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La prigioniera di Saint Lazare: Rocambole XI
La prigioniera di Saint Lazare: Rocambole XI
La prigioniera di Saint Lazare: Rocambole XI
E-book327 pagine4 ore

La prigioniera di Saint Lazare: Rocambole XI

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Info su questo ebook

Antoinette, la bella orfanella della baronessa Miller, è finita nella trappola tesale da suo zio, il visconte de Morlux. Arrestata come ladra, vinene rinchiusa nel carcere femminile di Saint Lazare.
Per Rocambole, nella sua prima missione al servizio del bene, inizia una corsa contro il tempo per salvare la ragazza prima che il piano diabolico di de Morlux si compia.
Ma salvare Antoniette e restituirle il suo nome non sarà facile, e Rocambole deve affrontare Timoléon, trovando per una volta un avversario forse alla sua altezza…
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2022
ISBN9791221310337
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    Anteprima del libro

    La prigioniera di Saint Lazare - Alexis Ponson du Terrail

    Copertina

    67

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1

    I drammi di Parigi. Rocambole vol. 11

    Il Club dei Fanti di Cuori, parte prima Rocambole vol. 111

    Il Club dei Fanti di Cuori, parte seconda Rocambole vol. 1v

    La vendetta di Baccarat. Rocambole vol. v

    Una figlia di Spagna. Rocambole vol. v1 La contessa Artoff. Rocambole vol. v11

    La morte del selvaggio. Rocambole vol. v111

    Il ritorno di Baccarat. Rocambole vol. IX

    La resurrezione di Rocambole. Rocambole vol. X

    Pierre Alexis Ponson du Terrail, La prigioniera di Saint Lazare

    (Rocambole vol. XI) 1a edizione Landscape Books, marzo 2022

    Collana Aurora n° 67

    © Landscape Books 2022

    Tit. originale: La Resurrection de Rocambole - Tome II: Saint Lazare

    Nuova edizione italiana a cura di Guido Del Duca

    www.landscape-books.com

    ISBN 979-12-21310-33-7

    Realizzazione a cura di WAY TO ePUB

    Ponson du Terrail

    La prigioniera di Saint Lazare

    Rocambole XI

    Riassunto degli episodi precedenti

    Sono passati dieci anni dal fallimento degli intrighi di Rocambole per diventare Grande di Spagna. Ora il nostro eroe è un condannato ai lavori forzati e ha per nome solo un numero: Centodiciassette. In questi anni Rocambole è profondamente cambiato, ha rinunciato al crimine e cerca un modo per redimersi.

    Il modo arriva quando il suo compagno di catena, il gigantesco Milon, gli racconta di una congiura di cui sono state vittime due bambine che erano in sua custodia, anni prima. Rocambole, con l'aiuto della misteriosa russa Vanda, evade dal carcere in compagnia di Milon e di altri due forzati, Jean il Macellaio e Berretto Verde.

    A Parigi, intanto, una delle due bambine ormai cresciute, la giovane e bella Antoinette, viene corteggiata da Agénor de Morlux, che prima vorrebbe solo sedurla, ma poi si innamora di lei e decide di sposarla. Antoinette è povera, ma non sa di essere la figlia, ed erede, della baronessa Miller, uccisa e derubata dai suoi fratellastri. Uno di questi fratellastri è il barone de Morlux, padre di Agénor, che scoprendo la relazione del figlio con Antoinette teme per la propria fortuna.

    Rocambole è nel frattempo arrivato a Parigi e, con Milon, recupera il diario della baronessa Miller, venendo così a conoscenza di tutto il complotto, mentre l'incontro fortuito con un medico gli dà la conferma della reponsabilità dei de Morlux nell'assassinio della sorellastra. Antoinette e la sorella (che si trova in Russia come dama di compagnia) sono però introvabili perché nel frattempo hanno cambiato nome e sono state adottate da madame Raynaud, la vecchia istitutrice dell'orfanotrofio in cui erano state lasciate dopo l'ingiusta condanna di Milon.

