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Ragazza numero A-7807
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E-book217 pagine2 ore

Ragazza numero A-7807

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Info su questo ebook

La commovente storia vera di una ragazza e del suo grande coraggio

1944. Sara Leibovits, una ragazza ebrea di sedici anni, viene deportata ad Auschwitz con la sua famiglia. Trascorrono insieme pochi momenti prima che i loro destini vengano stravolti. La madre e i cinque fratellini di Sara vengono mandati direttamente alla morte. Il padre viene dapprima destinato al sonderkommando, il gruppo di chi è costretto a rimuovere i corpi dalle camere a gas, e poi giustiziato. Solo Sara sopravvive.
Questa è la potente storia vera di Sara Leibovits e delle incredibili sofferenze e difficoltà che ha dovuto affrontare durante la prigionia nel campo di sterminio, raccontata insieme a sua figlia, Eti. In questo avvincente libro di memorie, i loro destini si intrecciano. Cosa significa sopravvivere all’Olocausto, e cosa comporta crescere con una madre segnata da quegli orrori?

«Questa che racconto è la pura verità. È la storia di ciò che ho vissuto da ragazza per un intero anno della mia vita, il sedicesimo, ad Auschwitz.»

La preziosa e toccante testimonianza di una sopravvissuta all’Olocausto, che si è trovata ad affrontare da sola gli orrori del campo di sterminio.
Sara Leibovits
è nata nel 1928 a Veliki Komjati, in terra cecoslovacca (ora parte dell’Ucraina). Nel 1944, lei, i suoi genitori e i cinque fratelli furono deportati ad Auschwitz. Fu l’unica della sua famiglia a sopravvivere. Oggi vive in Israele.
Eti Elboim
figlia di Sara Leibovits, è scrittrice, giornalista e drammaturga. Ha conseguito un master in Letteratura ebraica.
LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2023
ISBN9788822779281
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    Anteprima del libro

    Ragazza numero A-7807 - Eti Elboim

    Una ragazza ad Auschwitz

    Questa è una storia di salvezza, di sopravvivenza,

    di fede nel Creatore del Mondo e nei miracoli, di fede dell’uomo in sé stesso.

    È una storia di coraggio, di eroismo, di ingegno e di forza, di amicizia, di altruismo ed empatia.

    È la storia della volontà di cercare l’umanità nei momenti più difficili,

    la luce anche nelle profondità oscure della sofferenza e dell’umiliazione,

    il bene anche in un inferno di male.

    È una storia di trionfo del bene sul male.

    È una storia folle, una storia da incubo, una storia priva di logica, priva di umanità.

    È la verità, nuda e cruda.

    È la storia di un anno della mia vita,

    ragazzina di sedici anni ad Auschwitz.

    Questa storia è parte di me, l’unica sopravvissuta di tutta la mia famiglia.

    Appartiene all’intero popolo ebraico e a tutti noi.

    Spero che ne uscirete più forti e con una rinnovata fede, animati da un nuovo amore per la vita, una comprensione più profonda del vostro scopo,

    una nuova determinazione a combattere l’odio, la malvagità, l’arroganza e il razzismo.

    Spero che ricercherete la bontà, la compassione, la gentilezza.

    Che queste pagine vi spingano ad aiutare il prossimo e ad amare gli altri esseri umani per il semplice fatto che sono umani.

    Io sono sopravvissuta per poter testimoniare e raccontare questa storia. Quindi eccola qui.

    Sara Leibovits della famiglia Hershkovits -

    Nata in Cecoslovacchia, cittadina di Israele.

    Figlia di una ragazza ad Auschwitz

    Questa è la storia di mia madre, sopravvissuta ad Auschwitz,

    ed è anche la nostra storia, seconda generazione dopo l’Olocausto.

    Abbiamo avuto il privilegio di nascere da quei rami carbonizzati, ombrosi e fumanti,

    quelle fenici emerse e rinate dalle fiamme del crematorio.

    Loro stesse hanno incarnato la visione delle ossa secche,

    hanno spiegato le loro ali e hanno costruito famiglie

    e case.

    Per il nostro bene hanno imparato di nuovo a ridere,

    a essere felici.

    A essere in grado di abbracciare la felicità e la vita.

    Alcuni di noi portano nell’anima tagli e cicatrici,

    ma abbiamo forza, potere e ispirazione.

    Siamo più forti dell’inferno, più potenti del terrore,

    e i nostri piedi sono ben piantati nel suolo della nostra patria, la Terra d’Israele.

    Abbiamo bevuto il potere e la memoria dell’Olocausto insieme al latte delle nostre madri.

    Il ricordo è entrato nel nostro sangue con ogni carezza e abbraccio di nostro padre.

