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Grandi e piccoli eroi che hanno cambiato la storia
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E-book526 pagine7 ore

Grandi e piccoli eroi che hanno cambiato la storia

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Info su questo ebook

Le battaglie, i segreti, le imprese di uomini straordinari

Il termine eroe, seppur di etimologia incerta, deriva dal greco e significa “signore” e “principe”, ma nel suo significato più generale indica chi, con le proprie opere, si staglia al di sopra degli altri.
Nella figura dell’eroe si concretano dunque tutti gli attributi e le aspirazioni morali, sociali e culturali del gruppo umano che l’ha forgiato, tanto da farne quasi il punto di incontro tra l’umano e il divino. Per queste sue peculiarità, l’eroe diviene un modello di riferimento, soprattutto per le future generazioni. La Storia ci fornisce un’ampia galleria di eroi, che con le loro opere, le loro imprese hanno concorso in maniera determinante al progresso civile, sociale e culturale dell’umanità. Questo libro intende riportarne alla luce le gesta e ricostruirne così la giusta dimensione storica, allo scopo di comprendere meglio i valori di cui essi furono portatori. Partendo dai più noti a tutti, Cesare, Alessandro Magno, Napoleone, ma parlando anche dei meno conosciuti, Galla Placidia, Carlo Pisacane, Oskar Schindler, che la Storia ha l’obbligo di ricordare. 

Personaggi, noti e meno noti, autori di grandi imprese e azioni di immenso coraggio

Tra gli eroi presenti nel libro:

• PERICLE. Un politico al servizio della democrazia
• ALESSANDRO MAGNO. Il più grande conquistatore
• ARCHIMEDE. Il più grande genio dell’antichità
• QUINTO SERTORIO. Il valoroso comandante romano che lottò contro Roma
• GAIO GIULIO CESARE. Il più grande generale dell’antica Roma
• VERCINGETORIGE. Il grande nemico di Cesare
• OTTAVIANO AUGUSTO. L’inventore del principato
• BOUDICCA. La donna che sfidò l’Impero romano
• IPAZIA. La prima donna di scienza dell’antichità
• CARLO MAGNO. Il creatore del Sacro Romano Impero
• GIORDANO BRUNO. Un martire della libertà di pensiero
• PIETRO MICCA. Il soldato che si immolò per la patria
• GIOVANNA D’ARCO. La Pulzella d’Orléans
• NAPOLEONE BONAPARTE. Il più grande generale dell’età moderna
• CARLO PISACANE. L’eroe di Sapri
• GIORGIO PERLASCA. Un eroe normale
• MARTIN LUTHER KING. Il pastore che lottò contro la segregazione dei neri
• NELSON MANDELA. L’uomo che lottò per la fine dell’apartheid in Sudafrica
Livio Zerbini
ha insegnato in diverse università europee, tra cui la Sorbona di Parigi; attualmente insegna all’Università di Ferrara, dove dirige il Laboratorio di studi e ricerche sulle Antiche province danubiane, centro di riferimento internazionale per lo studio del mondo balcano-danubiano nell’antichità. È inoltre direttore del Black Sea International Centre, con sede a Batumi, in Georgia. Al proprio attivo ha numerose pubblicazioni scientifiche e 21 libri, di cui alcuni tradotti in diverse lingue. Con la Newton Compton ha pubblicato I personaggi che hanno fatto grande Roma antica e Grandi e piccoli eroi che hanno cambiato la storia.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2016
ISBN9788822702913
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    Anteprima del libro

    Grandi e piccoli eroi che hanno cambiato la storia - Livio Zerbini

    Introduzione

    Il termine eroe, seppur di etimologia incerta, deriva dal greco e significa signore e principe, ma nella sua accezione più generale ricorda chi si eleva al di sopra degli altri per la nobiltà e la virtù delle proprie azioni, tese al conseguimento del benessere collettivo, arrivando talvolta, in ragione di questo, a sacrificare persino la propria vita.

    In sostanza, nella figura dell’eroe, ampiamente documentato nel mondo epico greco, si concretano tutti gli attributi e le aspirazioni morali, sociali e culturali del gruppo umano che l’ha forgiato; in virtù delle alte idealità che muovono le sue azioni l’eroe costituisce così il punto di incontro tra l’umano e il divino, divenendo un modello di riferimento per le future generazioni.

    La Storia ci ha fornito un’ampia galleria di eroi che grazie alle loro imprese, opere e attività hanno concorso in maniera determinante al progresso civile, sociale e culturale dell’umanità. Tra questi non è certamente facile scegliere quelli le cui gesta hanno rappresentato più compiutamente i principi e i valori che li animarono.

    L’intendimento di questo libro è appunto quello di riportare alla luce il vissuto e le imprese di questi eroi – non solamente uomini e donne di azione, ma anche di pensiero – e ricostruirne la giusta dimensione storica, allo scopo di comprendere meglio il significato delle loro azioni.

    Accanto ai grandi eroi della Storia, ampiamente raccontati nei libri, grande attenzione si è dedicata a personaggi poco noti o sconosciuti ai più, che spesso con insolito coraggio e straordinario spirito di abnegazione non hanno esitato a sacrificare la propria vita per affermare un ideale. Un solo personaggio – di tutti questi – è ancora protagonista della Storia che stiamo vivendo e si tratta di papa Francesco, capace di lasciare un’impronta indelebile nella Chiesa in virtù del carattere innovatore del suo pontificato.

    Le vite esemplari di questi piccoli e grandi eroi, non hanno cessato ancora oggi di promanare un forte messaggio di idealità e valori: ci auguriamo che ripercorrerne i tratti salienti possa essere di insegnamento per le generazioni a venire.

