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La talpa (eLit): eLit
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E-book364 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Non c'è pace per il procuratore capo Janet McNeil nemmeno quando si mette a letto. Le sue notti sono tormentate da terribili incubi, mentre le sue giornate la vedono impegnata in un difficile processo contro un membro di un gruppo di attivisti razzisti, che non ci penserebbe due volte a incaricare uno dei suoi per farla fuori. L’unico porto tranquillo sembra essere presso la casa di Simon Green. Sarà lui ad aiutarla quando le minacce si fanno più concrete. Infatti Simon non è esattamente l’economista che dice di essere.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2016
ISBN9788858959169
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    Anteprima del libro

    La talpa (eLit) - Tara taylor Quinn

    successivo.

    1

    «Qualche domanda?» chiese Janet McNeil, il procuratore capo, rivolgendosi al giovanotto ammanettato, dall'aria insolente, seduto scompostamente davanti a lei al tavolo scheggiato e graffiato della sala colloqui privata.

    «Ha detto che intendeva offrirci il rito abbreviato.»

    Jan scosse la testa all'indirizzo di Gordon Michaels, un noto penalista di Flagstaff, e riportò l'attenzione sull'accusato, Jacob Hall. Nell'udienza della settimana precedente, la data del suo processo era stata fissata per la metà di dicembre... il massimo di tempo consentito dalla legge che garantiva a Hall il diritto a un rapido processo.

    «Niente rito abbreviato. Ho cambiato idea.»

    Jan rispose al legale, fissando l'accusato. Ti tengo, amico, per almeno novanta giorni. Questo mi darà il tempo di trovare prove sufficienti per metterti dentro per sempre.

    Il serpente verde tatuato sul braccio di Hall dardeggiava la lingua nera in direzione del collo. Sul resto del corpo, i tatuaggi erano così fitti che Jan non riusciva a distinguere alcun disegno preciso.

    «Andiamo, Jan, qual è il massimo a cui può essere condannato per falsificazione di documenti?»

    «Di per sé, quattro anni.»

    «Quindi, accordiamoci per tre e fai risparmiare allo stato il costo del processo.»

    Lei non staccò gli occhi dal giovane ventitreenne che sospettava appartenesse a un'organizzazione razzista, fautrice della supremazia dei bianchi. Cercava di farlo condannare fin da quando aveva diciotto anni. Quante vite erano andate perdute in quei cinque anni? E tutto perché, anche se la polizia faceva il proprio lavoro e lo arrestava, lei non riusciva a trovare su Hall prove inconfutabili.

    «Aggiungerò le accuse di falsificazione di carte di credito e truffa ai danni di istituti finanziari» li informò.

    Jacob Hall non batté ciglio... e non abbassò gli occhi. Quell'uomo era completamente privo di coscienza. E possedeva maggiore agilità fisica, forza e intelligenza di quanto il mondo potesse sopportare.

    «Entrambi reati federali» continuò Jan. «E, con i suoi precedenti, potrebbero portare a una condanna a trent'anni.»

    Hall le indirizzò un sorriso condiscendente. Non mostrava alcun timore. Jan non riteneva che fosse una finzione. Quell'uomo era assolutamente certo che lei non avrebbe mai ottenuto una condanna.

    Per un attimo, ebbe la meglio. Un brivido di paura le corse lungo la schiena.

    «Non ha fatto questa visita in prigione solo per usarci la cortesia di informarci degli altri capi d'accusa, avvocato McNeil. Non è da lei. È una donna molto occupata» osservò Michaels. «E visto che non c'è rito abbreviato, immagino che abbia un patteggiamento da offrirci.»

    Jan distolse lo sguardo dall'accusato, spostandolo su Michaels. Lo conosceva dai tempi dell'università e lo aveva avuto come avversario varie volte. Quell'uomo scialbo era fondamentalmente una brava persona... un penalista in gamba, senza dubbio, ma vinceva le sue cause senza giocare sporco.

    «Sì» rispose, determinata a non mostrare alcuna debolezza. Tornò a rivolgersi a Hall. «Voglio un elenco di nomi, luoghi, date. Voglio descrizioni... con tutti i dettagli. Mi dia Bobby Donhaue e quanti lo aiutano a mandare avanti la Ivory Nation, e prenderò in considerazione una riduzione della pena.»

