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I Medici: Ascesa e potere di una grande dinastia
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E-book411 pagine4 ore

I Medici: Ascesa e potere di una grande dinastia

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Il libro ripercorre la storia della famiglia Medici e dei suoi membri più in vista, a partire dalle origini della fortuna del casato nella Firenze tardo trecentesca, passando per la grande epoca rinascimentale di Lorenzo il Magnifico e il primo granduca Cosimo I, fino a giungere a Gian Gastone, mancato senza discendenti diretti nel 1737 e tradizionalmente considerato come l’ultimo erede della dinastia. Un filo che si intreccia, nella politica come nell’arte e nella scienza, al passaggio dell’Italia e dell’Europa alla Modernità, raccontato in maniera discorsiva attraverso gli strumenti della ricerca storica, fonti edite e inedite, documentarie e iconografiche, di natura privata e di carattere pubblico, con attenzione anche al protagonismo della componente femminile della famiglia – come Caterina, regina di Francia – e a quella ecclesiastica.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita18 nov 2020
ISBN9788836160822
I Medici: Ascesa e potere di una grande dinastia

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    I Medici - Claudia Tripodi

    Giovanni di Bicci

    Alle origini di una fortuna

    Forse qualcuno ne sarà sorpreso ma è esistita una Firenze senza i Medici.

    Per meglio dire, c’è stato un tempo in cui la città fu ai vertici della fama mondiale senza che alcun membro della famiglia avesse responsabilità in tanta grandezza. Erano gli anni dello sviluppo comunale, dei grandi colossi bancari (Bardi, Spini, Cerchi, Peruzzi), degli scontri leggendari tra Guelfi e Ghibellini. Erano gli anni di Dante Alighieri (1265-1321), poi di Petrarca (1304-1374) e di Boccaccio (1313-1375).

    Dell’ irrilevanza dei Medici nel panorama cittadino del primo Trecento è prova indiretta proprio il Divin Poeta che, per quanto sedotto dalla possibilità di citare nella sua Commedia molti dei suoi stimati concittadini (Aldobrandi, Cerchi, Donati, Buondelmonti, Sacchetti, Nerli tra le casate più famose)³ ai Medici non ci pensava affatto. Al tempo in cui Dante scriveva, infatti, i Medici si erano da poco insediati in città – provenivano dalle vicine campagne del Mugello – e per buona parte del Trecento essi non fecero parte dell’élite cittadina, come rivela peraltro anche la loro modesta partecipazione alle cariche pubbliche.

    Il membro della casa di maggiore spicco, al tempo, era Foligno di Conte che, insieme ai suoi fratelli, tra il 1335 e il 1375 aveva investito alcune migliaia di fiorini d’oro nell’acquisto di terreni in Mugello e nel primo nucleo residenziale di via Larga in città. I Medici, insomma, erano all’epoca una famiglia di origini modeste, senza alcuna tradizione risalente alle spalle, ma con ambizioni di ascesa economico-sociale, come molte altre, anche se nessuno avrebbe potuto immaginare quanto duraturo sarebbe stato, negli anni, l’esito della loro scalata. Le caratteristiche che maggiormente li identificavano erano la numerosità e il forte senso di coesione. Nel suo libro di Ricordi avviato dopo la morte del fratello Giovanni, nel gennaio del 1374, Foligno considerava le calamità che la città aveva e avrebbe dovuto fronteggiare («veggendo le passate fortune di guerre citanesche (sic) e di fuori, e le fortunose pistolenze di mortalità che Domenidio à mandate in terra, e che si teme che mandi, vegiendole a’ nostri vicini») e si ingegnava di fare memoria «delle cose passate […] che possano essere di bisongno sapere» a chi sarebbe rimasto dopo di lui⁴. Attento a che gli eredi avessero cura delle sue memorie scritte, li invitava a riporle al sicuro per poterle consultare alla necessità⁵, e, per quanto egli parlasse dei Medici con manifesta ostentazione come di una famiglia il cui «stato aquistato pe’ nostri passati» doveva essere mantenuto dai discendenti, è probabile che Foligno avesse in mente come punto di forza della sua casa, la quantità numerica dei familiari, ben più che le loro qualità⁶.