    I grandi eroi

    Temistocle

    L’eroe di Salamina (530-525 a.C. circa - 460 a.C. circa)

    Temistocle è passato agli onori della Storia per essere uno dei principali artefici della vittoria greca sui Persiani e il creatore della potenza ateniese. Figlio di Neocle e di una donna tracia, nel 493-492 a.C. divenne arconte di Atene.

    Uomo ambizioso ma di ingegno acuto, Temistocle nel periodo in cui fu arconte si diede molto da fare per la costruzione di un nuovo porto nella munita baia del Pireo, destinato a soppiantare quello del Falero, poco adatto ad accogliere una grande flotta e a resistere ad un attacco organizzato.

    L’intendimento di Temistocle era quello di costituire una potente flotta navale, ma questo suo progetto era avversato dal partito dei moderati, capeggiato da Aristide. Solamente dopo l’ostracismo di cui fu vittima Aristide nel 483-482 a.C. riuscì a dare seguito al suo ambizioso programma navale, ottenendo che i cento talenti ricavati dalle miniere del Laurio, anziché essere distribuiti tra tutti i cittadini, venissero impiegati per costruire cento triremi, le navi a tre ordini di remi che si riveleranno poi fondamentali nella vittoria sui Persiani.

    Temistocle voleva rafforzare la flotta ateniese non tanto per avere il predominio sugli altri Greci, quanto per prepararsi ad affrontare l’incombente minaccia dell’invasione persiana: era giunta infatti la notizia che il re Serse stesse radunando un imponente esercito allo scopo di sottomettere la Grecia.

    In effetti la scelta di Temistocle si rivelerà lungimirante. Il re persiano Serse, dando seguito al disegno del padre Dario, nel 480 a.C. invase la Grecia alla testa di un esercito sterminato. Il Grande Re aveva progettato di assalire la Grecia per mare e per terra contemporaneamente; nell’intento di rendere più sicura e rapida l’avanzata delle sue imponenti forze fece congiungere con due ponti di barche le rive dell’Ellesponto, l’attuale Stretto dei Dardanelli, e provvide inoltre a far scavare un canale nei pressi del monte Athos, in modo da far evitare alle navi il pericoloso promontorio. Il re persiano – dopo aver vinto a fatica, e grazie a un traditore, l’eroica resistenza del re spartano Leonida e dei suoi trecento spartani – irruppe nella Grecia centrale, occupando la Beozia e penetrando in Attica.

    Poiché l’esercito spartano si era posto al sicuro oltre l’istmo di Corinto, Atene si trovò sola di fronte al nemico. L’unica concreta possibilità di difesa degli ateniesi era ormai la flotta, che in seguito all’insuccesso delle Termopili aveva dovuto abbandonare le acque dell’Artemisio e ritirarsi.

    Temistocle allora, non vedendo altra via di scampo, convinse gli ateniesi ad abbandonare la città per rifugiarsi sulle navi, mettendo così in atto quanto aveva profetizzato la Pizia, ossia la sacerdotessa di Apollo, nel santuario di Delfi. L’intera popolazione fu quindi messa in salvo nell’isola di Egina e nella città di Trezene, nell’Argolide orientale.

    Quando Serse giunse ad Atene non trovò alcuna resistenza e la città, rimasta deserta, venne saccheggiata e poi incendiata dai persiani, che in questo modo vollero vendicare l’oltraggio subìto a Sardi.

    Le navi ateniesi si radunarono con quelle alleate nell’angusta baia di Salamina. Temistocle per indurre il re persiano ad attaccare la flotta greca nelle acque di Salamina, là dove non avrebbe potuto sfruttare in alcun modo la propria superiorità numerica, ricorse a un pericoloso stratagemma. Scrisse segretamente al re persiano, dicendosi suo amico e invitandolo ad attaccare subito i Greci a Salamina. Se questa lettera fosse caduta nelle mani dei suoi, Temistocle sarebbe stato sicuramente accusato di essere un traditore. Serse gli credette e pertanto diede subito l’ordine di dare inizio alla battaglia, come Temistocle sperava.

    La battaglia di Salamina ebbe luogo nel settembre del 480 a.C. Il re persiano in persona vi assistette, seduto su di un trono fatto appositamente erigere su un colle che dominava la baia. I persiani si schierarono con la flotta divisa in tre squadre: a destra, presso la riva attica, le navi fenicie sotto il comando del generale Megabazo; a sinistra, dalla parte di Salamina, le triremi di Caria, Ionia e Ponto guidate da Ariabigne, fratellastro di Serse; mentre le navi di Licia, Cilicia e il resto della squadra egizia occupavano il centro comandate da Achemene, fratello del re persiano. I Greci invece facevano fronte sulla destra con Euribiade al comando delle navi spartane e corinzie; Temistocle era a capo del resto della flotta, vale a dire delle triremi ateniesi e delle rimanenti navi alleate. Iniziato lo scontro, i persiani tentarono di forzare lo stretto ma si andarono a cacciare in un vero e proprio intasamento. Mentre cercavano di recuperare un minimo di allineamento, le due ali greche si gettarono sul nemico colpendo duramente le triremi persiane. Nello stretto spazio a disposizione le navi greche, meglio manovrabili, si imposero rapidamente su quelle nemiche. Nella grande confusione che si era venuta a creare un gran numero di navi persiane finirono per essere speronate e – una volta a distanza ravvicinata – gli opliti imbarcati sulle triremi greche ebbero facilmente la meglio sui persiani.