    «Lei legge troppe favole, Jan

    «Non leggo favole, signor Hall.» Lei guardò Michaels. «Prendere o lasciare.»

    «Il mio cliente non ha idea di che cosa stia parlando» affermò l'avvocato.

    «È la vostra decisione definitiva?»

    «Sì.»

    Jan si alzò, si passò sulla spalla la cinghia imbottita della borsa portadocumenti. E poi comparve la guardia, facendo cenno a Hall di alzarsi.

    «Ci vediamo in tribunale lunedì» disse lei.

    Hall voltò le spalle e se ne andò, ma non prima che Jan avesse notato due cose.

    Le lettere stampigliate sulla schiena della divisa del carcere: Detenuto in attesa di giudizio.

    E il dito medio che le mostrava con la mano ammanettata dietro la schiena.

    Servendosi di un filtro per il caffè, il soggetto verserà il perossido di idrogeno ghiacciato, l'acido muriatico e la tintura di iodio in un vasetto di vetro pulito...

    Seduto davanti alla tastiera, Simon batté la frase, si fermò, guardò dalla finestra della zona studio in un angolo della sala da pranzo, e sbadigliò. Un bel venerdì pomeriggio di settembre. Cielo azzurro. Aria tiepida. Il quartiere era silenzioso. Il silenzio gli piaceva.

    La vendita di tintura di iodio è regolata del governo federale.

    L'autobus della scuola aveva scaricato i bambini delle elementari ventisei minuti prima. Poiché era stato addestrato a osservare e a proteggere, li aveva guardati disperdersi in direzione delle rispettive case e dei genitori in attesa. Fra altri due o tre minuti sarebbero calati sul quartiere gli studenti delle superiori.

    Scrisse un altro paio di righe prima che il loro autobus arrivasse. E li osservò scendere, a uno a uno, a volte riunendosi in gruppi mentre si incamminavano lungo la strada, chi entrando nelle case e chi scomparendo nelle vie laterali. Alan Bonaby era il solo che Simon conoscesse per nome, perché per un certo periodo gli aveva recapitato i giornali. Alan camminava da solo, rialzandosi gli occhiali sul naso ogni due passi. La sua casa era l'ultima, prima che la strada finisse sul margine di una pineta.

    Anche Simon spinse più in alto sul naso gli occhiali cerchiati di metallo e si rimise al lavoro. I manuali della polizia non si scrivevano da soli... il che, tutto sommato, probabilmente era una buona cosa, visto che, se lo avessero fatto, il suo editore, l'editore di Sam, non lo avrebbe pagato per scriverli.

    Il fosforo rosso è regolamentato. Per ovviare al problema, i criminali si procurano grandi quantitativi di adesivi catarifrangenti per segnalazioni stradali e raschiano il fosforo...

    Allungando la mano per massaggiarsi il nodo di muscoli contratti dietro il collo, Simon fu distratto per un attimo dal solletico dei capelli sul dorso della mano. Stavano cominciando ad arricciarsi in fondo. Aprì quindi il primo cassetto a destra della scrivania, prese un paio di forbici e accorciò accuratamente di mezzo centimetro tutte le ciocche. Fine dei riccioli.

    Indizi rivelatori di un laboratorio clandestino.

    Simon scelse un'icona a forma di mano con l'indice teso per evidenziare i punti dell'elenco.

    Punto Uno. Odori chimici.

    Punto Due...

    Una macchina era appena comparsa sulla strada. Una Infiniti blu, guidata dalla sua vicina della porta accanto...

    ... Contenitori di prodotti chimici nell'immondizia.

    Punto Tre...

    Lei stava entrando nel proprio vialetto.

    ... Numerosi visitatori che non rimangono a lungo.

    Ed entrò direttamente in garage. Entro quaranta secondi circa sarebbe andata a controllare la cassetta della posta sul marciapiede.

    Punto Quattro. Case con finestre oscurate.

    Ed eccola, bellissima come sempre, con il sederino dalla linea perfetta inguainato nella gonna al polpaccio nera e rossa e i lunghi capelli scuri che ondeggiavano poco sopra i fianchi mentre si chinava a guardare nella cassetta.