    A sostegno di come la casa Medici, anche dopo la peste del 1348, conservasse una certa ampiezza, Foligno precisava che al tempo in cui scriveva ne facevano parte circa cinquanta uomini. Niente tuttavia, a paragone della straordinaria grandezza dei tempi passati, tenuto conto che da quando egli era nato, sempre a sentir lui, ne erano morti almeno un centinaio⁷. Non vi è dubbio che Foligno in queste sue memorie impiegasse i numeri con un eccesso di disinvoltura: anche in tempo di pestilenza, era difficile da credere che la stessa casata potesse avere perduto un centinaio di uomini nel giro di qualche decennio. Altrettanto non vi è dubbio che l’impiego così smodato delle quantità non era un vezzo esclusivo di Foligno ma rispecchiava, semmai, una fissazione di molti suoi contemporanei che di fatto non vantavano una vera e propria antichità dimostrabile con stemmi, case, chiese, aziende e imprese di vecchia data. La ricostruzione delle origini attraverso la memoria scritta era uno dei mezzi più diffusi e presumibilmente più efficaci per fondare, almeno a parole, la propria antichità. E in assenza di titoli, di antenati da tempo collocati nelle alte sfere cittadine, o, più banalmente, di decenni di inurbamento alle spalle, restavano solo l’ampiezza e la solidarietà del casato come carte da giocare per destare l’ammirazione dei lettori delle generazioni a venire.

    Come già Foligno, anche il suo parente Averardo (detto Bicci) dei Medici, che visse negli anni centrali del Trecento, contava per lo più sulle rendite delle sue terre extraurbane e, come altri membri della famiglia e non diversamente da molti suoi concittadini, operava nel credito e nella mercatura. Di certo, però, doveva essere un uomo abbastanza ambizioso, come dimostra il matrimonio contratto con una donna di rango superiore al suo, Jacopa di Francesco Spini, figlia di uno Spini, nota famiglia di banchieri la cui attività spaziava da Roma al Nord Europa. Dalle nozze nacquero cinque figli, l’ultimo dei quali, Giovanni, aveva appena tre anni quando nel 1363, mancato Averardo, rimase sotto la tutela della madre e di due tutori (Foligno di Conte Medici e Strozza di ser Pini)⁸.

    La fortuna dei Medici cominciò così, in maniera del tutto accidentale, da un orfano di padre che diede fondo a tutti i suoi talenti per completare il percorso di ascesa che il genitore e altri familiari avevano avviato: insieme al fratello maggiore Francesco, Giovanni di Averardo prese a collaborare come fattore dell’azienda bancaria di un altro Medici, Vieri di Cambio. Quella di Vieri era, al tempo, la sola banca Medici impegnata su scala internazionale. Dopo essere stato impiegato come apprendista e fattore, Giovanni divenne dal 1392 direttore della filiale romana della banca della quale era socio col nome Vieri e Giovanni de’ Medici. Alla morte di Vieri, Giovanni rilevò l’intera impresa dando vita al primo nucleo del banco Medici che si sarebbe rapidamente allargato in tutta la penisola e poi in Europa. Anche Francesco, suo fratello maggiore, rilevò col figlio Averardo una delle società di Vieri: con sede a Firenze la loro azienda proseguì fino al 1443 quando il ramo si estinse⁹.

    Gli anni a seguire videro la massima espansione del novello banco Medici di Giovanni. Furono aperte filiali a Venezia e a Napoli ma fu quella di Roma, soprattutto per l’amicizia che legava Giovanni al cardinale Baldassarre Cossa (papa Giovanni XXIII dal 1410) e per lo stretto rapporto che il Medici aveva saputo intessere con la curia pontificia, a fare la parte del gigante, in grado, da sola, di generare negli anni dal 1397 al 1420 più della metà dei profitti del banco. Quando il papa Giovanni XXIII venne deposto e imprigionato, fu Giovanni dei Medici a pagare per la sua liberazione nel 1419, e quando alla fine di dicembre dello stesso anno il papa morì, Giovanni e suo figlio Cosimo, come esecutori testamentari, si occuparono di seguire i lavori, ad opera di Donatello e Michelozzo, per la sua tomba nel battistero di Firenze.