    Serse da un’altura che si affacciava sulla baia di Salamina non poteva far altro che assistere a una disastrosa sconfitta. Alla fine i persiani subirono ingenti perdite, mentre i greci persero poche navi. Temistocle con astuzia e abilità aveva assicurato ai Greci una vittoria schiacciante e decisiva per le sorti della guerra. L’effetto psicologico della vittoria fu formidabile per gli elleni, mentre il re persiano Serse rientrò amareggiato e deluso nell’Asia Minore.

    Lo scrittore greco Plutarco così racconta gli onori che furono tributati a Temistocle per la vittoriosa battaglia di Salamina, determinante per la libertà delle città greche¹:

    A detta di Erodoto, fra le città greche i più valorosi furono gli Egineti; ma è a Temistocle che, a malincuore per l’invidia, tutti riconobbero il primato. Quando infatti si ritirarono sull’Istmo e i generali votarono prendendo la scheda per il voto dall’altare, ciascuno indicò come primo in valore se stesso, e secondo dopo di sé Temistocle. E i Lacedemoni², fattolo venire a Sparta, diedero come premio a Euribiade per il coraggio e a lui per la saggezza una corona d’ulivo; gli fecero anche dono del miglior carro esistente in città e lo fecero accompagnare sino alla frontiera da una scorta di trecento giovani. Si racconta che durante lo svolgimento delle olimpiadi successive, all’ingresso di Temistocle nello stadio gli spettatori dimenticarono i contendenti e per tutta la giornata tennero gli occhi su di lui e lo indicavano ai forestieri fra applausi di ammirazione. Tanto che anch’egli, pieno di gioia, confessò agli amici che così raccoglieva i frutti delle sofferenze patite per la Grecia.

    Il trionfo sui persiani rappresentò l’apice della carriera di Temistocle, che di lì a poco cadde in disgrazia, tanto che nel 471 o 470 a.C. venne addirittura ostracizzato. Egli pertanto si rifugiò nella città di Argo, da dove cercò di sollevare nel Peloponneso un moto democratico contro Sparta. Anche per questo motivo gli Spartani accusarono Temistocle di aver cercato – in combutta con Pausania – l’alleanza con la Persia. L’accusa degli Spartani era probabilmente – almeno in parte – veritiera, nel senso che Temistocle riteneva opportuna una politica di pace o anche di accordi con la Persia, affinché Atene potesse prendere decisamente la direzione del movimento democratico nel Peloponneso e assicurarsi in questo modo l’egemonia della Grecia.

    Condannato a morte in contumacia, dinnanzi alla richiesta di estradizione presentata contro di lui da ateniesi e spartani, Temistocle cercò scampo nella fuga, trovando asilo prima a Corcira e poi presso Admeto, re dei Molossi. In seguito fu accolto dal re persiano Artaserse i e andò a vivere nella città di Magnesia, dove morì intorno al 460 a.C. L’eroe di Salamina era morto lontano da Atene, dimenticato da tutti. Lo storico ateniese Tucidide scrisse che dopo la morte le ossa di Temistocle – come da lui richiesto – furono trasportate di nascosto nell’Attica e sepolte nella terra che aveva tanto amato.

    1 Plutarco, Le vite parallele. Temistocle, 17.

    2 Altro nome per indicare gli spartani.

    Pericle

    Un politico al servizio della democrazia (495 a.C. circa - 429 a.C.)

    Pericle fu l’uomo politico più noto nella storia dell’antica Grecia e la sua figura ebbe la capacità di catalizzare l’attenzione sulla città di Atene nel v secolo a.C., il secolo d’oro, quello in cui affondano le radici il nostro concetto di democrazia, nonché la filosofia, la letteratura e l’arte occidentali.

    Coevo del filosofo Socrate, Pericle nacque intorno al 495 a.C. da una famiglia imparentata, per parte materna, con uno dei personaggi più celebri della storia greca, il democratico Clistene. Il padre, di nome Santippo, si era invece contraddistinto per la gloria militare, più che per le proprie origini.

    Plutarco racconta che prima della nascita di Pericle la madre Agariste sognò di generare un leone e quando ebbe tra le braccia il figlio appena nato, i presenti si complimentarono con lei per la straordinaria proporzione del neonato in tutte le parti del corpo, a eccezione però della testa, sulla quale nessuno osò pronunciarsi: sembra infatti che questa fosse la caratteristica distintiva del futuro uomo politico ateniese, dal momento che appariva prominente e asimmetrica.

    Proprio in ragione della bizzarra caratteristica somatica di Pericle quasi tutte le sue statue sono cinte da elmi, poiché gli artisti temevano che se lo avessero ritratto in modo realistico avrebbero corso il rischio di schernirlo involontariamente.

    L’infanzia di Pericle fu offuscata da tensioni e paure, in quanto il personaggio più influente dell’epoca, il potente Temistocle, tramava contro la famiglia materna e contro il padre.

    Durante la giovinezza Pericle ricevette una solida educazione, soprattutto grazie ad Anassagora, il primo filosofo a individuare l’origine di tutte le cose nella combinazione di particelle minuscole, le omeomerie, vale a dire dei semi che intuitivamente possono ricordare gli atomi, scoperti dunque molti secoli prima che la scienza potesse dimostrarne l’esistenza. Pericle nutriva un’ammirazione sconfinata per il suo maestro e da lui apprese un linguaggio particolarmente aulico. Plutarco racconta che Pericle derivò da Anassagora anche l’espressione inflessibile del volto, la pacatezza nel parlare e la sobrietà nel vestire. Il futuro uomo politico ateniese era infatti conosciuto per la sua tranquillità e per apparire sempre padrone di sé in ogni circostanza.

