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Le 7 regole: Il Metodo Universale per giudicare un ristorante
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E-book226 pagine4 ore

Le 7 regole: Il Metodo Universale per giudicare un ristorante

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Info su questo ebook

Un libro che svela i segreti dei critici gastronomici e frena la recensione selvaggia e anonima. Che sta dalla parte del cliente e anche da quella del cuoco. Che cambierà per sempre il modo di "mangiare fuori".
Il libro giusto se:
- ti viene voglia di dare un voto ogni volta che esci dal ristorante
- pensi di riconoscere cosa è Buono con la B maiuscola
- ti sei sentito frustrato o confuso per aver pagato un conto troppo alto o per non aver avuto il coraggio di mandare indietro un piatto
- ti senti un cliente consapevole e sai che il giudizio sul cibo ha una portata economica e sociale
- fai il ristoratore o il cuoco e almeno una volta, leggendo una recensione, ti sei chiesto: "Che diavolo di criteri ha applicato quello lì, per darmi un simile giudizio?"
- ti domandi se esistano delle regole che aiutino a riconoscere il locale perfetto e la buona cucina
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2019
ISBN9788868993719
Le 7 regole: Il Metodo Universale per giudicare un ristorante
Autore

Roberta Schira

Roberta Schira è nata a Crema, è laureata in Lettere e si occupa di tutto ciò che ruota intorno al cibo. Autrice di patinati libri di ricette, food stylist innovativa, temuta critica gastronomica, collabora con diverse testate nazionali. Per Ponte alle Grazie ha pubblicato L’amore goloso (2005). Piaceri in piazza Gourmand è il suo primo romanzo.

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    Le 7 regole - Roberta Schira

    Le 7 regole

    Tutti oggi danno voti e giudizi a ricette, menu, chef e ristoranti; le guide gastronomiche non bastano più. Ma in questo universo di foodies, gourmet e recensionisti selvaggi, di chi ci si può fidare? La risposta è che esiste un modo per riconoscere il Buono con la B maiuscola, al di là dei propri gusti e preferenze. E questo Buono non è fatto solo di ricette più o meno bene eseguite, ma di molti altri ingredienti e della loro combinazione. L’esperienza gastronomica non è fatta solo di cibo. Una buona cena può risultare irrimediabilmente rovinata da un servizio scadente; il locale in apparenza più raffinato può rivelarsi solo pretenzioso; uno chef merita più di altri perché… non si limita a cucinare. In questo libro prezioso, utile e divertente Roberta Schira, con l’autorevolezza di chi scrive professionalmente da anni di cultura e critica gastronomica, svela le 7 regole universali e sempre valide che ci permettono di riconoscere e valutare la bontà di un’esperienza gastronomica e quindi di giudicarla a suon di voti, da 0 a 10. A lei si affiancano, in un’animata tavola rotonda sulla critica culinaria e il futuro della cucina, esperti del mondo del cibo, dell’economia, della cultura.

    Roberta Schira

    Roberta Schira è scrittrice, pubblicista e gourmet. Da tempi non sospetti scrive intorno al cibo usando occhi sempre diversi: costume, psicologia, narrativa e condizione femminile. Ha pubblicato una dozzina di libri, dai trattati di antropologia alimentare al romanzo, dalla Cucinoterapia sino al Bon ton a tavola, l’ultimo uscito con Salani. Per la sua formazione è considerata ‘psicologa del gusto’; scrive di cultura e critica gastronomica per il Corriere della Sera e altre testate nazionali. È tra le poche firme italiane del prestigioso sito di cultura del cibo www.finedininglovers.com, promotore dell’evento The Fifty Best Restaurants in the World. Ha fatto suo il motto di Eleanor Roosevelt: «Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo permesso».