    Parallelamente allo sviluppo economico della sua impresa Giovanni – come già era accaduto al fratello Francesco, che nel 1397 era stato eletto Priore – cominciò a muovere i primi passi in ambito politico. Erano gli anni del governo oligarchico dietro la leadership di Maso degli Albizzi, e Giovanni si mosse con cauta discrezione, tenendosi a distanza dagli estremismi, evitando per esempio l’esplicita adesione alle istanze popolari che altri Medici avevano scelto di seguire e che era costata loro l’esclusione dalle cariche pubbliche. Giovanni prese parte alle assemblee comunali e alle cariche maggiori dello Stato (alle quali si veniva eletti per estrazione) e ottenne anche incarichi diplomatici a fianco di esponenti del governo albizzesco che si guadagnò soprattutto per la sua personale familiarità con Baldassarre Cossa.

    La ricchezza accumulata da Giovanni e la sua lungimiranza furono anche alle origini dell’edificazione del primo nucleo di quello che poi sarebbe diventato il palazzo Medici di via Larga grazie all’accorpamento di edifici contigui¹⁰. Con lui nacque il primo interesse verso la chiesa di San Lorenzo come chiesa di riferimento della famiglia¹¹.

    Nel 1420, ormai sessantenne, Giovanni lasciava la guida dell’impresa ai due figli Cosimo (nato nel 1389) e Lorenzo (nato nel 1395). Quasi dieci anni dopo, il 20 febbraio del 1429, a due anni dall’istituzione del catasto fiorentino, da lui fortemente osteggiato se pure con la solita cauta dissimulazione, Giovanni se ne andava senza aver fatto testamento: aveva quasi settant’anni ed era ormai il cittadino più ricco di tutta Firenze¹².

    3. Ma anche Arrigucci, Ardinghi, Barucci, Bostichi, Ormanni, Gualterotti, Sacchetti, Latini, eccetera. Vedi Dante Alighieri, La divina Commedia, a cura di N. Sapegno, Firenze, La Nuova Italia, 1988

    4. Archivio di Stato di Firenze (da ora ASF), Mediceo avanti il Principato (da ora MAP), 152, c. 2r.

    5. «[…] e priegovi che questo libro guardiate bene e tegniate in luogho segreto si che’ non venisse a mani altrui e si perché vi potrebbe essere di bisongno per lo ‘nanzi come ora bisogna a noi», ASF, MAP, 152, c. 2r.

    6. In questo senso vanno intesi i riferimenti allo stato che «maggiore soleva essere e comincia a manchare per carestia di valenti huomini che abbiamo de’ quali solavamo avere gran quantità», ASF, MAP, 152, c. 2v.

    7. «lodato Idio, siamo uomini intorno a’ cinquanta […] e nota, poi ch’io nacqui, sono morti di casa nostra intorno a cento uomeni», vedi ASF, MAP, 152, c. 2v.

    8. Vedi profilo biografico di P. Terenzi (a cura di), Giovanni di Bicci de’ Medici, Dizionario Biografico degli Italiani (d’ora in avanti DBI), vol. 73, 2016.

    9. Sulle origini del casato si veda la sintesi introduttiva di V. Arrighi, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo. Dal XIV secolo a Lorenzo il Magnifico in N. Baldini- M. Bietti (a cura di), Nello splendore mediceo. Papa Leone X e Firenze, Firenze, Sillabe, 2013, pp. 23-27.

    10. Vedi Il palazzo Medici Riccardi di Firenze, a cura di G. Cherubini - G. Fanelli, Firenze 1990, pp. 38-43

    11. Dietro un congruo finanziamento ottenne infatti il patronato sulle cappelle del transetto e sulla sacrestia dove lavorava il Brunelleschi. Gli spazi di sepoltura riservati ai Medici giunsero a completamento verso il 1427, vedi M. Trachtenberg, Building and Writing S. Lorenzo in Florence: Architect, Biographer, Patron, and Prior, in «The Art Bulletin», 97/2 (2015), pp. 140-172 e anche profilo biografico a cura di D. Kent, Cosimo de’ Medici, in DBI, vol. 73, 2009. Moltissimi, ovviamente, gli studi su Cosimo il vecchio di cui la bibliografia citata alla voce del DBI è solo una significativa selezione.