    È divenuto noto l’aneddoto narrato da Plutarco, in cui si racconta di una volta in cui Pericle assistette a una conversazione nell’agorà, dove un tale lo diffamava pubblicamente. Egli non disse niente per tutto il tempo; con il volto tranquillo e inflessibile svolse tutte le occupazioni della giornata e, una volte terminate, si avviò con tutta calma verso casa, salutando i presenti, come se non avesse udito alcunché di rilevante sul proprio conto. Allora il calunniatore, che evidentemente cercava una reazione da parte di Pericle, prese a inseguirlo, insultandolo per non aver proferito parola; ma Pericle mostrò di nuovo la sua superba impassibilità, chiedendo a un suo servo di scortare l’uomo a casa, poiché si era ormai fatto buio e nessun cittadino ateniese avrebbe dovuto rischiare la propria incolumità, finché ci fosse stato lui a proteggerli tutti.

    Altre fonti invece, come il poeta Ione, evidenziano aspetti ben diversi del temperamento di Pericle, focalizzando l’attenzione sul suo piglio di superbia e disprezzo per il popolo, rispetto al quale si sentiva di molto superiore, che indusse alcuni studiosi ad affermare che il politico ateniese credesse che la democrazia valesse per gli altri, non certo per sé.

    Sembra probabile che – come spesso accade a proposito dei grandi personaggi storici – le testimonianze degli autori antichi tendano a enfatizzare le qualità o i difetti di Pericle, a seconda dell’adesione o meno al programma politico pericleo.

    Certo è che Pericle riuscì a creare un largo consenso intorno a sé, anche grazie alle sue indubbie capacità oratorie e comunicative, apprese dal maestro Anassagora e dai sofisti.

    In ogni caso, quale che sia il giudizio sull’uomo politico ateniese, sorprendono la sua capacità nel comprendere le situazioni e la lungimiranza, nonché la ricchezza di interessi: disponeva di una maestria addirittura ineguagliabile nella guida del popolo e in politica estera, di una sorprendente maturità di pensiero, di una straordinaria attitudine per tutte le questioni amministrative e finanziarie e aveva una concezione nuova, più moderna dello Stato.

    Pericle riunì in sé non solo tutti gli interessi del suo tempo, ma anche le contraddizioni, tanto da rappresentare il discrimine tra passato e futuro.

    Cominciò a interessarsi di politica, a quanto sembra, tra il 470 e il 465 a.C., ma il momento in cui egli assunse un ruolo di primo piano si verificò nel 451 a.C., quando ad Atene si acuirono le tensioni interne per il rientro in patria – dopo dieci anni di ostracismo – di Cimone, che rinfocolò la lotta con il partito democratico di cui Pericle era il capo.

    L’antagonista di Pericle era riuscito non solamente a stipulare una tregua di cinque anni con Sparta, ma anche a convincere gli ateniesi a rinunciare all’alleanza con Argo. Ciò significava per Atene l’abbandono della politica antispartana, tanto cara ai democratici.

    Nello stesso momento in cui Atene e Sparta firmavano una tregua di cinque anni, Sparta e Argo conclusero un trattato di pace di trent’anni, con l’intesa che l’alleanza tra Atene e Argo dovesse essere sciolta.

    A questo punto, dopo essersi protetta le spalle contro la minaccia di Sparta, Atene poteva dunque pensare di riprendere la guerra con la Persia, scopo principale della lega cui aveva dato vita, formata da una coalizione di città greche e guidata proprio da Atene.

    Pertanto, nel 450 a.C. duecento navi, al comando di Cimone, veleggiarono verso Cipro. Lo stratega morì, ma gli Ateniesi ottennero una brillante vittoria per terra e per mare a Salamina di Cipro.

    Alla morte di Cimone la guerra tra Atene e la Persia cessò e nel 449 a.C. fu stipulato un trattato, la Pace di Callia, con cui la Persia si impegnava a non mandare navi nell’Egeo o truppe a tre giorni di marcia dalla costa ionica e Atene a non attaccare i territori del Gran Re.

    Allo scadere della tregua dei cinque anni tra Atene e Sparta, nel 446 a.C., l’Eubea e Megara si ribellarono. Come se non bastasse, Pericle ricevette notizia che il re spartano Plistoanatte, con un esercito peloponnesiaco, era arrivato a Eleusi; da qui però lo spartano si ritirò senza combattere e questa scelta gli costò l’accusa di corruzione e la conseguente deposizione dal trono, in quanto pare che Pericle lo avesse comprato con del denaro. Con l’esercito peloponnesiaco fuori dall’Attica Pericle ebbe dunque mano libera in Eubea. Egli domò la rivolta e l’isola fu costretta ad arrendersi.

    Durante l’inverno del 446 a.C. Atene – rappresentata da Pericle – e Sparta, pressate da un urgente bisogno di pace, stipularono una tregua trentennale: Atene avrebbe dovuto cedere Megara e i suoi porti, l’Acaia e Trezene; Egina doveva restare autonoma ma pagare il tributo alla città ateniese e far parte del suo impero; Sparta avrebbe invece riconosciuto l’impero ateniese nell’Egeo. Inoltre, né Atene né Sparta avrebbero potuto offrire aiuto agli alleati della controparte in caso di ribellione. Se si fosse verificato un conflitto tra le parti contraenti si sarebbe ricorso a un arbitrato.