    Roberta Schira

    Le 7 regole

    Il Metodo Universale

    per giudicare un ristorante

    © Roberta Schira

    © 2019 VandA.ePublishing

    Via Cenisio, 16 - 20154 Milano

    ISBN: 978-88-6899-371-9

    Prima edizione ebook: ottobre 2019

    Grafica di copertina: Irene Carminati

    www.vandaepublishing.com

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    facebook.com/vandaepublishing

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Vi sono individui ai quali la natura ha negato una finezza di organi o una forza d’osservazione senza le quali anche i cibi più succulenti passano inosservati.

    … Ma c’è una classe privilegiata che una predestinazione fisica e strutturale chiama ai godimenti del gusto.

    Anthelme Brillat-Savarin, 1825

    L’anima di un gourmand sta tutta nel suo palato: egli non vive che per mangiare; nella sua stupidità, non trova pace che a tavola, non riesce a giudicare che i piatti; lasciamolo a questo compito.

    Jean-Jacques Rousseau, 1775

    Se almeno una volta…

    Se almeno una volta nella vita hai consultato una guida gastronomica e ti sei affidato speranzoso alle sue indicazioni, o l’hai consultata come se fosse una Bibbia e sei rimasto deluso; se ogni tanto mangi fuori casa e ti senti confuso quando ti chiedono un parere; se ti viene voglia di dare un voto ogni volta che esci dal ristorante, se hai curiosato nei blog di cibo o hai pensato ‘anch’io’. Se presumi di sapere tutto di cucina perché non ti sei perso una puntata di MasterChef e se almeno una volta nella vita hai frequentato un corso base e poi hai pensato di aprire un piccolo bistrot su una spiaggia esotica. Se fai il ristoratore, il cuoco di professione, il cameriere, il lavapiatti e almeno una volta nella vita leggendo una recensione ti sei chiesto: « Che diavolo di regole ha applicato quello lì per darmi un simile giudizio? » Se gli amici ti invitano a cena a casa loro e alla fine ti chiedono un voto. Se sei uno che legge le recensioni dei ristoranti, ma non sei mai d’accordo e sotto sotto pensi che tu saresti più bravo; se almeno una volta nella vita hai guidato per chilometri, all’alba, per iniziare la giornata con una brioche decente, se pensi di riconoscere cosa è Buono con la B maiuscola. Se almeno una volta nella vita hai consultato TripAdvisor prima di prenotare un tavolo al ristorante; se almeno una volta hai provato invidia per il potere di un critico gastronomico, se hai sognato di mangiare in un tre stelle gratis. Se almeno una volta nella vita hai invidiato chi sa dire cose intelligenti sul cibo, se ti sei sentito frustrato o confuso per aver pagato un conto troppo alto o per non aver avuto il coraggio di mandare indietro un piatto. Se almeno una volta nella vita hai sognato di trovare delle regole che ti aiutino a riconoscere il locale perfetto e la buona cucina…

    Se ti sei riconosciuto in almeno tre di questi casi, allora ti conviene leggere questo libro.

    « Mangiato bene? »

    « Come hai potuto consigliarmi di andare in quel postaccio e dire che si mangia bene? Mi hanno portato una brodaglia insipida e un pezzo di gelatina ghiacciata accanto alla carne. Voto pessimo ».

    « Ho deciso: chiedo il part-time, apro un blog di ricette vegane e poi scrivo la recensione di qualche locale. In fondo cosa ci vuole, a fare il critico gastronomico? Nulla, basta riuscire a piazzare qualche articolo, parlare male di un cuoco famoso, e il gioco è fatto. Così potrò andare in giro a mangiare a sbafo ».

    La maggior parte delle persone non sono preparate a riconoscere la vera buona cucina. Spesso rifiutiamo ciò che non capiamo. Succede anche con i vini, i vestiti, i libri, i film, e pure con gli esseri umani.

    Non si diventa esperti di ristorazione in un giorno; non servono (solo) regole scritte per giudicare un piatto. E non basta leggere un libro per capire di cibo.

    Non basta, ma è un buon inizio.