    12. Secondo il ricordo di Lorenzo il Magnifico, suo bisnipote, il patrimonio da lui lasciato ammontava a quasi 180.000 fiorini: A. Fabroni, Laurentii Medicis magnifici vita, Pisa 1784, vol. II, p. 6 cit. in Terenzi, cit. voce DBI.

    Cosimo il Vecchio

    Il pater patriae

    Il banco e la politica

    Cosimo dei Medici, il futuro pater patriae, era nato a Firenze il 10 aprile 1389 da Giovanni di Bicci (Averardo) e Piccarda de’ Bueri¹³. Dal 1420, quando il padre si era formalmente ritirato dall’impresa, Cosimo ne aveva ereditato la direzione insieme al fratello minore Lorenzo. In virtù dello straordinario talento finanziario che egli possedeva, il banco Medici, che si occupava degli affari della corte pontificia, divenne una delle più solide istituzioni bancarie del tempo e raggiunse l’apice del successo, espandendosi e diversificandosi fino alla metà del secolo, con filiali e rappresentanze in tutta l’Europa occidentale. Il fatto, inoltre, di poter contare su dipendenti della massima fiducia, membri della famiglia, parenti, fedelissimi, diede modo ai Medici di ritagliarsi e, poi, di consolidare un proprio spazio autonomo di potere non solo in campo economico ma anche nella vita politica e sociale.

    Nel 1415 Cosimo aveva preso in sposa Contessina dei Bardi di Vernio. Dalla loro unione nacquero due figli, Piero e Giovanni a cui si aggiungeva un figlio naturale, Carlo, che Cosimo ebbe, dopo il matrimonio, dalla relazione con una schiava circassa e che venne allevato e cresciuto insieme ai figli legittimi¹⁴. Alla fine degli anni Venti, Cosimo era considerato, ormai a tutti gli effetti, un vero patriarca: non soltanto dall’ampia casata dei Medici, che, a basarsi sulle fonti fiscali del 1427, contava ormai ben ventisette nuclei familiari radicati in città, ma anche da molti altri cittadini, estranei alla cerchia parentale più stretta. La sua autorità, infatti, aveva presa su un vasto range di parenti, vicini e amici, clienti in generale, e si estendeva all’intera città di Firenze e oltre. Cosimo, che dal padre aveva indubbiamente ereditato un certo prestigio politico e diplomatico, interveniva spesso nei dibattiti pubblici, era frequentemente incaricato di missioni ufficiali e fu tra i Dieci di balìa e gli Ufficiali del banco, magistrature il cui compito principale era gestire e finanziare le guerre al tempo ingaggiate da Firenze. Cosimo possedeva inoltre eccellenti competenze di strategia militare, ed ebbe modo di stringere amicizia con alcuni dei capitani di ventura più in vista del tempo come Niccolò da Tolentino, Micheletto Attendolo e, più tardi, Francesco Sforza. Insieme al cugino Averardo, ebbe un ruolo di primo piano nella guerra contro Lucca, ampiamente finanziata dai prestiti del banco Medici. La rete clientelare che gravitava intorno a lui, che ci è nota grazie all’abbondante corrispondenza superstite, era composta di familiari, amici e sodali e operava su meccanismi bidirezionali: da un lato i suoi partigiani agivano a sostegno dei Medici, dall’altro i Medici esercitavano il loro potere per favorirne gli interessi di parte, assicurare protezione e, a loro volta, avanzamenti di carriera, in particolare negli affari politici e finanziari.

    Ad osteggiare Cosimo nella corsa al potere vi erano però membri di alcune grandi famiglie fiorentine dell’oligarchia (Albizzi, Peruzzi, Gianfigliazzi, Spini, tra le più note) che non vedevano di buon occhio il progressivo accrescersi del partito mediceo e la sua apertura alle fasce più popolari.

    Così, quando nel settembre del 1433, il caso portò all’estrazione di un’assemblea (balìa) i cui membri erano per larga parte avversari dei Medici, si pensò di cogliere l’occasione per contenerne l’ascesa.

    È Cosimo stesso a farne memoria in un suo libro di Ricordi¹⁵.