    Il barone del Morlux, insieme al fratello, il visconte Karle, assumono il losco faccendiere Timoléon e ordiscono un piano per togliere di mezzo Antoinette: mentre Agénor viene allontanato da Parigi con una scusa, la ragazza viene portata con l'inganno in un covo di ladri ed è vittima di una retata. Antoinette viene arrestata dalla polizia, è accusata pretestuosamente dai presunti complici (prezzolati da Timoléon) e una straccivendola la riconose come sua figlia: a quel punto per lei non possono che aprirsi le porte di Saint Lazare, il carcere femminile.

    I.

    Come era successo che monsieur Agénor de Morlux, che avevamo lasciato alle sei di sera mentre si accomiatava da Antoinette sulla soglia della porta e le diceva A domani, era partito due ore dopo per la Bretagna? È quello che stiamo per spiegarvi.

    Il visconte Karle de Morlux aveva ammirevolmente sistemato le sue batterie, in combutta con mastro Timoléon, e non era certo un uomo disposto a compromettere la partita che stava giocando per una qualsiasi negligenza. A quel punto, facendo scomparire Antoinette, sarebbe stato estremamente imprudente da parte sua lasciare Agénor a Parigi, dal momento che coloro che si fossero preoccupati per tale scomparsa non avrebbero mancato d’informarsi presso di lui.

    Agénor aveva l’abitudine di passare ogni giorno da casa, attorno alle sei, vuoi per cambiarsi d’abito quando non cenava al circolo, vuoi per prendere visione della corrispondenza. Anche quel giorno si era comportato come al solito e, dopo aver lasciato Antoinette, si era recato direttamente in rue de Suréne. Giunto all’ingresso, rimase molto sorpreso nel vedere il calesse a due cavalli dello zio Karle. Uno dei due palafrenieri gli disse:

    «Il signor visconte aspetta il signor barone al piano di sopra».

    Con il cuore in tumulto, Agénor salì velocemente le scale e raggiunse l’appartamento al mezzanino dove conduceva la sua vita da scapolo. Il signor visconte Karle de Morlux aspettava il nipote nello studio, le gambe accavallate davanti al camino e un sigaro in bocca, come se avesse avuto trent’anni.

    «Ecco il nostro giovane innamorato», esordì. «Ammetti che non ti aspettavi proprio di trovarmi qui, esatto?»

    «No, zio».

    «E non immagini cosa sono venuto a fare?»

    «No, zio».

    «Sono venuto a parlarti del tuo matrimonio».

    Agénor arrossì.

    «Quindi mio padre vi ha raccontato tutto?»

    «Sì», rispose Karle, «e sono deliziato...»

    «Del mio matrimonio?»

    «Quantomeno della tua intenzione di mettere la testa a posto. Quando sarai accasato a dovere, tuo padre e io dormiremo sonni tranquilli e non avremo più paura di vederti compromesso con qualche signorina dalla dubbia reputazione che finirebbe col disonorarti».

    «Oh, caro zio», esclamò Agénor, «se sapeste com’è carina quella ragazza!»

    «Meglio cosi!»

    «E anche intelligente...»

    «Meglio ancora!»

    «Quindi approvate il mio comportamento?»

    «Assolutamente. E inoltre non te l’ho già dimostrato?»

    «Che cosa?», disse Agénor strabuzzando gli occhi.

    «Oggi non sei passato da tuo padre?»

    «Certo che ci sono passato».

    «Strano... avrebbe dovuto dirti che mi ero già occupato del protetto della tua Antoinette... di quel tale Milon».

    «Ah, è vero, caro zio e ve ne ringrazio. Comunque temo che vi abbiano mal informato».

    «Che cosa?», esclamò monsieur de Morlux con un sussulto.

    «Sì, zio... credo che non ci sia più bisogno di domandare la grazia per il vecchio Milon».

    «Non capisco».

    «Dunque», proseguì Agénor, «dovete sapere che stasera ho incontrato mademoiselle Antoinette... oh, per puro caso, credetemi... dunque, l’ho incontrata e mentre stavamo chiacchierando lei ha gettato un urlo e mi ha indicato un tale in una carrozza... era Milon!»

    Monsieur Karle de Morlux fece un balzo sulla sedia ma Agénor non ci fece caso e proseguì: «Mademoiselle Antoinette e io siamo saliti in carrozza e abbiamo subito seguito la vettura in questione, ma ci è stato impossibile raggiungerla e abbiamo finito col perderla di vista».

