Calda ispirazione (eLit): eLit
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Isabel Sharpe
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Calda ispirazione (eLit) - Isabel Sharpe
1
Da: Janice Foster, direttore generale dell’Hush
Data: Domenica, 6 giugno
Oggetto: Trevor Little
Il signor Trevor Little porterà all’albergo un’altra ospite questa settimana. Riguardo ai regali ci atterremo alla solita procedura: lunedì fiori, martedì visita al centro benessere, mercoledì braccialetto, giovedì négligé e venerdì scultura di cioccolato. Ricordate di trattare la sua ospite con assoluta cortesia e di fingere di non aver mai visto il signor Little prima. Come sempre, le chiamate dirette alla sua stanza devono essere deviate alla sua segreteria e a chiunque dovesse chiedere di lui va detto che non è registrato qui.
Nota sulla bacheca del personale ai piani: Questa volta mi rifiuto di pulire la camera di Trevor Little. Lo faccia qualcun altro. L’ultima volta sono rimasta nauseata.
Se avesse pensato all’aereo della Midwestern Airlines come a un utero e alla pista di atterraggio dell’aeroporto di Newark come a un canale di accesso alla vita, May Ellison si sarebbe potuta convincere di essere nata per una seconda volta. Va bene, forse stava esagerando.
Sarebbe voluta atterrare all’aeroporto La Guardia, dal momento che la sua destinazione era Manhattan, ma Trevor aveva insistito affinché prenotasse un volo con atterraggio a Newark. Per risparmiarle il traffico e l’affollamento dell’aeroporto più frequentato del mondo, le aveva spiegato. Con un po’ di fortuna, lui sarebbe riuscito a sganciarsi presto dalla riunione a cui doveva partecipare nel New Jersey e sarebbe andato a prenderla a Penn Station alle undici e trentacinque.
La madre di May, nata e cresciuta nel Wisconsin, aveva vissuto per un paio d’anni nella Grande Mela prima di sposarsi e, scrollando le spalle, le aveva assicurato di non aver mai avuto nessun tipo di problema al La Guardia.
Naturalmente May non aveva parlato di Trevor a sua madre, la quale era convinta che sua figlia andasse a visitare New York con Ginny, l’amica dei tempi del liceo. Le madri di solito non erano entusiaste di sapere che le figlie affrontavano un viaggio che le avrebbe portate dall’altra parte del paese, per trascorrere una settimana di passione sfrenata in un lussuoso hotel con un uomo che conoscevano appena.
Un altro passo e May sarebbe entrata nella sua nuova vita temporanea che, accidenti, sembrava fatta di troppi cancelli, troppo rumore e troppa gente. Non si trovava più a Milwaukee e sicuramente non a Oshkosh.
May non si rese conto di essersi fermata di colpo fino a quando qualcuno non si scontrò con lei, bofonchiando una serie di epiteti per niente lusinghieri né tanto meno educati.
Respirando a fondo, May proseguì lungo un interminabile corridoio fino al terminal principale, affollato di gente in fila per i controlli di sicurezza. Ricordando le istruzioni che Trevor le aveva spedito via e-mail, May seguì le indicazioni per raggiungere lo sportello e comperare il biglietto per il treno navetta che l’avrebbe portata nel cuore della città.
Dopo aver comperato il biglietto sbagliato per la destinazione errata, chiedendosi perché mai avessero avuto la straordinaria pensata di chiamare Penn Station sia la stazione di New York sia quella del New Jersey, alla fine riuscì a salire sul treno che l’avrebbe portata in città, sulla carrozza che Trevor le aveva indicato, la terza dopo la motrice, così l’avrebbe individuata subito appena fosse scesa.
Peccato che alla stazione di lui non ci fosse nemmeno l’ombra. Tutto sommato, forse era meglio così. Non che May non fosse emozionata all’idea di passare una settimana di passione con Trevor, ma aveva qualche dubbio su come comportarsi, incontrando dopo un lungo viaggio un uomo che conosceva appena, e con il quale intendeva condividere il letto per una settimana. Che cosa poteva dirgli? Ehi, come stai? Fa caldo per questa stagione, non è vero? Immagino che non stai più nella pelle all’idea di farmi tua.
Forse era meglio incontrarlo direttamente all’Hush.
Mezz’ora più tardi, May scese dal treno in una piattaforma sotterranea, asfissiante e buia, e trascinando la valigia con le rotelle, salì le scale circondata da troppe persone per i suoi gusti. A confronto con Penn Station, l’aeroporto di Newark sembrava una città fantasma.
Non che May non fosse mai stata in posti affollati prima, o che si fosse aspettata che tutto fosse come a Milwaukee, dove aveva conosciuto Trevor un mese prima. L’incontro fatale era avvenuto all’Università del Wisconsin, durante una celebrazione alla quale lui aveva preso parte per rivedere un suo vecchio professore che insegnava nella facoltà di economia e commercio, dove lei lavorava come assistente del preside.