    La storia ebbe inizio con l’elezione dei nuovi Signori e il vociferare di imminenti rivolgimenti politici. Il 4 settembre Cosimo, che si trovava in Mugello, ricevette l’invito a rientrare in città. Come richiesto, fece ritorno a Firenze e, il giorno stesso, si recò in visita al gonfaloniere e agli altri magistrati. Dall’incontro uscì sereno, pare, con la sensazione di aver preso parte a una chiacchierata tra amici e, soprattutto, rassicurato sul fatto che le minacce di rovesciamento politico erano infondate: Cosimo pareva certo della sincerità dei suoi interlocutori. Per limitarsi a un esempio, tra gli ufficiali appena eletti, vi era Giovanni di Matteo dello Scelto, uno che egli «reputava molto amico» e a lui obbligato cioè con un qualche debito di riconoscenza nei suoi confronti, e per quanto il mormorio di una sollevazione da parte dei suoi stessi alleati si facesse insistente, ritenne che non fossero voci da prendersi sul serio («reputandoli amici non vi prestai fede»). D’altronde Cosimo, che aveva un certo mestiere anche nella narrazione, raccontava le sue battaglie dopo aver vinto la guerra, e nella sua ottica tutto questo candore, questa insolita fiducia nel prossimo dinanzi a una delle prime tappe della vicenda, avevano lo scopo, probabilmente, di accrescere l’indignazione del lettore verso i responsabili del tradimento. Pochi giorni dopo il suo rientro, infatti, egli fu chiamato a palazzo, gli fu richiesto dai Signori di salire al piano di sopra e lì venne incarcerato: nelle sue parole «fui messo in una camera che si chiama la Barberia e fui serrato dentro».

    L’eccesso di fiducia di Cosimo, accolto anche nelle pagine celebrative che Vespasiano da Bisticci, suo personale amico e libraio, gli dedicò nelle sue Vite di uomini illustri, si sovrapponeva, a maggior gloria del suo onore, a un innato e non troppo credibile rispetto della legalità. È verosimile immaginare che quando Cosimo fu convocato a palazzo dai Signori avesse un vago sentore di quanto stava per accadergli e di certo è probabile che, nell’attraversare la città, gli sia capitato di incontrare più di un concittadino, di quei molti che solitamente lo riverivano o gli si rivolgevano per favori. Ci dice infatti Vespasiano che nei pressi di Or San Michele, Cosimo incrociò «uno suo parente e amico», per la precisione Alamanno Salviati che, una volta inteso dove stesse andando, «gli disse ch’egli non vi andasse, ch’egli perderebbe la vita». Vale la pena osservare per un istante come il Salviati stesso, da parente e amico, abbia un ruolo ambiguo nella vicenda. Solitamente se si ha il sospetto che qualcuno che ci è caro sia in pericolo, non si attende che la fatalità ce lo faccia incontrare per la via ma si cerca di intervenire prima, di avvertirlo insomma per tempo, magari, questo sì, con l’accortezza di non farsi scoprire dalla parte avversa. Anche in questo caso la figura del Salviati pare essere l’ennesimo dettaglio messo lì a confermare quanto Cosimo fosse in buona fede.

    Infatti, quali che fossero le vere intenzioni del suo sedicente accidentale informatore, Cosimo – è sempre Vespasiano a raccontarlo – preferì restare nel terreno della legalità. Forse, temendo che dandosi alla macchia avrebbe offerto ai suoi nemici un’ottima scusa per eliminarlo sul serio, pensò di guadagnare tempo col mostrarsi collaborativo (da cui la risposta «sia come vuole, io voglio ubbidire a’ mia Signori»). Ma i margini di negoziazione erano veramente modesti e, come detto, appena giunto al Palazzo dei Priori, venne arrestato e imprigionato.

    Vespasiano non ha dubbi sugli intenti degli oppositori e forse con un pizzico di partigiana esagerazione aggiunge che Cosimo fu condotto «in una prigione, la quale è nel campanile, […] con animo di fargli tagliare il capo, parendo loro non potere tenere quello stato se non lo facevano, conosciuta la grande autorità che aveva nella città e fuori». Eliminare Cosimo fisicamente, insomma, sembrava essere la sola via efficace per far riguadagnare terreno ai suoi avversari¹⁶.