    Abbiamo il privilegio di essere un anello della catena

    tra i sopravvissuti e il mondo intero.

    Loro sono sopravvissuti per poter raccontare questa storia,

    e noi siamo qui per aiutarli a far sentire la loro voce,

    per dire, parlare, documentare e far conoscere.

    Siamo qui per riportare alla memoria e proteggere,

    affinché non accada mai più!

    Non lasceremo che il mondo dimentichi. Lo abbiamo promesso.

    Eti Elboim della famiglia Leibovits -

    Nata in Israele, cittadina di Israele

    Ultima fermata: Auschwitz

    Il treno rallentò e si fermò con un assordante stridore di freni. Era il 18 maggio 1944, un giovedì mattina. Eravamo ammassati in un vagone merci dal lunedì, stretti come sardine, al buio, sporchi, affamati. I nostri compagni di viaggio erano le lacrime, l’angoscia e il terrore dell’ignoto.

    Ci stringemmo l’uno all’altro, aspettando ansiosamente che qualcuno ci aprisse le porte del vagone. Qualche passeggero aveva già espresso la propria opinione: non ci aspettava nulla di buono. In fondo, avevamo viaggiato in un treno che normalmente veniva usato per spostare il bestiame dalla Polonia alla Germania. E tra me e me pensavo che forse quegli animali stavano più comodi rispetto a noi. Considerando com’era andato il viaggio, in che razza di posto potevamo mai essere arrivati?

    E lo stesso nutrivo una flebile speranza. Forse, in qualche modo, la situazione sarebbe migliorata per mio padre, per mia madre, per i miei cinque fratelli più piccoli, per me e per il resto degli ebrei che avevano viaggiato con noi. In cosa poteva mai sperare una ragazzina? Avevo quindici anni e dieci mesi all’epoca. Mi chiamavo Suri Hershkovits ed ero nata nel villaggio di Komjat¹, che all’epoca faceva parte della Cecoslovacchia, ma era stato poi annesso all’Ungheria alla vigilia della guerra.

    Ci avevano fatto salire su quel treno merci tre giorni prima, direttamente dal ghetto di Munkács – che già di per sé era stato un inferno. Non sapevamo ancora che durante il viaggio ci aspettavano tanti altri piccoli inferni e che alla fine saremmo arrivati in un ultimo, grande e incessante inferno.

    Non c’erano gradini per salire sul vagone. I più piccoli si erano arrampicati da soli, e chi era già dentro aveva dato una mano agli anziani.

    Non appena entrata, ero rimasta sconvolta. Il vagone era sporco e nell’aria si sentiva ancora la puzza del bestiame che era stato trasportato prima di noi. Il pavimento era bagnato e sudicio. Sembrava che qualcuno avesse provato a lavarlo, ma ci avevano trascinato lì in fretta e furia e quindi non aveva avuto il tempo di asciugarsi. Perciò ora era ricoperto da uno strato appiccicoso di fango e sporcizia.

    La prima cosa che notammo è che non c’erano posti a sedere. Dovevamo restare in piedi, tutti schiacciati gli uni agli altri.

    Ci dissero di restare buoni e tranquilli. Ci spiegarono che le porte del vagone erano bloccate dall’esterno e sarebbero rimaste così finché non fossimo giunti a destinazione. Solo lì ci avrebbero aperto, perché solo lì c’erano le persone che avevano le chiavi. Ma dove, esattamente? Non lo sapevamo. Non avevamo la più pallida idea di dove fossimo diretti.

    Mentre salivamo sul vagone, mio cugino Shoni Salomon fu nominato comandante. Non ricordo chi gli diede questo incarico, ricordo solo che il responsabile era lui. Era il figlio della sorella di mio padre, Faige. Aveva diciannove anni e veniva dal vicino villaggio di Bogrovitz.

    In un angolo dei bambini piangevano, in un altro qualcuno cercava di aiutare gli anziani a sedersi a terra. Eravamo tutti terribilmente stanchi e affamati e questo non faceva che aumentare la nostra sofferenza. Tra i nostri compagni di viaggio c’erano delle madri da sole con i figli. In generale, la maggior parte dei passeggeri era costituita da donne, anziani, bambini. C’erano pochi uomini, forse perché di quei tempi erano stati quasi tutti arruolati con la forza nell’esercito ungherese, costretti ai lavori forzati e fatti prigionieri dopo l’occupazione tedesca. E così le loro famiglie, oltre al dolore della separazione, dovevano sopportare anche la paura di non sapere se stessero bene.

    In totale nel vagone c’erano ottantaquattro persone. Tutte terrorizzate, tutte sconosciute. Un gruppo di estranei uniti da un destino comune.

    La seconda cosa che notammo è che non c’era acqua potabile. Come si aspettavano che sopravvivessimo senza bere nulla?