Avevano legato subito e, dopo una piacevole chiacchierata, lui l’aveva invitata a prendere un caffè, quindi un aperitivo, poi le aveva chiesto di uscire a cena con lui e di salire nella sua stanza d’albergo. May aveva declinato l’ultimo invito, anche se si era sentita lusingata dalla sua proposta. Non le era mai capitato che un uomo dimostrasse tante attenzioni nei suoi confronti. Dopo la partenza di Trevor, si erano tenuti in contatto tramite la posta elettronica e il telefono. Incredibilmente, le loro chiacchierate erano diventate una gradevole routine nella giornata di May: un momento di luce nei mesi bui dopo che Dan aveva messo fine alla loro relazione durata sei anni, dichiarando che non provava più l’eccitazione dei primi momenti.
May non era d’accordo con lui. Secondo lei, la vita era già bella e miracolosa in sé e per sé, senza che ci fosse bisogno di andarsi a cercare situazioni che procurassero scariche di adrenalina per godersela appieno. O per lo meno lo aveva pensato fino a prima di accettare l’invito di Trevor.
La sua, con ogni probabilità, era stata una reazione alle parole di Dan, a quello che lui aveva detto di lei e della loro vita insieme, definendo entrambe noiose e prevedibili. Trevor, invece, l’aveva corteggiata e intrigata con le sue e-mail sempre più intime e alla fine May aveva ammesso di essere curiosa. In fondo, Dan era stato il suo unico uomo, quindi perché non ampliare le sue conoscenze? Trevor era una persona molto affascinante, era bello e doveva essere anche ricchissimo per averla invitata a soggiornare per una settimana all’esclusivo Hush Hotel di Manhattan.
Era rimasta a bocca aperta quando aveva cercato sulla rete informazioni sull’albergo e aveva scoperto la natura erotica e lussuosa del posto, poi l’aveva richiusa e aveva sgranato gli occhi quando aveva letto i costi. Una famiglia di quattro persone avrebbe potuto vivere per un mese con quello che si spendeva per trascorrere lì una notte.
Eppure era partita e stava per lanciarsi in una fantastica avventura prima di tornare alla sua vita monotona che in fondo non considerava tale. Era vero che di tanto in tanto aveva l’impressione che dovesse esserci qualcosa di più, ma aveva sempre ritenuto che fosse una sensazione perfettamente normale. Sua madre aveva seguito un sogno, fino alla Radio City Music Hall, diventando una Rockette, e aveva scoperto che essere una ballerina famosa in tutta l’America era un lavoro come un altro: impegnativo, di solito divertente, a volte noioso, occasionalmente eccitante, ma anche deludente. Forse era quella la lezione che Dan doveva imparare e forse, una volta imparatala, sarebbe tornato da lei.
Oppure il suo soggiorno a Manhattan avrebbe cambiato tutto.
Respirando a fondo, May cercò di concentrarsi su quello che doveva fare e cioè salire al livello della strada e trovare un taxi che la portasse all’Hush.
Infastidita dalla folla e dagli spintoni che riceveva quasi a ogni passo, decise che per sopravvivere era necessario immedesimarsi nel personaggio di Veronica Lake. Da sempre si trovava a dover combattere contro la timidezza e l’introversione che facevano parte del suo carattere e la tattica che funzionava meglio nell’aiutarla a superare i momenti più critici era imitare l’atteggiamento distaccato ed elegante dell’attrice di vecchi film, amata da sua madre, alla quale lei sembrava assomigliare molto.
Raddrizzando le spalle, May si impose di entrare nel personaggio, evitando di guardarsi intorno con gli occhi sgranati per la sorpresa, e di fare attenzione ai cartelli alla ricerca di qualche indicazione che le facesse capire da che parte doveva dirigersi. Settima Strada, Ottava Strada, quale uscita doveva prendere?
Alla fine May optò per la Settima Strada e fu premiata dalla vista del Madison Square Garden. La piazza era gremita di taxi, come le aveva anticipato Trevor. Peccato che non l’avesse informata che avrebbe anche trovato una coda di una cinquantina di persone.
L’espressione algida e distaccata di Veronica ebbe un lieve cedimento. Ci sarebbero volute delle ore per poter salire su un taxi.
Tanto peggio. May si mise diligentemente in coda. Veronica era abituata ad affrontare situazioni di quel genere. Quella era la sua città, quindi niente poteva spaventarla.