    Simon balzò in piedi. «Sai» l'apostrofò, pochi secondi dopo, attraversando il proprio giardino. «Sarebbe più sicuro se ti fermassi davanti alla cassetta, come fa il postino, e ritirassi la posta dalla macchina.»

    Janet McNeil gli sorrise.

    «Vedi dei rapinatori acquattati nell'ombra pronti ad aggredirmi e a confiscare le mie bollette?»

    Simon vedeva una quantità di cose di cui lei non sapeva nulla.

    «Era solo un'osservazione» rispose, insinuando le mani sotto i lembi della camicia e dentro le tasche dei jeans. Come la camicia, anche i jeans erano ampi e informi. «Se non ti interessa la sicurezza, pensa al risparmio di tempo» continuò. «Potresti risparmiare fino a due o tre minuti, se ritirassi la posta mentre passi in macchina.»

    «E altri cinque eliminando la conversazione con te» replicò lei, sorridendo. «Ma, allora, che motivo avrei di scuotere la testa mentre ceno?»

    «Ho visto di nuovo il tuo nome sul giornale, stamattina.»

    Simon aveva lasciato cadere il pane tostato che stava mangiando, pronto ad accorrere a proteggerla, prima di ricordare che non era affar suo... che non era più il suo lavoro.

    «Già, un altro giorno, un altro criminale» convenne lei, sfogliando le buste che aveva in mano.

    «Hall fa davvero parte di un'organizzazione razzista come si dice?»

    «Chi lo sa?»

    Simon osservò Jan esaminare un carnet di buoni sconto di un supermercato.

    «Intendi cercare di provarlo?»

    Lei lo guardò, calma e composta.

    «Tu che ne pensi?»

    Quello che Simon pensava era che avrebbe dovuto essere sposata, e a casa a fare bambini. Per quanto l'idea fosse sessista, gli piaceva assai più di quella che una cara, simpatica persona come Janet McNeil passasse le giornate con i rifiuti della società che le sputavano addosso.

    «Ho sentito che non sono tipi amichevoli» osservò, tenendo per sé la maggior parte di ciò che aveva da dire sull'argomento.

    Poteva capire quanto fosse vitale reprimere la violenza e l'odio, ma non era tenuto a pensarci. E non era necessario che gli piacesse.

    «Sai, Simon» cominciò lei, piegando la testa da un lato, «dovresti prendere in considerazione l'idea di scrivere libri gialli, invece di libri di testo di economia. Ti si adatterebbe di più.»

    Sì, be', nessuno diceva che non avesse la vista acuta. Una volta, Simon aveva finito di battere a macchina le correzioni manoscritte di un testo di economia. Lo aveva fatto per conto di qualcun altro, e manteneva ancora la finzione che quello fosse il suo campo. Era più facile, così.

    «Ehi, stai cercando di dire che non ho l'aria dell'economista?»

    «No.» Lei si strinse le lettere al petto. «Sto dicendo che la tua curiosità e la tua immaginazione sono sprecate su numeri e percentuali.»

    Ma essere considerato un autore di libri di testo di economia costituiva un'ottima copertura.

    «Un giorno dovrò mostrarti i miei lati spigolosi» dichiarò.

    «Sei mai serio?»

    «Non molto spesso. E tu?»

    «Tutto il giorno, tutti i giorni.»

    Lui fu contento di sentirlo. Un solo momento di leggerezza, nel lavoro di Jan, poteva portare a trascurare un indizio che l'avrebbe pugnalata alla schiena... letteralmente.

    «Allora, dovresti prestare particolare attenzione ai tuoi cinque minuti con me ogni pomeriggio» affermò. «C'è bisogno di un po' di umorismo per mantenersi sani e forti.»

    «Credevo che per questo bastasse una buona prima colazione.»

    Lui sorrise. E gli sarebbe piaciuto trattenersi ancora un po'. «Ti auguro una buona serata, avvocato» disse, indietreggiando prima di avvicinarsi troppo.

    O di fare qualcosa di stupido, come chiederle se voleva andare a mangiare un hamburger con lui.

    Non gli piaceva condividere i suoi hamburger. O la sua vita. Non aveva nulla da condividere. E intendeva continuare così.