    Per il primo quarto d’ora, cercammo di essere tutti educati e gentili gli uni con gli altri. «Potrebbe spostarsi appena?», si sentiva in un angolo. «La prego, faccia un po’ di spazio», diceva qualcuno nell’altro. Dopo poco, ci rendemmo conto che non c’erano nemmeno i bagni e a quel punto iniziammo davvero a perdere ogni speranza. Quel viaggio era iniziato da mezz’ora, ed era già diventato una tortura.

    A un certo punto mio padre chiese: «Scusate, per caso qualcuno ha una coperta?». Si chiamava Jacob Hershkovits e aveva quarantaquattro anni. Era abituato a guidare la comunità, dal momento che era stato il sagrestano della sinagoga, e perciò aveva aiutato Shoni, il nipote, a prendere il comando. Il verso dell’Etica dei Padri, «In un luogo dove non ci sono uomini, sforzati di essere un uomo», lo descrive alla perfezione. Era la prova vivente che si può restare umani e aiutare il prossimo anche nelle situazioni più difficili.

    Qualcuno rovistò tra le sue cose e gli passò una coperta di lana. «Perdonatemi», chiese di nuovo. «Avete un martello? Un chiodo? Un secchio?».

    Alla fine, in un modo o nell’altro, senza martello né chiodi, mio padre e Shoni riuscirono ad appendere la coperta in un angolo del vagone per creare una sorta di bagno privato. Ma come risolvere il problema del secchio che si stava già riempiendo e minacciava di traboccare?

    «Bisogna svuotarlo fuori», disse qualcuno. Qualcun altro suggerì di arrampicarsi sulle spalle di un compagno di viaggio, afferrare il secchio pieno e gettare il contenuto attraverso le sbarre metalliche della finestra. Ma comunque tutti i tentativi fallirono, ancora e ancora, mentre il treno procedeva spedito.

    «Qualcuno ha un giornale?», chiesero mio padre e Shoni, nella speranza di poter usare un foglio per incanalare il contenuto del secchio e farlo uscire dalla finestra. Ma non ce l’aveva nessuno. Il vagone diventava sempre più sporco e puzzolente. Di tanto in tanto il treno si fermava in qualche stazione e ogni volta pensavamo che forse avremmo ricevuto dell’acqua e saremmo riusciti a liberarci dal fetore. Ma le porte rimasero chiuse per tre giorni interi.

    Qualche volta facevamo delle soste in stazione, alcune brevi e altre più lunghe, forse per permettere ai convogli di cambiare binario. In alcune stazioni, delle brave persone che vivevano nella zona ci aspettavano per lanciarci pagnotte di pane o pannocchie di mais bollite attraverso le sbarre. Noi le afferravamo e le facevamo sparire nel giro di pochi minuti.

    A ogni sosta, ci zittivamo tutti per cercare di capire in che lingua si parlasse fuori, ma di solito alla gente del posto era proibito avvicinarsi troppo al vagone. E così restavamo all’oscuro.

    Il viaggio in treno procedeva tra urla e singhiozzi. I passeggeri si appisolavano in ogni posizione. Di tanto in tanto, chi era in piedi faceva a cambio di posto con chi era seduto, ma non c’era mai un vero momento di pace o di calma.

    Cercavamo di continuo di indovinare in che direzione stessimo viaggiando. Non riuscivamo a vedere il sole e nemmeno la luna e le stelle. Ci sembrava di avere la natura e il mondo intero contro.

    Le finestre erano strette e quando qualcuno ci si soffermava accanto troppo a lungo, gli altri gli urlavano immediatamente di allontanarsi in modo da non bloccare la poca aria che entrava.

    Una volta qualcuno riuscì a intravedere uno scorcio di paesaggio e annunciò: «Siamo in Polonia!».

    Anche mio padre guardò fuori dalla finestra. «Siamo in Polonia», confermò.

    L’essere umano fa fatica a credere di essere stato condannato a morte senza alcun motivo razionale, senza alcuna colpa. La nostra mente non riesce a comprendere una cosa del genere. Forse è per questo che, nonostante quel raccapricciante viaggio in treno, conservavamo ancora un barlume di speranza e di ottimismo.

    Quando ci avevano trascinato via dalle nostre case, tra gli ebrei si era già sparsa la voce secondo la quale ci avrebbero portato dall’altra parte del Danubio, in un posto chiamato Dona-tul (che in ungherese significa oltre il Danubio), dove l’acqua stagnante aveva creato una torba nera. Mio padre e i vicini credevano che ci avrebbero affidato il compito di drenare l’acqua dal suolo e dare il via a una forma di agricoltura avanzata ed erano sicuri che saremmo riusciti nell’impresa. Oggi so che in quel periodo dall’Ungheria partivano quattro convogli ogni giorno, ciascuno con circa tremila ebrei a bordo. In totale, centoquarantasette treni per circa quattrocentocinquantamila ebrei ungheresi.