    Stazione della metropolitana di Enfant Plaza, Washington D.C.: in una fredda mattina del gennaio 2007, un uomo inizia a suonare il violino. La gente sembra indifferente, ma lui continua: i pezzi si susseguono, una ciaccona di Bach, l’Ave Maria di Schubert, un brano di Manuel Ponce, uno di Massenet e di nuovo Bach. I passanti hanno fretta, ma qualcuno si ferma ad ascoltare e qualche spicciolo finisce nel piattino. Il giovane manager John David Mortensen dirà: « Non so perché mi sono fermato e ho dato dei soldi a quel musicista da strada. Non mi era mai successo ». Anche Evan, tre anni, punta i piedi e si rifiuta di proseguire, affascinato dalla musica. La mamma lo trascina via e dichiara: « Avevo fretta, ma mio figlio era inspiegabilmente attratto, non riuscivo a staccarlo. Sembrava ipnotizzato ».

    Il giovane suonatore era il celebre violinista Joshua Bell, e lo strumento il suo magnifico Stradivari del 1713, del valore di quasi quattro milioni di dollari. La performance in incognito era stata organizzata dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione e il gusto. Le questioni sul tavolo erano: « In un ambiente inusuale, a un’ora inconsueta, le persone sono ugualmente in grado di percepire la bellezza? Una volta riconosciutala, si fermano per apprezzarla? Riconoscono il talento anche fuori dal suo contesto? »

    Proviamo ad applicare queste domande alla sfera del cibo e della ristorazione. In un ambiente qualsiasi e a un’ora inappropriata, siamo ugualmente in grado di percepire la bontà di un cibo? Riconosciamo la bontà di un piatto senza averne una conoscenza specifica e fuori da un certo contesto? Vi è mai capitato di fermarvi per strada e di rimanere ‘fulminati’ da un panino con la porchetta?

    Cercando la risposta a queste domande – ci ho pensato un po’, direi gli ultimi dieci anni dei miei venti da critico gastronomico – ho formulato una mia tesi, e in questo libro cercherò di dimostrarla.

    La mia tesi è che il Buono, come il Bello, è universalmente riconoscibile, quindi il Buono è oggettivo. Le persone che si sono fermate ad ascoltare Joshua Bell hanno riconosciuto la bellezza della musica, l’eccellenza dell’interprete e la straordinaria qualità dello strumento. Applicando alcune regole all’esperienza gastronomica noi siamo in grado di esprimere un giudizio, e di farlo con un alto grado di oggettività: questo perché si tratta di regole universali, cioè applicabili ovunque, a tutte le cucine del mondo.

    Chi giudica cosa

    Andare al ristorante è come assistere a una rappresentazione teatrale. Il testo dello spettacolo è sempre lo stesso, ma la messa in scena cambia ogni sera, perché anche se i piatti proposti dalla carta del menu sono stati eseguiti decine di volte, ciascuno possiede sempre un dettaglio che lo differenzia dallo stesso piatto preparato la sera precedente: proprio come una battuta che, durante la replica, non ha mai gli stessi esiti della ‘prima’.

    Mangiare fuori casa è uno dei più alti atti di fiducia. Noi mettiamo la nostra vita nelle mani di un estraneo il quale può fare di noi quello che vuole: ucciderci o farci salire in Paradiso. L’esperienza gastronomica è una delle più alte, gratificanti, emotivamente impegnative. Un’esperienza che merita tutto il nostro rispetto e attenzione, un pezzetto di vita che non si può liquidare con un ‘buono/cattivo’.

    L’esperienza gastronomica inizia quando decidiamo in quale ristorante andare e con chi condividere il pasto, perché nessun cibo è solo un coagulo di molecole e calorie; inizia quando investiamo emotivamente sulla condivisione di quel cibo-simbolo. Continua quando prenotiamo, sperando di ottenere un buon tavolo, e tocca la prima tappa nel momento in cui si esce dal locale e ci si avvia verso l’automobile dopo avere pagato il conto. Prosegue sulla strada di casa, quando i commensali commentano il pasto condiviso, e si interrompe solo per qualche ora. Perché l’esperienza gastronomica dura molto di più. Almeno sino alla mattina successiva, quando si ripensa allo chef con riconoscenza o con rancore. Ma non finisce qui: si rinnova ogni volta che qualcuno, riferendosi a quel ristorante, chiederà: « Mangiato bene? » E lì si svela l’arte, lì si apre – talvolta – il baratro.