    Sapevano che le attrezzature di atterraggio del jet erano danneggiate. Nessuno se ne preoccupava. Jan tirò fuori una pratica da uno schedario negli uffici del tribunale, che, inspiegabilmente, erano situati all'interno dell'aeroporto, osservando il viavai della gente in strada. Il sole splendeva, là fuori. Dentro, tutto era cupo e grigio.

    All'improvviso la struttura sussultò. Lei batté la spalla contro una parete. Stavano precipitando. Sentì qualcuno urlare... un collega di lavoro. Oh, Dio, alla fine sarebbe precipitata. Per tutta la vita aveva saputo che sarebbe arrivato quel momento.

    Cercò di gridare, ma non riuscì a emettere alcun suono. Cercò di dire a qualcuno che erano già a terra. E poi, tutto quello che sentì fu lo stridio del metallo contro metallo, mentre l'aereo urtava l'asfalto e lei cadeva di lato. Degli oggetti piombavano attorno a lei, rompendosi. Aspettò di morire. Si chiese che cosa avrebbe provato.

    E poi, rapidamente com'era cominciato, il movimento finì. Jan rimase distesa sul pavimento, in ascolto, in attesa. Respirava.

    Cercò di alzarsi in piedi, allungando braccia e gambe... aspettando il dolore. Si toccò il viso, accertando i danni, cercando le ferite. Non ce n'erano.

    Era viva... e doveva uscire prima che ci fosse un'esplosione. Si guardò intorno freneticamente, ma persone sconvolte e agitate le impedivano la vista. E poi vide Johnny. Il suo unico fratello aveva guardato dalla sua parte, ma non doveva averla vista. Si voltò verso un raggio di luce e si precipitò in quella direzione.

    Scavalcando cartelle, scivolando sui detriti, Jan cercò di seguirlo, tentando disperatamente di raggiungere la luce prima che l'aereo prendesse fuoco. Deglutì a vuoto, e i suoi polmoni si riempirono d'aria fresca. Ce l'aveva fatta.

    Terrorizzata, cercò con lo sguardo qualcuno che conoscesse. Stava piangendo. Aveva bisogno di essere presa fra le braccia, confortata, e tutti erano indaffarati, ignari della sua presenza. Facendosi largo fra la folla, scorse da lontano una figura familiare.

    «Mamma?» chiamò.

    Sua madre si voltò, la vide, e immediatamente tornò a voltarsi verso la donna con cui stava camminando. Erano dirette verso il luogo dell'incidente. Jan voleva che sua madre sapesse che era stata sull'aereo precipitato... che era sopravvissuta.

    Glielo disse. E poi lo ripeté a voce più alta. Sua madre la guardò, annuì, le fece una carezza sulla testa e proseguì, lasciandola sola sulla strada, singhiozzante.

    Si svegliò piangendo disperatamente. Seduta sul letto, Jan si ravviò dal viso e dalla fronte le ciocche umide di capelli, prendendosi la testa fra le mani.

    Oh, Dio. Quei sogni non sarebbero mai cessati? Erano quasi trent'anni che aveva quegli incubi. La situazione variava, ma le sensazioni erano sempre le stesse. Disperazione. Richieste d'aiuto inascoltate. Solitudine. Che cosa significava? Perché era torturata in quel modo?

    Con la fronte appoggiata alle ginocchia, Jan si abbracciò le gambe. Odiava gli incubi, il subconscio che non poteva controllare, ma non odiava se stessa. Lavorava duro ogni giorno. Faceva del proprio meglio.

    Lentamente, gli eventi del giorno prima si fecero strada nella sua memoria. L'articolo di giornale che descriveva l'arresto di Hall. La sua visita alla prigione. Il pranzo con un'ex compagna di università. Uno scontro verbale tra il capo della segreteria della procura della contea e un procuratore che non capiva la ripartizione dei compiti. Simon. La rapida telefonata del venerdì sera a Hailey, per confermare il loro appuntamento dell'indomani mattina. Niente di insolito. Una buona giornata.

    Jan lanciò uno sguardo alla sveglia. Le tre del mattino. Prese in considerazione l'idea di cercare di dormire ancora un po'. E rabbrividì al ricordo dell'orrore dell'incubo. Non poteva rischiare di riviverlo. Non quella notte.