    Monsieur Karle de Morlux tirò un sospiro di sollievo. Mentre il nipote parlava, per un attimo aveva creduto che tutto fosse perduto! Il fatto che Milon si trovasse a Parigi, potesse riallacciare i contatti con Antoinette e venisse presentato al nipote, costituiva l’annientamento completo di tutti i suoi piani, soprattutto pensando che Milon aveva alle spalle quell’individuo temibile di cui gli aveva parlato Timoléon e che rispondeva al nome di Rocambole.

    «Ma», riprese Agénor, mentre monsieur de Morlux ritrovava la consueta impassibilità, «lo ritroveremo, non preoccupatevi. Parigi non è poi così grande per un parigino come me».

    «Mi stai dicendo qualcosa di veramente straordinario», commentò flemmatico il visconte Karle.

    «Perché, zio?»

    «Per due motivi. Se la persona che avete visto è veramente questo Milon, come mai si trova a Parigi?»

    «Forse è evaso».

    «Ma allora perché non se ne sa niente alla direzione delle prigioni?

    L’osservazione sconcertò alquanto il giovane Agénor.

    «La tua Antoinette», riprese monsieur Karle de Morlux, «forse sarà stata tratta in inganno da qualcuna di quelle somiglianze che sono veramente strabilianti».

    «Può darsi che abbiate ragione, zio».

    «Comunque», proseguì monsieur de Morlux. «potrai accertartene al tuo ritorno».

    «Al mio ritorno... che cosa intendete dire?»

    Il visconte scoppiò a ridere.

    «Non penserai mica che sia venuto sin qui solo per complimentarmi per i tuoi progetti matrimoniali...»

    «Ma, zio...»

    «Sono venuto per parlarti d’affari, e di affari molto importanti».

    Agénor aggrottò la fronte.

    Monsieur de Morlux estrasse l’orologio dal panciotto e disse: «Partirai per Rennes alle otto e quarantacinque».

    «Siete impazzito, zio?»

    «Dove arriverai domani», proseguì in tono gelido monsieur de Morlux, «e dove trascorrerai la serata e la mattinata dell’indomani in compagnia della tua nonna materna, ha assolutamente bisogno di vederti, e tornerai dopodomani. Dopotutto la tua Antoinette non morirà per aver trascorso sessanta ore senza vederti».

    «Ma, a essere sinceri, caro zio», replicò Agénor, «questo viaggio così precipitoso mi sembra insensato».

    «È possibile, ma certamente la motivazione è più che razionale. Tua nonna è ammalata, molto ammalata e ha scritto a tuo padre che desidera vederti. C’è di mezzo un’eredità... non fare il bambino».

    «Comunque non capisco perché non potrei rimandare questo viaggio».

    «Neanche di ventiquattro ore. Credimi sulla parola, non intendo dirti di più. Va’ a trovare tua nonna, torna e fra quindici giorni sposerai Antoinette. Che cosa ne dici?»

    «Ma... dovrei almeno scrivere due righe a mio padre».

    «Tuo padre è già stato informato. Vedrai che, una volta a Rennes», concluse Karle de Morlux, «capirai che tuo padre e io avevamo ragione. Tua nonna è arrivata alla fine dei suoi giorni e, dal momento che non può vedere tuo padre, sarebbe capacissima di diseredarlo».

    «D’accordo», disse Agénor, «partirò. Ma mi consentirete almeno di scrivere ad Antoinette?»

    «Oh, fa’ pure».

    Agénor si mise alla scrivania e scrisse una lunga lettera alla ragazza mentre Karle de Morlux elucubrava che tale missiva, se fosse stata affidata alla posta, non sarebbe arrivata prima dell’indomani mattina.

    Ma Agénor, dopo averla sigillata, suonò per consegnarla al domestico personale.

    «Lascia perdere», intervenne monsieur de Morlux, «me ne occuperò io».

    «Voi!»

    «La consegnerò personalmente domattina. Costituirà un buon pretesto per vedere la tua futura consorte».

    «Come siete gentile, caro zio!», commentò Agénor.

    Subito dopo il giovanotto si vestì per il viaggio mentre il cameriere gli preparava i bauli.

