusto?»

    «Conosci mio padre?»

    «Certo». Quando i suoi occhi incrociano i miei, vedo che sono pieni di affetto. «Perderlo in quel modo… dev’essere stata dura».

    «Sì». Mi stringo nelle spalle, un gesto casuale che non accenna neanche a quanto è stata dura. «Era un grande giocatore».

    «Il suo tiro da lontano era incredibile». Sorride con malinconia. «Quanto tempo è rimasto nella Lega?»

    «Quando ha avuto l’incidente d’auto era a metà della stagione». Io avevo sei anni, ma ricordo bene il suo funerale. C’erano tutti i suoi compagni di squadra, ai miei occhi sembravano alti come grattacieli. «Domani è il suo compleanno».

    «Non ci credo». Spalanca gli occhi. «Giocherai la finale del Campionato nazionale il giorno del compleanno di tuo padre?».

    Annuisco e, per la prima volta, mi concedo di sorridere per questo enorme scherzo del destino. È passato tanto tempo da quando mia madre e mio padre erano sposati, ma credo che lei ricordi che domani è il suo compleanno. Tuttavia non ne abbiamo mai parlato. È come se solo io lo sapessi e adesso lo sa anche questa bellissima ragazza Gumbo.

    «Domani è per lui?». Il suo sguardo non abbandona mai il mio viso, e mi trascina verso di lei. «Penso di sì. Sai, voglio dire, quante probabilità c’erano? Continuo a chiedermi se sa dove sono arrivato. Se può vedermi». Faccio una risatina e osservo il suo volto per capire se mi reputa un idiota. «Ti sembra stupido?»

    «Per niente. Non so cosa succede quando ce ne andiamo, ma spero che possa vederti. Sarebbe fiero di te, non importa come andrà a finire la partita domani».

    «Lo spero tanto». Mi chino in avanti e mi avvicino ancora di più a lei, riservandole la stessa attenzione che lei offre a me. «E che mi dici di tuo padre? Del tedesco irlandese nel tuo Gumbo».

    Sorride, ma è un sorriso tirato.

    «Era per metà tedesco e per metà irlandese. È tutto quello che so di lui». La sua risata aspra rompe la quiete che avevamo creato nel nostro angolino del bar. «Be’, so anche che aveva una moglie e dei figli. Mia madre era solo… un’amante occasionale, credo. Lui le pagava l’affitto, ma subito dopo la mia nascita se n’è andato. E anche lei. Lui non è mai tornato a chiedere di me. E lei non mi ha mai dato molte spiegazioni per la sua assenza».

    «E adesso? Niente?»

    «Abbiamo lasciato tutto quando ci siamo trasferite ad Atlanta». Fa spallucce fingendo che non le importi nulla, ma io non la bevo. «Potrebbe essere ancora a New Orleans. Potrebbe essere morto quando si sono rotti gli argini. Chi lo sa? Non ha mai fatto molta differenza per me».

    «Come siamo finiti a parlare di questo?». Mi punta il dito contro fingendo di accusarmi. «Lei, signore, è uno che sa ascoltare. Un modo subdolo per distrarre una ragazza dal fatto che la sua squadra sta perdendo».

    Do un’occhiata alla partita anch’io, capisco che vuole cambiare argomento. «Sei tifosa dei Lakers?»

    «Un’irriducibile viola e oro». Incrocia le braccia sul bancone e si sporge in avanti, tornando a fissare lo schermo. «Quando ero una ragazzina, New Orleans non aveva una squadra».

    «Be’, stasera li faranno a pezzi», dico senza che mi venga chiesto, nella speranza di suscitare la sua reazione. Funziona, e lei comincia una tirata per difendere il leggendario retaggio dei Lakers, anche se ultimamente attraversano una fase negativa e subiscono una sconfitta dopo l’altra. Nell’intervallo tra gli ultimi due periodi riusciamo a parlare di tutto. A lei piacerebbe lavorare nel marketing, settore sportivo, e ha già parecchie opportunità di fare degli stage una volta conseguita la laurea. Sembra che molte delle sue storie ruotino attorno a Lotus, l’ambiziosa e cazzuta studentessa di moda che è sempre pronta a difenderla. Da parte mia, evito di raccontarle tutte le cose che sa già di me: le mie percentuali e tutte le storie che girano in tutte le trasmissioni sportive. Le racconto invece di mia madre, del coach, delle lezioni di filosofia che mi stanno dando del filo da torcere. Parliamo davvero di qualsiasi cosa, dalle cose banali a quelle importanti, nel tempo che ci vuole ai Lakers per essere spazzati via.