    Vediamo i casi estremi. Da una parte c’è l’autentico gourmet, il colto ospite uso a riconoscere il meglio perché lo ha assaggiato più volte, il competente della tavola, il principe del palato; dall’altra il culinariamente incolto, il commensale schiavo del quanto e ignaro del come e del cosa.

    Il primo trascinerà l’interlocutore in un racconto denso di particolari raffinati, ricordando la forma di quel bicchiere di cristallo, il nome di quell’allevatore di pollame, saprà descrivere l’altalenarsi dei sapori e il gioco delle consistenze sul suo celestiale palato, lo sbalordirà elencando – senza sbagliare un colpo – tutti gli ingredienti di quel tal ripieno e un’infinità di dettagli carpiti qua e là durante la cena: dalla grammatura della tovaglia di Fiandra, alle movenze garbate della cameriera nel portare il conto; dall’annata del vino intuita all’istante, al nome curioso di quell’erba aromatica che – incredibile – neppure il cuoco ricordava più.

    Il secondo, alla fatidica domanda: « Mangiato bene? » risponderà con un laconico « Sì » oppure « No » a seconda delle circostanze. Al massimo sfodererà un paio di commenti sull’abbondanza delle porzioni o sul prezzo.

    Questi sono gli estremi. In mezzo, tra loro, c’è una miriade di altri giudizi. Sempre più spesso, espressi per iscritto e consegnati al web. E c’è il mio lettore di riferimento: che vorrebbe dire la sua ma non è ancora in grado, e vorrebbe orientarsi.

    Pensiamo ad esempio al successo planetario di Trip-Advisor, uno strumento che permette a chiunque di esprimere un giudizio su un ristorante o un albergo. La sua popolarità è cresciuta al punto che gli adesivi con scritto Consigliato da TripAdvisor affiancano quelli delle più popolari guide di viaggio sulle porte di hotel e ristoranti.

    L’idea è geniale. Si basa sul principio del cosiddetto USG (user-generated content): i contenuti sono prodotti dagli stessi utenti, che ne sono quindi a un tempo i creatori e i fruitori. Lasciamo da parte le polemiche sulla trasparenza di queste valutazioni, e sul fatto che siano anonime (ma non ancora per molto). La maggior parte degli utenti sono persone reali, che amano uscire a cena e che, una volta a casa, redigono e inviano diligentemente la propria recensione. Sulla falsariga di questo format, una quantità di altri siti e di blog nascono ogni giorno usando lo stesso principio: vado al ristorante, vado in un albergo e scrivo sul web come mi sono trovato.

    Anche su questo argomento esistono due scuole di pensiero opposte: c’è chi crede che sia un suo diritto scrivere liberamente il proprio giudizio, perché ritiene che non sia necessaria alcuna particolare preparazione. E chi pensa che i pareri attendibili siano solo quelli espressi da persone competenti e preparate, che hanno un ‘nome’ creato dall’esperienza sul campo.

    Ma anche tra i milioni di persone che si collegano in tutto il mondo ogni mese per scoprire la web reputation di ristoranti e alberghi c’è chi vorrebbe un’indicazione oggettiva, universale. E allora chiediamocelo: con quali criteri sono formulati quei giudizi? Nessuno.

    Se c’è una cosa che fa diventare furibondi chef e ristoratori è trovarsi di fronte all’incapacità di chi scrive di cibo, all’ignoranza di chi li giudica. Conosco bene lo sguardo di disprezzo di certi chef nei confronti di sedicenti critici, titolari di blog dall’improbabile grafica e responsabili del deterioramento d’immagine della categoria. Sapete cosa fa ogni mattina un cuoco o ristoratore, appena presa coscienza del nuovo giorno? Digita compulsivamente gli indirizzi web dei blog di food più letti e controlla su Google se è uscita qualche nuova recensione sul suo locale. Dialogando ogni giorno con la categoria degli chef, mi sono fatta la convinzione che chiunque di loro, dal tristellato al porchettaro ambulante, sarebbe felice di sottoporsi al giudizio sul suo operato se fosse certo che il giudizio in questione derivi da criteri il più possibile universali, condivisi. Gli stessi per tutti, critici e clienti.