    Dopo la tregua trentennale, per Atene iniziava un periodo di sostanziale stabilità, nel corso della quale la città raggiunse l’apice della sua potenza: nessun ostacolo infatti si frapponeva ormai all’attuazione della politica espansionistica perseguita da Pericle, più che mai disposto – ora che la guerra su ambedue i fronti, quello persiano e quello spartano, era cessata – a fare di Atene il centro di un grande impero. A questo scopo Pericle, malgrado la forte opposizione che dovette affrontare, svuotò del suo significato iniziale la Lega di Delo, il cui tesoro già da alcuni anni gli ateniesi in modo arbitrario avevano trasferito ad Atene: tutti gli aderenti alla Lega furono obbligati a restare nell’alleanza senza possibilità di sottrarvisi, pena la distruzione; i tributi delle città federate potevano essere utilizzati per l’abbellimento di Atene e – sebbene fosse cessata la guerra con la Persia – dovevano essere ugualmente versati.

    I primi anni della pace trentennale, stipulata nel 446 a.C., Pericle li dedicò a fortificare e abbellire Atene, utilizzando a questo scopo il denaro accumulato grazie al tributo degli alleati. Il complesso di monumenti eretto per sua volontà sull’acropoli di Atene fu senz’altro uno dei lasciti maggiori del politico ateniese. La rocca sacra ad Atena venne difatti abbellita secondo un programma complesso ma unitario. Tale opera edificatoria corrispondeva a un preciso scopo politico, volto a rafforzare il primato della città sul mondo greco. Molti furono gli architetti e gli scultori che concorsero ad adornare Atene, ma su tutti primeggiò Fidia, il grande artista che era anche amico personale di Pericle.

    La pace contribuì a diffondere tra gli ateniesi, che già si sentivano parte integrante di un organismo civico coeso, anche il gusto per l’arte, la perfezione della sezione aurea, l’interesse per la speculazione filosofica e i problemi esistenziali, sempre però declinati all’interno di un orizzonte politico.

    Pericle si preoccupò inoltre di consolidare ad Atene il governo democratico. Il funzionamento politico dello Stato richiedeva infatti che ogni anno un rilevante numero di persone si distogliesse dalle abituali occupazioni e si dedicasse alla vita pubblica. Dei circa quarantamila cittadini ateniesi in possesso dei pieni diritti politici e civili quasi la metà apparteneva alla classe dei teti, i quali – pur potendo aspirare alle magistrature – ne erano di fatto esclusi, in quanto le loro condizioni economiche non glielo consentivano. Per ovviare a ciò Pericle fece approvare una legge, in base alla quale veniva concessa un’indennità in denaro a coloro che rivestivano una carica pubblica, allo scopo di allargare la partecipazione dei cittadini ateniesi all’amministrazione dello Stato.

    Nel 451-450 a.C. un’altra riforma di Pericle restrinse però l’accesso alla cittadinanza, riservandola solo ai nati da padre e madre ateniesi; mentre un tempo era invece tradizione riconoscere come ateniesi anche i figli nati da madre straniera, come fu il caso di Clistene, Temistocle e Cimone. Questa riforma è del resto strettamente connessa con l’introduzione della retribuzione delle cariche. Infatti, una volta che i cittadini ateniesi potevano trarre vantaggi dall’attività politica, essi non intendevano certo condividerli con altri. Le conseguenze della riforma di Pericle portarono i cittadini ateniesi a diventare un gruppo ristretto e chiuso, creando nel contempo un solco profondo con quelli che non avevano alcuna speranza di entrare nella cerchia privilegiata.

    Lo storico ateniese Tucidide nella sua opera La guerra del Peloponneso ricostruisce l’orazione funebre che Pericle tenne per onorare la memoria dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso, in cui nell’esaltare i valori di Atene offre una delle più lucide definizioni della democrazia³:

    La nostra costituzione non calca l’orma di leggi straniere. Noi piuttosto siamo d’esempio agli altri senza imitarli. Il suo nome è democrazia, perché affidiamo la città non a un’oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini; ma in realtà le sue leggi danno a tutti indistintamente i medesimi diritti nella vita privata; e per quanto riguarda gli onori, ognuno vien prescelto secondo la fama che gode, non per l’appartenere all’uno o all’altro partito a preferenza del valore. Né avviene che la povertà offuschi il prestigio e arresti la carriera di chi può rendere buoni servigi alla città.

    Non erano ancora trascorsi tredici anni dalla tregua trentennale conclusa nel 446 a.C. da Pericle con Sparta, quando Atene prese a favorire l’isola di Corcira, l’attuale Corfù, in guerra con la madrepatria Corinto per il controllo dell’antistante città di Epidamno, l’odierna Durazzo. Preoccupati per l’avanzata di una flotta corinzia, i corciresi chiesero agli ateniesi di poter entrare nella loro alleanza. In seguito a questo fatto e a un pressante invito dei corinzi, i rappresentanti di molte città si raccolsero allora a Sparta, dove giunsero alla determinazione di fare guerra ad Atene, preoccupati dalle ambizioni imperialistiche di Pericle. Tucidide, coevo di quegli eventi bellici, così testimonia⁴: «Gli Spartani riconobbero rotto il trattato⁵ e votarono per la guerra non tanto sotto l’influenza dei discorsi degli alleati, quanto per la paura di Atene: perché temevano un esagerato sviluppo della sua potenza, vedendo che gran parte dell’Ellade le era ormai soggetta».

    Questa situazione divenne la premessa della fase conclusiva della vita di Pericle, vale a dire il conflitto noto come la guerra del Peloponneso, che durò dal 431 al 404 a.C. e che si concluse con la disfatta definitiva di Atene: da quel momento in poi tutto sarebbe cambiato. Pericle sarebbe morto e con lui gli ideali di libertà e democrazia.