    Un’ora dopo il portiere del palazzo saliva in una carrozza e portava i bauli alla ferrovia mentre monsieur Karle de Morlux dava un passaggio al nipote sul suo calesse.

    Agénor non aveva ancora cenato. Monsieur Karle de Morlux lo condusse al ristorante della stazione, gli fece buttar giù un bicchiere di buon vino e un’ala pollo e non apparve soddisfatto finché non ebbe messo il nipote sul treno. La locomotiva fischiò e il convoglio si mise in moto.

    Allora monsieur de Morlux risalì in calesse e rientrò a casa sua, in rue de la Pépinière, dove mastro Timoléon lo stava aspettando da oltre un’ora. Il vecchio faccendiere, come tutti quelli della sua risma, possedeva il dono di camuffarsi fino a rendersi irriconoscibile. Si era presentato in casa di monsieur de Morlux vestito da perfetto gentleman inglese e si era fatto annunciare come un amico intimo del visconte, appena tornato dalle Indie occidentali.

    «Allora?», domandò monsieur de Morlux trovandolo confortevolmente sistemato in sala d’attesa.

    Timoléon diede un’occhiata all’orologio, che indicava le nove e mezza.

    «A quest’ora tutto dovrebbe essere sistemato», dichiarò, «ma se preferite, potremmo sincerarcene di persona».

    Monsieur de Morlux e il faccendiere uscirono a piedi, come se volessero fare una passeggiata lungo il viale, e risalirono rue de la Pépinière fino a rue d’Anjou Saint-Honoré, che percorsero per tutta la sua lunghezza.

    La carrozza non stazionava più davanti al numero 19.

    «L’uccellino è partito», dichiarò Timoléon, «e ben presto sarà in gabbia».

    I due uomini si diressero verso gli Champs Elysées e Timoléon disse ancora: «Forse questa piccola spedizione vi costerà qualche ora di sonno, ma preferisco che vi sinceriate che state spendendo bene i vostri soldi».

    Così scortò monsieur de Morlux a Chaillot, nella strada in cui si trovava il commissariato di polizia.

    II.

    Mentre Agénor partiva per la Bretagna e i ladri, imbeccati da Timoléon, riuscivano a far passare Antoinette per una loro complice e assieme a lei venivano fatti salire sul cellulare, il maggiore Avatar, ovverosia Rocambole, e Milon avevano trovato il cofanetto contenente i milioni della baronessa Miller, avevano preso visione dei documenti in esso contenuti e alle prime luci dell’alba lasciavano l’edificio di rue de Grenelle al Gros Caillou per mettersi alla ricerca delle due orfanelle.

    Milon, se i suoi ricordi non lo ingannavano, era fermamente convinto che il pensionato a cui la sfortunata padrona aveva affidato le figlie si trovasse ad Auteuil ma non si ricordava né il nome della strada, né quello della direttrice del pensionato, e neppure l’insegna dell’istituto.

    «Non mi fornisci certo informazioni esaurienti», commentò Rocambole, «ma pazienza!»

    I due fermarono una carrozza di piazza e si fecero condurre a Auteuil. Mentre imboccavano rue La Fontaine, Milon, che si era sistemato a cassetta, accanto al cocchiere, lo fece fermare bruscamente dicendogli: «Adesso mi sembra di ricordare».

    «Ah!», sospirò Rocambole uscendo dalla carrozza.

    «Sì», riprese Milon, «lasciatemi camminare a piedi. Ricordo che risalivamo fino a uno spiazzo dove c’era una fontana, poi svoltavamo a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra...»

    «Andiamo», disse Rocambole.

    Seguiti dalla carrozza, risalirono rue La Fontaine fino alla piazza.

    Lì Milon esitò ancora un po’.

    «Ho l’impressione», dichiarò, «che il pensionato fosse a ridosso di una chiesa».

    E inforcò rue Boileau.

    «Spingiamoci fino alla chiesa», propose Rocambole.

    Ma, dopo dieci anni, Auteuil aveva subito una notevole metamorfosi e tutt’attorno alla chiesa, che i due trovarono subito, si innalzavano edifici di recente costruzione.

    «Adesso bisogna girare a destra», disse Milon, facendo ancora qualche passo e fermandosi solo in rue du Buis.