    Si alzò, si raccolse i capelli sulla spalla, dando al pigiama di cotone, umido per il sudore sulla schiena, la possibilità di asciugare mentre andava alla finestra a sbirciare nella notte. Situata sul lato della casa, la finestra della camera da letto consentiva solo una vista parziale della strada. Non che perdesse molto. Case buie. Silenzio. Un paio di lampade dell'illuminazione stradale che gettava più ombre che luci. Ma la vista direttamente di fronte era tutta diversa. La finestra della camera da letto di Simon Green, proprio davanti alla sua, era illuminata. Jan non poteva vedere attraverso le tende chiuse.

    Non che volesse farlo...

    Ma c'era uno strano conforto nel sapere di non essere il solo essere umano sveglio nel quartiere.

    Soffriva anche lui di incubi? In qualche modo, ne dubitava. Con un mezzo sorriso, Jan andò in cucina a preparare il caffè. Forse Simon lavorava fino a tardi. Aveva sentito che gli scrittori lo facevano. E perché no? Così durante il giorno erano liberi di fare tutto quello che volevano.

    Diverse ore dopo, Jan stava uscendo dalla doccia quando sentì il campanello della porta suonare. Si avvolse i capelli nel solo asciugamano che poteva contenerli tutti, un telo da bagno extra large che aveva comprato appositamente, indossò l'accappatoio e andò a sbirciare dalla finestra sul davanti della casa.

    Una motocicletta era posteggiata sulla ghiaia, sotto i rami dell'abete. Non la riconobbe. Esitò, fissandola, ma in realtà qualcuno che volesse farle del male non avrebbe posteggiato proprio davanti alla casa... specialmente in pieno giorno.

    Rammentandosi il sottile confine fra prudenza e paranoia, andò alla porta e la socchiuse, con l'intenzione di chiedere al visitatore di aspettare che si vestisse, ma poi, invece, la spalancò.

    «Johnny!» Tese le braccia per abbracciare il fratello minore. «Non sapevo che fossi tornato.»

    Johnny era rappresentante di una grande casa editrice specializzata in saggistica, e viaggiava molto. E di solito, quando era in città, aveva troppo da fare per vedersi con lei.

    Si strinse nelle spalle. La camicia bianca, aperta sul collo, lasciava intravedere quello che sembrava il margine di un tatuaggio, poco sotto la clavicola.

    «Sono arrivato solo ieri sera» rispose.

    Aveva un tatuaggio. Tutti ne avevano uno, oggigiorno. Ma Johnny? Jan avrebbe voluto interrogarlo in proposito, avrebbe voluto che le dicesse che era soltanto un disegno fatto con l'henné.

    Invece, lo invitò a entrare e si offrì di preparargli un caffè.

    «Non posso fermarmi.» Johnny entrò tenendo in mano il lucente casco bianco e nero. «Riparto domani e ho ancora un mucchio di cose da fare. Volevo solo parlarti un momento.»

    Abbassò gli occhi, quasi timidamente, e i capelli piuttosto lunghi gli ricaddero sulla fronte. Jan si intenerì, come sempre quando suo fratello aveva bisogno di qualcosa.

    «Che succede?»

    Le visite di Johnny e le sue richieste erano rare. Avrebbe fatto tutto quello che poteva, per lui.

    «Era piuttosto tardi quando sono tornato, ieri sera» disse Johnny, e lei si chiese se avesse ancora lo stesso appartamento vicino all'università dove abitava l'estate precedente. Sua madre le aveva detto che contava di traslocare. «Ho dato un'occhiata ai giornali della settimana e ho notato l'articolo su te e quel tizio, Hall.»

    Jan si sentì riscaldare il cuore di fronte alla sua aria preoccupata, e annuì.

    «Sembra un tipo pericoloso, sorellina.»

    Sorellina. Era raro che la chiamasse così, ormai.

    «Per questo è al sicuro in prigione.»

    «Non lo so.» Johnny chinò di nuovo la testa e poi tornò a guardarla. Gli occhi scuri erano seri. «Non mi piace pensarti là fuori a indagare su di lui. Può anche darsi che sia sotto chiave, ma... e se avesse amici... e soldi... all'esterno?»