    «Cosa è stato a farti appassionare così al basket?», le chiedo durante una pausa pubblicitaria dell’ultimo tempo.

    «Non so». Osserva la sua birra ormai sgasata. «Uno dei fidanzati di mia madre, Telly, ha vissuto con noi per un po’ quando io avevo circa dieci anni». Appoggia un gomito al bancone e mi dà un’occhiata schietta, sincera. «Lui è stato uno dei pochi buoni che sono rimasti per un po’. Adorava il basket e adorava i Lakers. Guardavamo le partite insieme». Fa una risatina, disegnando con il dito nella condensa sopra il suo bicchiere. «Le sere in cui giocavano i Lakers, ordinavamo pizza con ananas e peperoni e bevevamo birra analcolica».

    «Cos’è successo?», chiedo sorseggiando il mio terzo ginger ale. «A Telly, voglio dire».

    Prima di rispondere scuote leggermente la testa. «Ha abusato dell’ospitalità, credo». Si volta di nuovo verso lo schermo, forse è una scusa per distogliere lo sguardo. O forse la partita ha davvero attirato la sua attenzione. I Lakers hanno la palla. «Qualcun altro è arrivato al suo posto, qualcuno più ricco. E la mamma ha fatto lo scambio».

    «Lo hai più rivisto? Siete ancora in contatto?».

    Distoglie lo sguardo dallo schermo e, per un istante, fissa, in silenzio, il bancone del bar. «No».

    Quella parola esce dalla sua bocca in un sussurro rauco. Subito dopo mi guarda e mi fa un sorriso scherzoso. «Ma mi piacciono ancora pizza e birra quando guardo i Lakers».

    «Qui non servono la pizza?», borbotto prendendo una manciata di noccioline.

    «Bisogna prendere quello che passa il convento». Il suo sorriso si trasforma in una smorfia quando sullo schermo appare il risultato finale. «Un’altra sconfitta. L’arbitro ci ha fatto chiamate contro tutta la sera».

    «Sul serio? Chiamate contro?». Distolgo lo sguardo dalla partita e la fisso con scetticismo. «E non ha niente a che fare con il fatto che la squadra sta invecchiando ed è stata flagellata dagli infortuni in queste ultime stagioni? È la fine di un’era, se vuoi la mia opinione».

    «Morditi la lingua», ribatte con rabbia, ma c’è una luce giocosa nel suo sguardo. «Potresti finire a giocare coi Lakers. Ci hai pensato?»

    «Chi lo sa dove finirò», le rispondo con un sorriso sbilenco. «Io spero di andare con gli Stingers».

    «Baltimora?». Corruga la fronte, ma poi capisce. «Oh! La tua città natale, vero?»

    «Sì, voglio dire, è successo a LeBron con Cleveland. Ha giocato dov’è cresciuto, con i Cavaliers».

    «Giusto. Perché vuoi restare vicino a casa? Sei un mammone?».

    La mia risata esplode sopra alla voce del commentatore TV che sta analizzando la partita dei Lakers. «Mia madre è fantastica, ma questo non basterebbe a farmi restare a casa». Fisso il mio ginger ale, anziché guardare lei, mi sento un po’ a disagio a spiegarle le mie motivazioni. «È solo che voglio fare qualcosa per il posto che ha fatto così tanto per me. Ho frequentato il centro giovanile. Ho avuto degli insegnanti fantastici, specialmente alle medie, quando tanti dei miei amici hanno preso una cattiva strada. Ed è al centro giovanile che mi sono innamorato del basket».

    L’imbarazzo mi fa arrossire e faccio spallucce. «Ho passato là tutta la mia infanzia e quella comunità l’ha resa un’infanzia felice».