    Ciò non toglie che molti blog sul cibo siano fonte preziosa di spunti, informazioni e, soprattutto, terreno di dibattito. Non nego di consultare io stessa sul web i pareri di persone o testate cui mi fido, e di verificare anche l’opinione della cosiddetta ‘gente comune’. Mi serve per sapere se un dubbio che ho avuto durante una cena trova conferma nel parere di qualcun altro, per capire se il conto sbilanciato è una regola, oppure se il servizio un po’ sciatto è un caso isolato o un’abitudine.

    Consultandoli, mi sono chiesta perché le centinaia di guide e blog che in ogni Paese esprimono pareri sui locali non rendano pubblici i criteri di giudizio su cui si basano. Si tratta di una scelta, la scelta di tenere nascosti gli strumenti di analisi per tutelare il proprio ‘potere’, oppure semplicemente perché nessuno si è mai preso il disturbo di definirli, codificarli, analizzarli e metterli per iscritto? Quasi tutte le guide gastronomiche internazionali dichiarano per amor di trasparenza che gli elementi di giudizio presi in considerazione da un ispettore sono: cucina, ambiente, servizio e cantina. La guida Michelin va un poco più a fondo e tiene in considerazione qualità ed equilibrio degli ingredienti, tecnica della preparazione, creatività dello chef. ‘La rossa’, che considero autorevole, ha tuttavia il difetto di prendere come riferimento prevalentemente il modello francese. Scriveva Frank Bruni, uno degli storici ex critici gastronomici del New York Times: « Le tipologie di ristorante che la Michelin segnala in Italia hanno sempre qualcosa di fastidiosamente francese ». Fortunatamente, le cose sono un po’ cambiate e anche la Michelin si sta adattando a nuovi standard di riferimento.

    Per tutte le altre guide valgono i soliti, vaghi canoni; al limite, varia l’ordine di importanza, la gerarchia dei singoli elementi di giudizio, ma il contenuto non cambia: i criteri sono quelli. La ‘cucina’ sta alla base di tutti: ma cosa è esattamente una ‘buona cucina’? Peraltro, in questi anni il mondo del cibo e della ristorazione ha compiuto cambiamenti radicali – nulla è più in evoluzione della cucina, forse solo la lingua – mentre quegli elementi sono sempre uguali da decenni, senza che nessuno li abbia analizzati in profondità né messi in discussione. Qual è esattamente la cucina che dobbiamo giudicare? Come deve essere il servizio per farci sentire bene? Quando un ingrediente è di qualità?

    È come se le premesse a queste domande si dessero per scontate.

    Più in generale: non esiste una teoria della cucina e della ristorazione, né una scuola che aiuti a giudicare e riconoscere un buon ristorante, e quindi neppure un manuale per orientarsi. Non esiste qualcosa di scritto che prima inquadri teoricamente il concetto di ‘critica’ e poi entri nella fase pratica sbirciando nelle cucine dei cuochi e nelle teste degli ispettori delle guide e dei food writers. Non esiste un albo di professionisti che, dopo che avrai conseguito il diploma, farà di te un ‘palato d’oro’, un ‘critico’, un ‘esperto’.

    Diciamo che è sempre bene cominciare tenendo a mente i verbi fondamentali, che poi diventano il Verbo del gourmet: assaggiare, studiare, fare domande, comparare. Direi che il ripetersi all’infinito di queste quattro azioni potrebbe fare di chiunque un onesto addetto al settore, un appassionato o, semplicemente, un comune mortale cui piace mangiar fuori. Poi c’è la predestinazione – come sostiene Brillat-Savarin

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