    Tucidide descrisse la guerra tra Atene e Sparta immaginando che sarebbe stata la più importante di tutte quelle combattute sino a quel momento e lo dedusse dal fatto che le due città si scontrarono quando erano al culmine della loro potenza e che le coalizioni che si crearono attorno ad esse coinvolgevano tutto quanto il mondo greco: da una parte vi era Atene e il suo impero; dall’altra Sparta, tutte le città del Peloponneso, ad eccezione di Argo, che rimase neutrale.

    All’inizio della guerra Pericle adottò una strategia che comportò grandi sacrifici per gli ateniesi. Conscio della superiorità dell’esercito spartano per terra, egli evitò in tutti i modi una battaglia campale. La popolazione dell’Attica venne quindi fatta rifugiare all’interno delle fortificazioni di Atene e dei suoi porti e la campagna venne poi abbandonata alle incursioni dei nemici, anche allo scopo di logorare gli spartani e i loro alleati. Nel contempo Pericle mandò una flotta a compiere rappresaglie sulle spiagge del Peloponneso.

    Nel 430 a.C. ad Atene scoppiò però un’epidemia che infierì sulla città per due anni e che causò la morte di oltre un quinto dell’intera popolazione; ne fu vittima lo stesso Pericle, che morì nel 429 a.C., lasciando dunque incompiuto il proprio ambizioso disegno politico.

    La morte di Pericle segnò l’inizio del declino di Atene e successivamente la disfatta totale nella guerra del Peloponneso. Nel 404 a.C. Atene, dopo un assedio di quattro mesi, dovette arrendersi, consegnare la flotta agli spartani vincitori e abbattere le mura. La città passò quindi da un governo democratico a uno oligarchico filospartano, detto dei Trenta Tiranni per il terrore che seminarono nella città, che dopo un anno fu rovesciato da Trasibulo e da altri esuli. La democrazia fu ristabilita, ma Atene perse per sempre la possibilità di esercitare nuovamente una funzione egemonica all’interno del mondo greco.

    L’eredità di Pericle è ancor oggi ben vivida nell’arte, nella filosofia e nella letteratura, ma soprattutto nell’essenza stessa della libertà e della democrazia, intesa come partecipazione politica di ogni cittadino alla gestione della cosa pubblica.

    3 Tucidide, La guerra del Peloponneso, ii, 37.

    4 Ivi, i, 88.

    5 Il riferimento è alla pace trentennale con Atene.

    Alessandro Magno

    Il più grande conquistatore (356 a.C. - 323 a.C.)

    La figura di Alessandro Magno ha sempre esercitato nel corso dei secoli un fascino irresistibile, tanto che a lui si sono ispirati molti grandi condottieri della Storia, a cominciare da Cesare. Nell’arte e nel mito rimasero fortissime le tracce della sua personalità straordinaria, alimentate dalle grandi conquiste che egli fece, pur morendo in giovane età, a soli trentatré anni.

    Alessandro nacque a Pella da Filippo ii, fondatore della potenza macedone, e da Olimpiade, figlia di Neottolemo, re d’Epiro, il 20 o 21 luglio del 356 a.C. Il re Filippo ii volle dare al figlio un’educazione greca e quindi scelse come suo maestro il filosofo Aristotele, che lo educò per tre anni, dal 343 al 341 a.C., insegnandogli i principali valori della Grecia classica. Sulla formazione di Alessandro Magno dovette comunque pesare in modo significativo l’esempio del padre. Giovane audace e spregiudicato, egli possedeva uno straordinario coraggio e un grande ingegno, di cui ben presto seppe dar prova. Un minuzioso ritratto del grande conquistatore ci viene fornito da Plutarco⁶:

    L’aspetto fisico di Alessandro ci è noto soprattutto dalle statue di Lisippo⁷, l’unico scultore che il grande condottiero ritenne degno di raffigurarlo. Del resto solo Lisippo è riuscito ad effigiare in modo così perfetto certi particolari della sua persona, come il collo leggermente piegato a sinistra e la dolcezza languida dello sguardo: atteggiamenti che molti successori di Alessandro e molti amici cercarono di imitare. Apelle⁸, invece, in quel dipinto che lo ritrae nell’atto di scagliare il fulmine, lo fa piuttosto bruno e scuro di carnagione, mentre Alessandro era di pelle chiara, un bianco, così dicono, che a volte si arrossava, specialmente sul volto e sul petto […]. Già da ragazzo era molto assennato e lo si vedeva dal fatto che pur essendo impetuoso e passionale si controllava nei piaceri del corpo, di cui godeva ma con molta moderazione. Il suo più alto e nobile pensiero era la gloria, per la quale nutriva un desiderio eccessivo per la sua giovane età […].

    Uno degli incontri più suggestivi della vita di Alessandro fu quello con Bucefalo, il cavallo che gli rimase vicino per vent’anni. Le fonti tramandano che aveva solo dodici anni quando il quadrupede, regalato a Filippo ii dal generale Demarato di Corinto, fece il suo ingresso a palazzo, dimostrando immediatamente di essere indomabile. Il giovane macedone capì che alla base della furia dell’animale ci fosse la paura e che a spaventare Bucefalo fosse la sua stessa ombra: così lo mise con il muso rivolto verso il sole prima di montargli in groppa. Da quel momento in poi Alessandro e Bucefalo divennero inseparabili e il cavallo non si lasciò mai più montare da nessun altro sino al 326 a.C., anno in cui il destriero morì per le ferite ricevute nella battaglia sull’Idaspe, che contrappose i macedoni all’armata del re indiano Poro.