    La paura le strinse le gola. Jan respirò a fondo, la represse, cercando di convincersi che era il risultato della sua cattiva nottata, e sorrise.

    «Faccio questo lavoro da molto tempo, fratellino» gli rammentò. «E sono ancora qui.»

    «Quindi, perché rischiare? Lascia il caso. Passalo a qualcun altro.»

    «Non posso» rispose Jan, combattuta fra l'esasperazione per il fatto che l'unica volta in cui suo fratello andava a trovarla era per chiederle qualcosa che non poteva in alcun modo fare, e la gioia di vedere che si curava ancora di lei. «Sto dietro a questo tizio da anni. La storia è complessa, intricata, e sono la sola a conoscerla tutta. Se non discuterò io questo caso, se la caverà un'altra volta, e non saremo al sicuro, se lui sarà fuori.»

    Johnny corrugò la fronte, abbassando il braccio con il quale reggeva il casco. «Il giornale diceva che è dentro per furto d'identità. Non è una questione di vita o di morte...»

    No, ma Hall era colpevole di ben altro. Jan ne era sicura. Comunque, decise che non era il momento di mettere al corrente di quel fatto suo fratello.

    «È il mio lavoro, Johnny» disse invece. «La polizia li arresta e noi li processiamo. Qualcuno deve farlo, altrimenti l'intero sistema giudiziario va in malora e regna il caos.»

    «Solo per questa volta, sorellina. Non puoi liberarti dalla responsabilità solo per questa volta? Prenditi una vacanza. Te la pago io. Diavolo» continuò lui con un sorriso, passandole le nocche sulla guancia. «Verrò perfino con te, se è quello che ci vuole per convincerti a lasciare la città.»

    A Jan salirono le lacrime agli occhi. Erano stati così vicini, quando erano più giovani! Johnny era stato il suo migliore amico, nonostante i quattro anni di differenza. Quante notti era andato in camera sua quando l'aveva sentita piangere per un incubo? Quante notti era rimasto seduto con lei a raccontare stupide storielle per farla sorridere? E quando finiva per addormentarsi ai piedi del letto, lei lo copriva con la propria trapunta e si rimetteva a sua volta a dormire.

    «È allettante, Johnny» disse a bassa voce, pur sapendo che non poteva abbandonare il suo posto di lavoro. Non in quel caso. C'era troppo in gioco. «Dove andremmo?»

    Non c'era alcun male nel fantasticare per un momento.

    «Dove vuoi tu» fu la sorprendente risposta. «Decidi il momento e il luogo, e io ci sarò.»

    «E il tuo lavoro?»

    «Mi spettano delle ferie.»

    «Johnny...»

    Jan odiava deluderlo.

    «Decidi il momento e il luogo, sorellina» ripeté lui, serio, chinandosi a baciarla sulla guancia. «Aspetto di sentirti.»

    «Johnny!» lo richiamò lei, mentre infilava la porta e si incamminava sul vialetto senza darle il tempo di dirgli che non poteva accettare.

    Salì sulla moto, si calcò in testa il casco e schizzò via senza guardare indietro.

    2

    Flagstaff, Arizona, era una città unica. Un po' troppo grande, troppo estesa per conservare l'atmosfera della piccola città... e troppo piccola e isolata per attrarre coloro che ne preferivano una grande. Simon percorse la vecchia Route 66, diretto all'unico centro commerciale della città, convenendo fra sé con l'agente speciale dell'FBI Scott Olsen che Flagstaff, con l'enorme campus della Northern Arizona University proprio nel mezzo e la stazione ferroviaria non lontano dal centro, era una perfetta base di addestramento per terroristi.

    Entrando nel centro commerciale, Simon localizzò sulla piantina il negozio che cercava. Un potenziale terrorista poteva trovare tutto quello che gli occorreva, là... e una volta uscito dalla città, da qualunque lato, sarebbe scomparso nei chilometri e chilometri di terreni incolti, boschi, montagne, deserti, riserve indiane. Luoghi in cui perdersi... per sempre, se necessario.

    «Salve, Bettina. Vorrei vedere la migliore mediocre attrezzatura da neve che avete in negozio.»