    Nei mesi precedenti avevamo già subìto episodi di antisemitismo. La situazione nel ghetto di Munkács era stata tragica e avevamo sentito dire che degli ebrei erano stati prelevati dai villaggi ucraini, portati vicino a delle fosse e fucilati sul posto. Anche così, se qualcuno su quel treno ci avesse detto: Ascoltate, nel giro di un’ora dall’arrivo alla fermata finale, la maggior parte di voi morirà, l’avremmo guardato come un folle.

    Di tanto in tanto durante il viaggio ci fu qualche episodio spiacevole. In uno di questi, un ragazzo di quattordici anni legò le sue scarpe alle sbarre della finestra. Con l’ondeggiare del treno si staccarono e caddero, colpendo con forza mia madre all’occhio. Avevano le fibbie di metallo e mia madre cominciò a piangere. Mio padre esaminò la ferita, le diede un fazzoletto e le disse che non era così grave e che il giorno dopo i segni sarebbero scomparsi. Ma i passeggeri, furiosi, iniziarono a prendersela con il ragazzo. Volevano picchiarlo. A mio padre dispiacque per lui. Cercando di riportare la pace, si rivolse alla folla inferocita e disse: «Ci penso io. So come educare i ragazzi». E così, con grande difficoltà, riuscì a impedire agli altri viaggiatori di picchiarlo. Il ragazzo era l’unico figlio di una madre vedova e per il resto del viaggio mio padre lo prese sotto la sua ala, impedendo agli altri passeggeri di fargli del male. Mia madre si riprese, anche se l’occhio restò livido e gonfio.

    Il viaggio fu così tremendo che è impossibile descriverlo a parole, ma per fortuna non morì nessuno. A destinazione arrivammo tutti e ottantaquattro, e aspettavamo nervosamente che ci aprissero le porte.


    ¹ Oggi questo villaggio fa parte dell’Ucraina e si chiama Veliki Komjaty.

    Arrivo ad Auschwitz

    Quell’attesa mi sembrò infinita. I passeggeri cercavano di zittirsi a vicenda. «Shhh… shhh… Fateci sentire che dicono là fuori, vogliamo capire in che lingua parlano!». Ma non sentivamo niente. Non avevamo la più pallida idea di dove ci trovassimo.

    All’improvviso le porte si aprirono con uno stridio assordante e sentimmo delle voci in tedesco. Il vagone fu inondato da una ventata d’aria fresca che andò a mescolarsi al fetore. Spalancai le narici e inspirai a pieni polmoni. Un raggio di sole si faceva strada sopra alle teste dei miei compagni di viaggio. Era una giornata meravigliosa, il cielo limpido. Da dove saltava fuori una mattinata così bella e soleggiata?

    Dei ragazzi di quattordici o quindici anni con delle uniformi da detenuti a strisce blu e grigie e degli identici copricapi di stoffa saltarono sul vagone e ci dissero di scendere. «Non portatevi niente dietro. Lasciate qui tutte le vostre cose».

    «Bambini, svelti. Mettetevi tre magliette, una sopra l’altra. Dobbiamo lasciare tutto qui. Ma quello che avete addosso potete tenerlo», disse mia madre a me e ai miei fratelli. Quindi ci aiutò a tirare fuori i vestiti dai nostri fagotti e a infilarceli.

    I ragazzi con le uniformi ci esortarono a scendere il più in fretta possibile. Si rifiutavano di parlare. Sembrava avessero ricevuto l’ordine di non proferire parola, di non rivelare nulla sul luogo in cui eravamo arrivati. Si limitavano a ripetere: «Fuori! Fuori!».

    Mio padre ne acciuffò uno in un angolo del vagone, gli mise le mani sulle spalle e gli chiese dove eravamo. Il ragazzo borbottò qualcosa. Forse gli disse la verità, perché fino a quel momento mio padre aveva continuato a ripetere a tutti i passeggeri di indossare vestiti caldi e tenersi il pane in tasca – se ne avevano ancora. Ma dopo aver parlato con quel ragazzo cambiò atteggiamento. «Non c’è bisogno di prendere niente. Dobbiamo uscire. Ci porteranno tutto più tardi», disse.

    «Ma come fanno a sapere qual è il mio fagotto?», ribatté qualcuno. Non ho proprio idea di che cosa stesse pensando il mio buon padre in quel momento, di cosa stesse passando. Anche se sapeva che eravamo arrivati in un posto dove gli ebrei venivano uccisi, non c’era niente che potesse fare – di certo non organizzare una ribellione e nemmeno fuggire. I passeggeri

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