    «Mi ricordo di un cancello e di un grande giardino che si attraversava», disse poi, «però non vedo né l’uno né l’altro, e tuttavia giurerei che il pensionato era proprio qui».

    All’ingresso di rue du Buis, un droghiere stava aprendo il suo negozio. Era un vecchio calvo e dall’aspetto sofferente.

    Ecco un uomo, pensò Rocambole, che non fa molta fortuna.

    Si avvicinò e lo salutò. Il droghiere era anche un commerciante di tabacco, come indicato dalla scritta rossa appesa sopra la sua vetrina. Rocambole domandò dei sigari inglesi. Il droghiere andò nel retro a prendere due scatole ancora intatte che appoggiò sul bancone.

    «Non mi capitano spesso vendite simili», affermò con un sospiro. «La gente di questo quartiere non naviga certo nell’oro. Siete il primo a chiedermi dei sigari così cari».

    «Dunque gli affari non vanno bene?», domandò Rocambole.

    «Vanno decisamente male; arrivare alla fine dell’anno è un’autentica impresa».

    «Siete qui da molto?»

    «Il Natale scorso sono stati diciassette anni. Il quartiere era ancora deserto».

    «Allora», dichiarò Rocambole, «se siete qui da diciassette anni, conoscerete certo tutto il circondario».

    «Difatti».

    «Da queste parti non c’è per caso il pensionato di madame Raynaud?»

    «C’era», rispose il droghiere, «ma è stato demolito e al suo posto è sorto il condominio che vedete sulla sinistra».

    «Ma la proprietaria... madame Raynaud... non ha più il suo pensionato?», domandò Milon con voce tremante.

    «No», rispose il droghiere, «gli affari le sono andati male. Ha dovuto vendere tutto...»

    «E che cosa ne è stato di lei?», domandò Rocambole

    «Non lo so. Forse è morta; comunque ad Auteuil nessuno ne ha più sentito parlare. La conoscevate?»

    «Era mia sorella», azzardò Milon.

    L’emozione che manifestò fu così autentica che il droghiere gli credette sulla parola.

    Milon proseguì: «Sono partito per l’estero una decina di anni fa e da allora non ho più avuto sue notizie».

    «State a sentire», disse il droghiere, «forse ad Auteil c’è qualcuno che potrà dirvi qualcosa, il signor Boisdureau».

    «E chi sarebbe questo monsieur Boisdureau?», domandò Rocambole.

    «Un ufficiale giudiziario».

    «Dove abita?»

    «Proprio qua a fianco, in rue Molière».

    «Molte grazie», disse Rocambole mettendosi in tasca i sigari e prendendo Milon per il braccio.

    La rue Molière non è lunga e l’insegna di un ufficiale giudiziario si vede già da lontano. Subito Rocambole scorse quella di mastro Boisdureau. Era sulla destra, alla porta di una piccola casa a un piano, i cui muri erano bianchi, le persiane verdi, e che aveva un’aria così onesta e patriarcale da far credere che ospitasse un giudice di pace. Dietro c’era un giardino con un buon vecchio albero nel mezzo e tralci di vite. Senza il cartello, il passante non avrebbe mai immaginato che la carta bollata vergata dietro queste persiane si diffondeva in tutta la città in proteste, citazioni, ordini, rapporti di sequestro e altri pezzi della stessa letteratura.

    Rocambole suonò alla porta. Venne ad aprire una ragazzona bionda, dall’accento alsaziano, ridente come un mattino di primavera.

    Non è qui, pensò Rocambole. Abbiamo frainteso il cartello. Siamo da un notaio.

    «C’è Monsieur Boisdureau?» domandò Milon.

    «Sì», disse la ragazza. «Siete venuti per un pignoramento?»

    «Sta diventando una commedia degli equivoci», disse Rocambole a Milon.

    Il vestibolo era pulito, grazioso, rivestito di carta da parati decorata. Negli angoli c’erano delle fioriere. Le porte, che si aprivano a destra e a sinistra, erano verniciate di fresco. Sulla porta di destra c’era scritto Studio. Prima che Rocambole avesse il tempo di rispondere, l’alsaziana aprì quest’ultima e disse:

    «Signore, signore! Sono qui per un pignoramento».