    Nell’istante di silenzio che segue, alzo lo sguardo e incontro un sorriso sul suo viso e occhi affettuosi che mi riscaldano.

    «È una bella cosa», dice semplicemente. Sono contento che non ne faccia un affare di Stato anche se deve essere palese quanto questo sia importante per me. «Allora, sei pronto a passare al professionismo?».

    Apprezzo che abbia cambiato argomento. Non si sa se andrò a Baltimora e io non ho detto quasi a nessuno quanto significherebbe per me. «Lo sono, ma sta accadendo tutto così in fretta». Una risatina nervosa mi risuona in gola. «L’NBA era solo un sogno lontano quando ho cominciato il liceo. Adesso è qui dietro l’angolo e a meno che qualcosa non vada davvero male, sta per realizzarsi. Spero solo…». Le parole si affievoliscono, ma le incertezze rimangono. E non riguardano la mia capacità di giocare a un livello superiore. So di essere preparato per quello. Non so se sono pronto ad affrontare tutto quello che ne consegue.

    «Sarai bravissimo». Le sue dita sottili si chiudono intorno alla mia mano, quella che regge il bicchiere. «Sarai un giocatore fantastico».

    Basta quel tocco leggero, vedere la sua mano sulla mia, per farmi stare bene. Qualcosa in quella vista fa scomparire l’ansia che ho provato per tutto il giorno e mi fa dire cose che non ho mai detto a nessuno.

    «Voglio essere di più di un semplice giocatore. Voglio usare la mia laurea, voglio un’impresa mia. Una famiglia». È come una confessione. «Voglio essere un buon marito e un buon padre. Il mondo in cui entrerò fra pochi mesi… l’ho visto divorare tanti ragazzi. Lavoriamo tutta la vita per questo e poi, un infortunio, l’età, una scelta sbagliata, qualsiasi cosa… e tutto può finire da un giorno all’altro. Se il gioco ha preso il posto di tutte le tue priorità, se ti ha trasformato in qualcuno che non avresti mai voluto essere, quale è lo scopo di tutto?». Rido imbarazzato. «Probabilmente sembro…».

    «Sembri troppo bello per essere vero», si interrompe, ma la sua mano è ancora sulla mia. «I ragazzi nella tua posizione, la notte prima della grande partita, a un passo dall’NBA… la maggior parte di loro non sta pensando a queste cose».

    Appoggia il mento alla mano libera e mi sorride. «Sei speciale». Si morde il labbro e solleva la mano. Abbassa lo sguardo sul bancone del bar, segnato da milioni di bicchieri e da milioni di momenti prima del nostro. «Sono contenta di averti conosciuto».

    Questo suona tanto come l’inizio di un addio. Come se lei fosse pronta a chiudere la porta a questo straordinario capitolo della nostra vita.

    Non posso lasciare che succeda. Una serata come questa, una connessione come questa… è una cosa unica. Dopo la partita di domani, il mio futuro dipenderà letteralmente da una piccola pallina che gira nella lotteria dell’NBA. Potrei finire a giocare in una squadra che non mi piace, a vivere in un posto che non ho scelto.

    Ma stasera ho io il controllo, posso ancora scegliere e ho scelto lei. Di conoscerla. Di corteggiarla. Di guadagnare la sua fiducia. Tutto quello di cui ho bisogno è tempo.

    Ma il tempo sembra essere l’unica cosa che non abbiamo.

    «Ora di chiusura». Il barista afferra i nostri bicchieri vuoti e pulisce il bancone davanti a noi. «Non dovete per forza andare a casa, ma dovete andarvene da qui».

    Non avevo notato che il bar intorno a noi si stava svuotando, ma siamo rimasti praticamente solo noi.

    «Buona fortuna per domani, West», dice il barman mettendo due scontrini sul bancone appena pulito.

    «Grazie». Mi alzo e afferro gli scontrini prima che lei possa anche solo vedere il suo.

    «Dammelo». Si lancia verso di me, ma io tengo lo scontrino sopra la testa, irraggiungibile per lei.