    Simon lesse il nome sulla targhetta di identificazione, poi guardò la commessa negli occhi.

    «Per che cosa ne ha bisogno?» chiese lei. «Sciare? Fare snowboard? Andare in motoslitta? O solo per costruire un pupazzo di neve?»

    Costruire un pupazzo di neve. L'ultimo Natale in cui Sam era stato in vita, Simon lo aveva trascinato lontano dal manuale di economia che il suo gemello aveva scritto a mano e stava inserendo nel computer, e mentre consumavano una confezione da sei birre, fra tutti e due avevano costruito un pupazzo mostruoso, degno del Guinness dei primati.

    «Sciare» rispose, un po' in ritardo, accorgendosi che era passato troppo tempo.

    Si concentrò sul viso giovane, sorridente che aveva di fronte, fino a quando non vide di nuovo soltanto una sconosciuta di nome Bettina nel centro commerciale di Flagstaff.

    Lei stava annuendo.

    «Troppo presto per i capi migliori» disse, avvicinandosi a un gruppo di scaffali lungo una parete laterale. «Allo Snowbowl la stagione non comincia fino alle feste. Questo è il meglio che abbiamo, per ora.»

    Simon agguantò un set di capi di biancheria termici e vi mise sopra un completo di giubbotto e pantaloni impermeabili.

    «Dove pensa di andare? Utah? Montana?»

    Bettina era rimasta nelle vicinanze a osservarlo.

    Da nessuna parte, spero.

    «Lei che cosa mi consiglia?» chiese Simon, aggiungendo alla pila calze pesanti, un berretto imbottito con alette per le orecchie e guanti di pelle foderati di pelo. Doveva essere preparato. Magari allo Snowbowl non c'era ancora neve, ma la stazione sciistica a pochi chilometri da Flagstaff era aperta tutto l'anno, e al momento stava attirando i sospetti dell'FBI.

    Con le mani nelle tasche posteriori, Bettina squadrò Simon da capo a piedi.

    «Quanto è bravo?»

    Era un campione, quando aveva lasciato Philadelphia, quasi otto anni prima.

    «Abbastanza» rispose lui.

    Abbastanza per qualunque cosa la ragazza avesse in mente. Ma in mente era il limite massimo, per quanto lo riguardava.

    «Ehi, mamma, come va?»

    Accendendo le luci mentre si inoltrava nel soggiorno della casa prefabbricata di sua madre, Jan notò rapidamente le tapparelle abbassate, il guanciale e la coperta sul divano.

    «Bene, tesoro, proprio bene.»

    Grace McNeil si alzò, si ravviò i capelli con le dita e abbracciò la figlia.

    «Non sei andata in chiesa, stamattina?»

    «Avevo dimenticato di essere senza benzina.»

    Gli indumenti di Grace erano stazzonati. I pantaloni nocciola e la camicetta multicolore che Jan le aveva regalato per il suo compleanno sembravano stracci usciti da un negozio di abiti di seconda mano, anziché i capi firmati che erano.

    «Com'è stato il bingo, ieri sera?»

    Grace si strinse nelle spalle.

    «Non ci sei andata?»

    «Com'è stata la tua settimana, cara?»

    Grace si lasciò ricadere sul divano dove, sospettava Jan, doveva avere dormito fino a poco prima.

    «Mamma, il bingo del sabato sera era uno dei nostri patti. Ricordi? Ti avrebbe giovato, e ti saresti tenuta occupata. Hai promesso.»

    Sua madre era stata così ferma nella decisione di trasferirsi nella comunità di Sedona.

    «Ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male» spiegò Grace.

    Jan non sapeva bene se crederle o no.

    «E la partita a mah-jongg di giovedì?»

    «Non è andata tanto bene, al principio, ma poi ho avuto i Tredici Orfani.» Il viso di Grace si illuminò. «Era la prima volta che qualcuno di noi lo vedeva succedere.»

    Jan non aveva mai giocato a mah-jongg - le pedine, i fiori e i draghi la confondevano - ma sua madre aveva una vera passione per il gioco. E dopo lo spavento per il suo più recente tentativo di suicidio, due anni prima, qualunque passione di Grace era

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