    Il lungo regno di Filippo ii, durato ventiquattro anni, si concluse tragicamente: nel 336 a.C., all’età di quarantasei anni, il re venne assassinato da una delle sue guardie del corpo mentre assisteva, nel teatro di Ege, alla celebrazione delle nozze della figlia Cleopatra con il re dell’Epiro Alessandro i, detto il Molosso. Le voci non ufficiali parlarono di un complotto in cui avrebbero avuto una parte non marginale la moglie Olimpiade e il figlio Alessandro. L’assassino del re macedone venne ucciso durante la fuga e quindi i dubbi circa il presunto coinvolgimento della famiglia reale non poterono essere fugati.

    Subito dopo, l’assemblea dei capi militari, secondo il costume macedone, proclamò re Alessandro, che salì così sul trono a soli vent’anni. La prima decisione che prese mostrò subito la sua risolutezza: alla rivolta antimacedone scoppiata a Tebe nell’anno 335 a.C. egli rispose con la distruzione della città, mandando in tal modo un messaggio inequivocabile alle altre città greche che aspiravano a liberarsi dal controllo dei macedoni.

    Consolidato il suo potere in Macedonia e in Grecia, Alessandro poté intraprendere la campagna in Asia progettata dal padre. Egli portò con sé il meglio dell’esercito macedone, costituito da dodicimila fanti e millecento cavalieri, nonché contingenti forniti dalle città greche, dalla Tessaglia e dalle regioni traciche: in tutto la spedizione contava trentaduemila fanti e quattromilaquattrocento cavalieri. Era la prima volta che un sovrano proveniente dalle sponde europee del Mediterraneo affrontava a viso aperto nei suoi territori il Gran Re della Persia, che estendeva i suoi domini dall’Asia Minore all’Egitto e alla Mesopotamia, sino all’altopiano iranico e alle regioni confinanti con la lontana India.

    Per conseguire il suo obiettivo Alessandro non puntò direttamente al cuore dell’Impero persiano, preferendo invece togliere al re persiano Dario iii il controllo del mare. La forza principale dell’esercito di Alessandro era costituita dalla falange, adottata per la prima volta dal padre Filippo ii, ovvero una massa compatta di soldati potentemente armati capace di travolgere le linee nemiche negli scontri frontali tra le fanterie. Costituita da milleseicento soldati con armatura pesante e disposti su sedici righe, era caratterizzata da una vera e propria selva di lance. Le prime cinque righe di falangisti tenevano le sarisse – le lunghe lance che potevano raggiungere persino i sei metri – dirette verso il nemico, in modo da opporre una compatta barriera di acuminate punte; tutti gli altri invece le tenevano rivolte verso l’alto, pronti a chiudere i vuoti e ad abbassarle nel caso che soccombessero coloro che erano davanti. La formazione della falange era poi completata da una numerosa e ben addestrata cavalleria, cui era affidato il compito di attaccare sui fianchi e di inseguire il nemico in fuga. La falange venne sapientemente utilizzata dal re macedone, che la seppe adattare con grande abilità alle peculiarità del campo di battaglia e alla disposizione del nemico.

    Lo storico greco Polibio, vissuto nel ii secolo a.C., paragonando la forza e le debolezze degli eserciti greco, macedone e romano così si espresse in merito alla falange macedone⁹: «Considerando la particolarità e la potenza della falange in sé, nulla può resisterle frontalmente né sostenerne l’assalto». Polibio ne evidenziò però anche i punti deboli, che egli individuò nella mancanza di flessibilità e manovrabilità, nella vulnerabilità su terreni accidentati e nell’impossibilità a operare rapidi cambiamenti di fronte. In ogni caso all’epoca di Alessandro la falange macedone, perfettamente addestrata ed esercitata da anni di battaglie, era uno strumento praticamente imbattibile, soprattutto contro eserciti meno organizzati.

    Varcati i Dardanelli, il primo scontro dei macedoni con i persiani – che all’inizio forse sottovalutarono la minaccia – avvenne sul fiume Granico, nella Troade, nel maggio-giugno del 334 a.C. L’esercito persiano, composto dai contingenti di quasi tutti i satrapi dell’Asia Minore, si era schierato su due file – con la cavalleria davanti e la fanteria dietro – sulla sponda orientale del fiume; su quella opposta stavano al centro le falangi, protette dalla cavalleria macedone a destra e da quella tessala a sinistra. Alessandro, nonostante si fosse rese conto che la cavalleria persiana fosse il doppio di quella macedone, decise di passare subito all’attacco. Così Plutarco descrisse la prima grande vittoria di Alessandro Magno, lasciando trasparire in tutta la sua grandezza la figura eroica del macedone¹⁰:

    Nel frattempo i generali di Dario, il re di Persia, avevano raccolto un grande esercito che ora si trovava schierato sulla riva del fiume Granico, alle porte dell’Asia: ciò comportava per Alessandro uno scontro inevitabile se voleva entrare nel territorio nemico e prenderne possesso. Sennonché la maggior parte degli ufficiali macedoni nutrivano non pochi timori per la riuscita dell’impresa, sia perché il fiume era piuttosto profondo, sia perché la sponda opposta, che si poteva conquistare solo a prezzo di un duro corpo a corpo, era ripida e accidentata. […] Quanto al resto Parmenione¹¹ osservò ch’essendo ormai sopraggiunta la sera era troppo tardi per attaccare. Ma Alessandro non si perse d’animo: radunò tredici squadroni di cavalieri e gridando che avrebbe disonorato l’Ellesponto se dopo averlo attraversato avesse avuto paura di un fiume si gettò nella corrente, seguìto dai suoi. È pazzo, pensarono gli altri, vedendolo andare incontro così incautamente alle lance e alle frecce che piovevano da tutte le parti, forzando la corrente che lo travolgeva e lo sommergeva, verso la costa ripida e sconnessa presidiata da fanti e cavalieri. Ma Alessandro, ostinato, riuscì ad attraversare il fiume raggiungendo a stento la riva, un terreno sdrucciolevole, impregnato d’acqua e di fango. Ma prima che potesse disporre tutti i suoi in un certo ordine di battaglia, dato che molti stavano ancora guadando il fiume, dovette affrontare un disperato corpo a corpo: i Persiani, infatti, premevano da tutte le parti, si buttavano addosso ai Macedoni urlando e con grande strepito, spintonandoli, cavallo contro cavallo, usando prima le lance, poi, quando queste si spezzavano, tiravano fuori le spade. Molti, riconosciuto Alessandro dallo scudo e dal pennacchio dell’elmo, ai cui lati ondeggiava una grande e candida piuma, puntarono dritto su di lui e un’asta lo colpì nella parte inferiore della corazza. Ma non lo ferì. A quel punto due generali persiani, Spitridate e Resace, spronarono i cavalli contro di lui. Scansato il primo, Alessandro si buttò su Resace e lo colpì con l’asta, ma questa s’infranse sulla corazza e i due nell’urto caddero a terra avvinghiati. In quella sopraggiunse Spitridate che dal cavallo ritto sulle zampe, levata in alto la barbarica scure, calò giù dritto un fendente che tagliò di netto il cimiero di Alessandro intaccando l’elmo quel tanto che bastò perché la lama sfiorasse appena i capelli. Nuovamente il persiano sollevò l’ascia per vibrare un secondo colpo, ma Clito, detto il Nero¹², con una picca lo colpì nel mezzo del petto trapassandolo da parte a parte. Nello stesso istante Alessandro immergeva la spada nel corpo di Resace che cadeva a terra stecchito.

    Intanto, mentre la cavalleria era impegnata in questo furioso scontro, la falange macedone guadagnava la riva e iniziava così un violento corpo a corpo tra le forze di fanteria. I Persiani cominciarono a cedere: dopo una breve e debole difesa si diedero ad una fuga disordinata e sparsa, ad eccezione dei mercenari greci che si raccolsero tutti in cima a un colle e cercarono di trattare con Alessandro per aver salva la vita. Ma il re, obbedendo più all’impulso dell’ira che ai consigli della ragione, ordinò l’attacco: nella carica, però, perse il cavallo, trafitto al fianco da un colpo di spada (per fortuna non era Bucefalo). Fu in quello scontro che morirono o furono feriti la maggior parte dei Macedoni, perché i nemici erano agguerriti e disperati. Dicono che tra i Persiani caddero ventimila fanti e duemilacinquecento cavalieri, mentre l’esercito macedone, stando ad Aristobulo¹³, ebbe in tutto trentaquattro morti, fra cui nove fanti, e a ciascuno di essi Alessandro fece erigere una statua di bronzo scolpita da Lisippo.

    La vittoria sul Granico assicurò ai Macedoni una facile penetrazione in Asia Minore. Proseguendo lungo la costa, Alessandro liberò tutte le città greche d’Asia, scese in Caria, in Licia e in Panfilia, poi entrò all’interno dell’Asia Minore, in Frigia, sino a Gordio. Qui Alessandro compì un altro di quei gesti simbolici, dal valore propagandistico, che accompagnarono la sua spedizione. Sull’acropoli della città si custodiva un antico carro legato al suo giogo da un nodo inestricabile – il nodo gordiano appunto, come venne definito – e una profezia prediceva che chi l’avesse sciolto avrebbe ottenuto il dominio dell’Asia. Alessandro interpretò l’oracolo a suo modo, nel senso che con la spada recise direttamente il nodo: in tal modo poteva presentarsi come il conquistatore dell’Asia.

    La seconda grande vittoria si ebbe nel novembre del 333 a.C. a Isso, sul confine tra Cilicia e Siria: a comandare l’esercito persiano era il Gran Re Dario iii in persona. Lo scontro avvenne in una gola relativamente stretta, racchiusa tra mare e montagna. Vedendo le sue truppe messe in fuga dall’esercito macedone e la possibilità di vittoria ormai svanire, il re persiano fuggì, aprendo così ad Alessandro la strada per la Fenicia. La sconfitta persiana fu disastrosa: Alessandro si impadronì dell’accampamento reale, catturando la madre, la moglie e i figli del Gran Re. La battaglia di Isso è raffigurata in uno dei più celebri mosaici giunti a noi dall’antichità: il cosiddetto Mosaico di Alessandro, copia di una pittura greca databile intorno al 300 a.C. Rinvenuto a Pompei – dove ornava il pavimento di una sala di rappresentanza di una grande domus, la Casa del Fauno – oggi è conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Esso raffigura lo scontro tra Alessandro (a sinistra della scena, con il capo scoperto) e il re Dario, colto nel momento in cui si dà alla fuga con il suo carro.

    Il macedone si diresse poi a sud, lungo la costa siro-palestinese, dove incontrò la dura resistenza di Tiro, piegata dopo un terribile assedio. Fatta base in Siria, Alessandro si mosse verso l’Egitto, che nel 332 a.C. conquistò senza incontrare alcuna forte opposizione da parte del satrapo persiano che lo governava: ormai tutte le coste del Mediterraneo, un tempo sotto il controllo persiano, erano nelle sue mani. Per celebrare le vittorie egli fondò sul delta del Nilo una nuova città a cui diede il suo nome, Alessandria, la prima delle tante – chiamate così – che negli anni successivi creò in Persia e in India.

    In Egitto profondi mutamenti cominciarono a verificarsi nel comportamento del giovane condottiero: volle farsi salutare come un nuovo faraone e lasciò che si sviluppasse una concezione divina della sua persona, in sintonia con le tradizioni

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