    Inciampa contro di me, il suo seno morbido è schiacciato contro il mio petto. Ho voglia di abbracciare quell’insieme di linee sensuali e curve che formano il suo corpo. Tenendo lo scontrino ancora sopra la testa, faccio scivolare l’altra mano lungo la sua schiena, studiando le sue forme sotto il cotone attillato. Metto la mano aperta sulla sua vita e la tiro più vicina a me di qualche centimetro, quel tanto che basta per essere circondato dal suo calore e dal suo profumo.

    Lei alza la testa e mi guarda, i suoi occhi si scuriscono e si spalancano, il verde e l’oro si perdono nel color sabbia. Il desiderio dilata le sue pupille. Non ci eravamo accorti dell’elettricità che scorre fra i nostri corpi, del desiderio sotteso alla nostra semplice conversazione, fino a ora. Finché non l’ho attirata verso di me con questo semplice pezzetto di carta.

    «Lascia che ti offra da bere». Non riesco a ricordare di aver mai desiderato tanto una donna. Non solo ho voglia di sprofondare le mani nei suoi capelli neri o di scoprire quanto sono dolci le sue labbra, o di esplorare il suo corpo. Voglio conoscere i suoi ricordi, i suoi segreti… accettare un invito che lei non ha mai fatto a nessun altro.

    Abbassa lo sguardo e le sue lunghe ciglia mi nascondono i suoi occhi, ma lei non può nascondere il suo corpo… Il modo in cui tutto ciò che è morbido in lei sta cercando tutto quello che c’è di duro in me, o il suo respiro affannoso.

    «Ehm, okay». Fa un passo indietro, e i nostri corpi non si toccano più, si schiarisce la voce prima di continuare: «Grazie. Avrei potuto… be’, grazie».

    Mentre ci avviamo alla porta, nessuno dei due parla. Io devo rallentare per stare al suo passo. Ci guardiamo entrambi con la coda dell’occhio, il silenzio fra di noi è carico di possibilità. Una volta fuori, ci nascondiamo sotto una tenda che ci separa dalla città ancora piena di traffico proprio accanto al marciapiede. Dentro, circondati dalle persone e dal rumore e distratti dalla partita, parlare era così facile. Le cose che non ho mai confessato a nessuno uscivano dalla mia bocca con naturalezza. Adesso siamo solo noi due e io non so cosa dirle per convincerla a restare, ma so che quello che sto provando, quello che è successo fra di noi, non può finire stasera. È come nel film Spanglish, una delle commedie rosa di Adam Sandler. Lui e la babysitter dei suoi figli sono a cena insieme nel suo ristorante. È solo un pasto, poche ore. Il narratore, la figlia della babysitter, dice: «Mia madre, parlando di quella sera al ristorante, l’ha sempre definita la conversazione della vita». Sono sicuro di aver alzato gli occhi al cielo quando ho sentito questa frase e di aver aggiunto: «Ah, be’, bella conversazione».

    Ma adesso con lei che sta per andarsene, tutto quello a cui riesco a pensare è… questa sì che è stata una bella conversazione.

    I lampioni e la luna illuminano cose che la penombra del bar nascondeva… l’ambra nei suoi capelli che a me sembravano solo neri, la lunghezza delle sue ciglia che gettano un’ombra sul suo viso quando guarda per terra. Entrambi stiamo cercando le parole adatte. È come se avessi detto talmente tanto in queste poche ore che adesso non è rimasto niente da dire… perlomeno per me è così. Adesso ho solo sentimento. Bisogno. Ho bisogno di toccarla, di baciarla, ho bisogno di qualcosa di fisico che mi faccia capire che tutto questo è reale. Che questa non è la fine.

    Quando sei almeno trenta centimetri più alto di una ragazza non è facile baciarla con grazia, quindi non ci provo nemmeno. Però voglio essere prudente, con un dito le sollevo il mento e la costringo a guardarmi negli occhi, prendo il suo viso nelle mie mani e abbasso la testa fino quasi a sfiorare quelle labbra che sembrano così morbide che mi devo trattenere per non divorarle; devo controllare il mio impulso di assaggiarle subito. Il mio corpo è su

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