    L'ufficio sembrava lo studio di un piccolo possidente. C’era solo una piccola scrivania al centro e un tavolo molto piccolo nell’angolo. Appoggiato al piccolo tavolo c’era un ragazzo di quindici anni, l’unico impiegato di monsieur Boisdureau. Dietro la scrivania, monsieur Boisdureau in persona. L’aspetto di Boisdureau era sorprendente quasi quanto la sua casa. Era un uomo piccolo, rotondo, calvo, sorridente, di mezza età, con un naso leggermente rosso, ma con un occhio vivace e ben tagliato e un labbro sensuale e pronunciato.

    «Monsieur, senza dubbio siete venuto per parlarmi di affari e soltanto fino a ieri mi sarei messo a vostra disposizione, ma oggi è un altro paio di maniche: lo studio è chiuso».

    «È forse festa?», chiese Rocambole, che non ricordava bene che giorno fosse.

    «No, no», rispose l’omettino concedendosi un’abbondante presa di tabacco. «Non lavorerò oggi, né domani, né mai. Dovete sapere, signori, che sono un artista e, ai bei tempi, ho anche vinto un concorso di violino al Conservatorio… quella era vita ma, purtroppo, bisogna anche sbarcare il lunario, pensare al domani e a farsi una professione».

    «Quella del violinista?», domandò Rocambole .

    «No – quella di ufficiale giudiziario. Ho svolto questo lavoro per vent’anni, mettendo da parte onestamente una discreta fortuna».

    «Quindi avete smesso di esercitare?»

    «Sì, da ieri sera. Ho venduto la licenza e sto aspettando il mio successore per affidargli lo studio».

    «Beh, questo è un altro paio di maniche, comunque non siamo venuti per affari...»

    «E perché allora?», domandò l’ex ufficiale giudiziario, fissando i nuovi arrivati con un certo sospetto.

    Rocambole prese la palla al balzo e annunciò: «Siamo venuti a pagare un debito».

    «Benissimo», commentò l’ex ufficiale giudiziario la cui vera indole aveva già ripreso il sopravvento.

    III.

    «Monsieur», disse Rocambole fissando dritto negli occhi l’ufficiale giudiziario «in passato avete avuto a che fare con una signora che interessa vivamente a me e al mio amico».

    «È possibile», replicò monsieur Boisdureau in tono mondano, «ho avuto modo di frequentare molte donne in vita mia, soprattutto donne leggere».

    A quel punto l’ufficiale giudiziario si produsse in un sorriso accattivante e malizioso.

    «Ho sequestrato pappagalli e i cani dell'Avana», continuò faceto, «come modo migliore per essere pagato. Una donna che rimaneva impassibile quando si parlava di vendere i suoi mobili, i suoi merletti o i suoi cavalli, si è messa a gridare quando ho scritto sul mio rapporto di sequestro un parrocchetto che parlava bene e pronunciava distintamente il nome di Albert o Theodore, o un bel bichon dal pelo riccio che rispondeva al nome di Tom. Il giorno dopo un uomo molto giovane è venuto a pagare».

    «Ma non si tratta assolutamente di una donna di quel tipo», puntualizzò Rocambole.

    «Davvero? Allora è quasi sicuro che non me ne ricordi», riprese il maturo dongiovanni. «Le donne comuni non hanno lasciato alcuna traccia nella mia memoria».

    «Neppure», intervenne Milon, «la povera direttrice di un pensionato femminile?»

    «Ho emesso ingiunzioni ad almeno dieci personaggi di quel genere».

    «E che cosa mi dite di quella il cui debito siamo venuti a saldare?»

    Rocambole accentuò di proposito queste ultime parole.

    «Oh, ne ricordo soltanto una che mi deve ancora dei soldi... una miseria, per la verità... soltanto duecento o trecento franchi. In effetti avevo concesso una proroga. Ogni mese veniva una ragazza molto carina a portarmi un piccolo acconto. Parola mia, avevo finito per chiudere un occhio... stavo incapricciandomi di quella bella figliola e adesso che è passato tanto tempo e sono rimasto vedovo, posso anche dirvelo... la mia signora, madame Boisdureau, mi faceva un sacco di scene ogni volta

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