Presto incominciò a rendersi conto di quanto fosse caldo per l’inizio di giugno, almeno in confronto a Oshkosh. Il sole di mezzogiorno riusciva a trovare il modo di raggiungere la strada attraverso i palazzi e i grattacieli e a battere direttamente sulla sua testa. Nelle orecchie le rimbombava il suono dei clacson e quello del fischietto dell’uomo in divisa che guidava le persone verso i taxi, gridando come un ossesso. Una donna davanti a lei fumava, intossicandola a ogni boccata. Il sudore le gocciolava dalle ascelle e le imperlava la fronte.
Strepitoso. May si augurava di riuscire a farsi una doccia all’albergo prima di incontrarsi con Trevor.
Una scossa di adrenalina l’attraversò mentre si muoveva seguendo la coda. Era davvero a New York, stava per rivedere Trevor e avrebbe trascorso con lui un’intera settimana, ricevendo le attenzioni e i riguardi che la maggior parte della gente poteva solo sognarsi.
Peccato che più si avvicinava il momento di salire sul taxi, più l’eccitazione si trasformava in timore. La donna davanti a lei accese un’altra sigaretta, un ubriaco le passò vicino urlando frasi senza senso su Gesù, i videogiochi e i panini al prosciutto.
Alla fine arrivò il turno di May. In fondo non aveva aspettato poi così a lungo, ma da ragazza di campagna qual era, non poteva immaginare come si svolgevano certi rituali in una metropoli.
Il tassista le lanciò un’occhiata dallo specchietto retrovisore. «Dove andiamo?»
May gli indirizzò un’occhiata severa, da star del cinema, mentre in cuor suo avrebbe voluto pregarlo di riportarla nel Wisconsin.
«Hush Hotel.»
L’uomo inarcò le sopracciglia, poi si voltò e le rivolse un sorriso lascivo, strizzandole l’occhio prima di immettersi nel traffico caotico, ma scorrevole. Nei successivi quindici minuti, mentre il tassametro correva più velocemente dell’auto, il tassista parve impegnarsi caparbiamente a cercare di farsi coinvolgere in un incidente.
May intanto si chiedeva come facesse un essere umano a sopportare di vivere in un luogo simile, dovendo subire ogni giorno attacchi di tutti i generi. Non c’era da stupirsi che i newyorkesi fossero considerati dei duri: solo per attraversare la strada c’era bisogno di una scorza di un notevole spessore.
Alla fine il tassista eseguì un’ultima gimcana prima di fermarsi davanti all’albergo con un sobbalzo. «Eccola arrivata a destinazione.»
May rovistò nella borsetta alla ricerca disperata del portafoglio. Doveva dargli una mancia? E in quel caso, di quanto? Alla fine decise di esagerare. Dopotutto quell’uomo aveva fatto del suo meglio per insegnarle quanto la sua vita fosse preziosa.
L’attimo seguente la portiera del taxi si aprì e un bell’uomo in livrea nera, con bottoni dorati e il logo dell’Hush in lettere rosa applicato sul taschino, le tese una mano coperta da un guanto bianco, offrendosi di aiutarla a scendere.
May lasciò l’abitacolo asfissiante del taxi privo di aria condizionata e fu colpita dalla brezza calda che minacciò di rovinarle l’acconciatura. La testa incominciò a pulsarle.
«Buon pomeriggio, signora. Benvenuta all’Hush.»
L’improvviso rumore prodotto da un martello pneumatico obbligò l’uomo ad alzare la voce per farsi sentire.
May annuì con un cenno del capo a lui e all’altro uomo affascinante che scaricò la valigia dal taxi. Doveva dare una mancia anche a loro? Di quanto? Accidenti, incominciava a non capire più niente.
Mentre il martello pneumatico proseguiva con il suo concerto cacofonico, un altro impiegato dell’albergo soffiò nel fischietto per chiamare un taxi. Qualcuno alle sue spalle urlò. La sirena di un’ambulanza risuonava sempre più vicina mentre gli automobilisti sulle macchine lungo la strada suonavano il clacson come impazziti, nel tentativo di trovare il modo per farle strada.
May si trattenne a stento dallo scappare nell’albergo attraverso le porte a vetri, ma si mosse comunque più in fretta di quanto avrebbe fatto Veronica Lake.
Quando fu nella hall, si dispiacque di non essere una persona tremendamente importante e di non avere una sofisticatissima stola di pelliccia da sfilarsi dalle spalle e da consegnare all’uomo in livrea che si era avvicinato per accoglierla.
L’albergo era sensazionale.
L’aria era fresca e deliziosamente profumata. C’erano poche persone nella hall, alcune che stavano per uscire, altre che parlavano con l’addetta alla reception e un paio sedute comodamente nelle poltrone nere e grigie.
La pace e il silenzio che regnavano all’Hush tranquillizzarono May, che sentì la tensione scemare poco per volta mentre seguiva la sua scorta verso la reception. Era dominata da un bancone di legno nero laccato, dietro al quale, sulla parete, brillava l’insegna al neon in lettere rosa, stile art déco, che formava il nome