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La maison qui touche aux bois
La maison qui touche aux bois
La maison qui touche aux bois
E-book1.008 pagine15 ore

La maison qui touche aux bois

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Info su questo ebook

Marta, Norberto, Cristina, Corrado, Laura, Chantal: sei fratelli, sei diverse personalità che si apprestano a entrare nella vita, sotto lo sguardo rassicurante della madre, una parigina che, per amore, si è trasferita a Genova e poi in un paese sulle alture della città.

Un evento drammatico sconvolgerà quelle esistenze appena delineate e porterà i ragazzi a unirsi in una strenua lotta per non essere separati.

Il legame durerà tutta la vita, nel bene e nel male.
Successivamente, in un arco di vent’anni, ognuno di loro svilupperà passioni, effettuerà scelte, commetterà errori, vivrà vicende che lo porteranno ad affrontare situazioni semplici o complesse, mai però banali. Qualcuno realizzerà le proprie aspirazioni; qualcuno resterà deluso; ad alcuni è riservato un destino straordinario, altri si accontenteranno di un’esistenza tranquilla. Nei loro cuori sarà tuttavia sempre vivo uno struggente comune ricordo.

Partendo da quel paese che non si trova sulle carte geografiche, ma che è simile a tanti disseminati per l’Italia, i protagonisti raggiungeranno una Genova oggi scomparsa e da lì alcuni andranno alla ricerca del proprio futuro nel mondo.
Arriveranno a Parigi, la città amata per i ricordi, a Budapest, in America.
Sempre però la casa al limite del bosco, rifugio e memoria dell’infanzia, farà sentire il suo richiamo.

Intorno a loro, che vivono in un’atmosfera fatta di letteratura, musica, arte, ma anche di un’intensa quotidianità di cui Marta è l’anima e la custode, si muove uno stuolo di personaggi e di situazioni che s’intrecciano con le dinamiche della convivenza tra fratelli e rendono vivaci e incalzanti i momenti di una storia nella quale non mancano risvolti sentimentali, psicologici, culturali, conflitti generazionali, crisi interiori, fughe e, per fortuna, ritorni.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2020
ISBN9788868675011
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    Anteprima del libro

    La maison qui touche aux bois - Gabriella Paola Zurli

    Gabriella Paola Zurli

    La maison qui touche aux bois

    © 2020 - Gilgamesh Edizioni

    Via Giosuè Carducci, 37 - 46041 Asola (MN)

    gilgameshedizioni@gmail.com - www.gilgameshedizioni.com

    Tel. 0376/1586414

    ISBN 978-88-6867-501-1

    È vietata la riproduzione non autorizzata.

    In copertina: disegno di Roberta Gandolfi.

    © Tutti i diritti riservati.

    ISBN: 978-88-6867-501-1

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    Parte prima - MARTINE

    ​Capitolo I

    ​Capitolo II

    ​Capitolo III

    ​Capitolo IV

    ​Capitolo V

    ​Capitolo VI

    ​Capitolo VII

    ​Capitolo VIII

    ​Capitolo IX

    ​Capitolo X

    ​Capitolo XI

    ​Capitolo XII

    Parte seconda - NORBERTO

    Capitolo I

    ​Capitolo II

    ​Capitolo III

    ​Capitolo IV

    ​Capitolo V

    ​Capitolo VI

    ​Capitolo VII

    ​Capitolo VIII

    ​Capitolo IX

    ​Capitolo X

    ​Capitolo XI

    ​Capitolo XII

    Parte terza - CORRADO E CRISTINA

    Capitolo I

    ​Capitolo II

    ​Capitolo III

    ​Capitolo IV

    ​Capitolo V

    ​Capitolo VI

    ​Capitolo VII

    ​Capitolo VIII

    ​Capitolo IX

    ​Capitolo X

    ​Capitolo XI

    ​Capitolo XII

    Parte quarta - JEAN

    ​Capitolo I

    ​Capitolo II

    ​Capitolo III

    ​Capitolo IV

    ​Capitolo V

    ​Capitolo VI

    ​Capitolo VII

    ​Capitolo VIII

    ​Capitolo IX

    ​Capitolo X

    ​Capitolo XI

    ​Capitolo XII

    EPILOGO

    Scrivi una recensione al mio romanzo. Grazie mille!