    Invece, contrariamente alle aspettative più bieche, Cosimo non venne ucciso ma solo condannato all’esilio. La stessa sorte toccò a suo fratello Lorenzo, al cugino Averardo e ad altri componenti della famiglia: tutti banditi dalla città per un periodo dai cinque ai dieci anni. In un primo momento, mentre Lorenzo riparava a Venezia coi nipoti Piero e Giovanni, si pensò davvero che Cosimo fosse stato eliminato. Al contrario, era riuscito a liberarsi. Per quanto prigioniero, egli restava sempre un uomo ricco, scaltro e potente e, soprattutto, fiducioso oltre che nel potere della legalità in quello, altrettanto forte, della corruzione. Offrendo un’ingente somma di denaro ai suoi carcerieri (dei quali comunque, nei suoi Ricordi, pareva biasimare l’assenza di azzardo: «Ebbono poco animo, che se avessero voluto danari, l’avrebbono avuti diecimila o più per uscir di pericolo»¹⁷) Cosimo ottenne di poter fuggire e trascorrere il suo esilio a Venezia, col fratello Lorenzo, dove sapeva di poter contare sull’ospitalità dell’amico doge Francesco Foscari e dove il banco Medici già possedeva un’importante filiale. Con lui e Lorenzo, in esilio a Venezia vi erano anche le rispettive famiglie.

    A Firenze, intanto, i suoi avversari brigavano per gettare il massimo discredito su di lui e sulle sue imprese. Ma, si sa, accade a volte che certi progetti pure condotti con le migliori intenzioni finiscano per produrre esiti diversi, talora addirittura opposti, rispetto a quelli per cui erano stati intrapresi. E questo è esattamente quanto avvenne a Firenze col bando dei Medici. Diversamente da quanto ipotizzavano, e speravano gli oppositori di Cosimo, il bando comminatogli si rivelò decisivo nel consolidarne l’autorità. Con l’assenza di Cosimo, infatti, si fece ancora più forte la consapevolezza di quanto la sua ricchezza e le sue qualità governative fossero indispensabili per il progresso e la sicurezza della città: «Rimasa Firenze vedova d’uno tanto cittadino e tanto universalmente amato, era ciascuno sbigottito; e parimente, quelli che avevano vinto e quelli che erano vinti, temevano», così scriveva, a qualche anno di distanza dalla vicenda, Niccolò Machiavelli nelle Storie Fiorentine¹⁸.

    Inoltre, il peso che il banco Medici aveva ormai assunto sul piano internazionale e il suo legame con il Papato indussero anche i potenti stranieri (i re di Francia, di Inghilterra e l’imperatore) a schierarsi dalla parte di Cosimo e a disapprovare l’azione fiorentina mossa contro di lui e i suoi famigliari. La protezione che i Medici erano in grado di accordare ai loro accoliti andava oltre i confini della città del giglio come dimostrano, ancora una volta, le molte lettere di raccomandazione. Così grazie alla forza del suo banco e soprattutto alla fedeltà dei suoi sostenitori e clienti, primo fra tutti il papa (e le sue milizie) Cosimo poté uscire dalla vicenda vittorioso¹⁹. Non solo. Cauto e astuto al contempo, seppe addirittura stravincere trasformando quella che già assumeva i contorni di una scampata sconfitta in un vero e proprio trionfo e dichiarò che avrebbe agito solo all’interno della legalità e del rispetto delle istituzioni, e che non sarebbe rientrato in città se non su esplicito richiamo della Signoria, così come per ordine della Signoria l’aveva lasciata.

    La vicenda è nota e possiede in questo caso una fascinazione finalistica che i più assidui e romantici sostenitori dei Medici non possono trascurare: nel settembre del 1434, a un anno esatto dalla sua incarcerazione, il caso volle che venisse estratta una nuova Balìa a partecipazione, stavolta, largamente filomedicea. Immediatamente le sorti della storia si ribaltarono. Di fronte alla sfida degli antimedicei che minacciavano armati il palazzo dei Priori, di fronte al rifiuto del Papa, che al momento si trovava a Firenze, a sostenerli, Cosimo fu richiamato in città e pubblicamente riaccolto come il più importante cittadino. I suoi nemici venivano ora condannati all’esilio mentre i suoi sostenitori ebbero l’ardire di spingersi fin dove gli avversari non avevano osato, modificando deliberatamente il sistema elettorale con l’eliminazione dei nomi degli oppositori dal novero dei cittadini eleggibili. Così facendo i filomedicei assicuravano alla loro fazione la tacita trasformazione da partito interno al sistema politico fiorentino in un «vero e proprio regime»²⁰.

    La rete clientelare dei Medici copriva ora sempre più fasce della cittadinanza. Si diede spazio a balìe con poteri straordinari giustificandone la creazione in ragione del continuo stato di guerra e di crisi economica che la città attraversava. Questi organi, dominati da amici dei Medici, controllavano le elezioni ai pubblici uffici, ormai non più casuali ma discrezionali, e davano sempre più spazio nei ruoli di potere ai loro sostenitori e accoliti. Cosimo fu estremamente abile nel manovrare i meccanismi elettorali (cioè la selezione degli ufficiali pubblici) mantenendo un profilo contenuto. Conservando l’apparenza di un primus inter pares riuscì a ricoprire diverse cariche importanti dopo il 1434 e a far accettare, in veste di Gonfaloniere – carica che ricoprì nel 1435 e poi di nuovo nel 1439– le modifiche costituzionali che facevano gioco al suo partito pur rimanendo nell’alveo delle istituzioni repubblicane.

    Inoltre, nel primo bimestre del 1439, quando era appunto in carica come Gonfaloniere di giustizia ebbe modo di presiedere di persona a un avvenimento dalla portata storica, accogliendo ufficialmente a Firenze i partecipanti al Concilio per la riunione delle due Chiese: un evento grandioso cui egli stesso aveva in larga parte contribuito con le sue risorse finanziarie. Cosimo ebbe il merito e il talento di saper sempre agire con discrezione e cautela e di ammantarsi, per questo, di una autorità riconosciutagli da molti, al punto che, nelle consulte, poteva spesso accadere che, in sua assenza, gli altri partecipanti attendessero di conoscere il suo parere prima di prendere apertamente una decisione.

    Anche sul piano della politica internazionale Cosimo agì in maniera rivoluzionaria e moderata insieme: è a lui che si deve il ribaltamento in alleanza della tradizionale rivalità con Milano, dopo che Francesco Sforza, sposato alla figlia di Filippo Maria Visconti, ne era divenuto duca nel 1450. La serie di conflitti che si scatenò in quegli anni giunse a conclusione solo nel 1454 con la pace di Lodi conclusa tra Venezia e Milano – in guerra ormai dagli inizi del secolo – e ratificata dai principali loro alleati, dal papa e dall’imperatore. Per paradosso questo successo produsse, a metà degli anni Cinquanta, una forte opposizione interna alle modifiche costituzionali che Cosimo aveva introdotto in città. Nel partito mediceo, infatti, non tutti assecondavano il suo predominio e c’era chi ancora auspicava il ritorno alle tradizionali pratiche elettorali repubblicane.

    Cosimo, come sempre, reagì conservando una posizione apparentemente moderata e rifiutando perfino l’aiuto militare offertogli nel 1455 dallo Sforza, ma negli ultimi anni del suo governo, si trovò a far fronte alla crescente ostilità di alcuni tra quelli che in origine erano stati tra i suoi più fidati amici e collaboratori come Angelo Acciaiuoli e Dietisalvi Neroni. La creazione di un nuovo consiglio, il Consiglio de’ Cento, di impianto strettamente mediceo i cui membri erano selezionati direttamente dalla Signoria e da tutti coloro che avevano ricoperto l’incarico o che erano stati estratti Gonfaloniere di Giustizia dal 1434 in avanti, agì a consolidamento del regime e si mantenne fino a dopo la sua morte quando la questione della sua «successione» nella persona del figlio Piero provocò una nuova opposizione²¹.

    Va precisato che, nonostante la grandezza con cui Cosimo seppe distinguersi dai suoi concittadini e dare un’impronta quasi personale alla sua partecipazione al governo si era ancora decisamente lontani dalla dinastizzazione medicea che contraddistinse Firenze dagli anni Trenta del secolo successivo. Per tutto il Quattrocento Firenze rimase formalmente, e anche di fatto, una Repubblica a base oligarchica. La sola carica che Cosimo ottenne in quella Repubblica dove esercitò un potere straordinario senza davvero possedere alcun titolo per farlo, fu quella di pater patriae che gli fu conferita, con decreto cittadino, dopo la sua morte nel marzo del 1465²². Cosimo fu il

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