    Ringraziamenti

    ANUNNAKI

    Narrativa

    142

    A Norberto, quello vero,

    frutto del mio seno e non della mia fantasia.

    Quand nous habitions tous ensemble

    Sur nos collines d’autrefois,

    Où l’eau court, où le buisson tremble

    Dans la maison qui touche aux bois,

    Elle avait dix ans et moi trente;

    J’étais pour elle l’univers.

    Oh! Comme l’herbe est odorante

    Sous les arbres profonds et verts.

    VICTOR HUGO, Les Contemplations

    Prefazione

    Il titolo è più che pertinente. Un romanzo corale come non siamo più abituati da gran tempo e la casa, quella casa isolata nel verde di un entroterra genovese, ne è la protagonista, non soltanto metaforica, tanto forte è la simbiosi fra essa e la grande famiglia che intorno a quei muri e a quel giardino ruota dall’inizio alla fine.

    In quella casa grande e intrisa di ricordi nascono e vivono con puntuale intermittenza i protagonisti di una lunga epopea e non per caso tutto ha origine dalla morte dolorosa e accidentale della madre amatissima di sei figli, alla quale l’autrice regala il ruolo di tessitrice spirituale e onnipresente dei caratteri, delle passioni, e delle indubbie virtù di ognuno dei giovani orfani e persino di un marito distratto, ma in fondo neppure troppo.

    E la forza di quei figli e più di tutti della figlia Marta, cui è delegata la funzione essenziale di tenere vivo e teso il filo famigliare, rende il luogo indistruttibile, una cattedrale elevata a simbolo di un’unione di sangue che lì nasce e mai morirà.

    I sei orfani, oltre al vedovo che piano piano impara a vedere ciò che negli anni di vita coniugale gli era sfuggito, non sono personaggi in cerca d’autore: ognuno di loro compie un tragitto, fatto di gioie e dolori, pregiudizi e scoperte, amori e rabbia, successo e frustrazione e il romanzo li accompagna in una lenta evoluzione verso un’esistenza compiuta, che alla casa nel bosco e in quegli amati dintorni li fa tornare, nonostante un girovagare nel mondo in cerca della loro stella li distragga per lunghi concitati periodi.

    Un libro testimonianza di vite parallele e incrociate con un ventaglio di vicissitudini, felici o amare che siano, che ai non più giovani suona familiare per quell’impulso vitale che spinge i personaggi, a volte con comprensibile fatica, a girare pagina e ad appoggiarsi l’uno all’altro.

    Ma ciò che più è commovente è il legame, solo in apparenza accidentato di Marta, la vera eroina, e dei suoi fratelli fra loro, e di questi con un padre riconosciuto come tale al termine di un lungo percorso di maturazione.

    Proprio quel legame in tutto il libro sovrasta ogni altro incontro dei protagonisti con le ordinarie vicende della vita e a esso sottostanno anche gli affetti e gli incontri amorosi, le carriere e le vocazioni artistiche che pur talvolta abbracciano i più nobili sentieri dell’arte.

    Neppure le sirene abbaglianti del successo e della Ville Lumière (la madre morta arrivava da Parigi) attenuano la forza attrattiva dei luoghi natii e della solidarietà fraterna che infine trionfa in un finale inatteso, ma in verità già scritto nelle prime pagine che ci introducono nelle stanze calde e avvolgenti dell’antica villa che tutto racchiude, tutto intende e tutto ripara.

    Raimonda Lanza di Trabia

    Parte prima - MARTINE

    ​Capitolo I

    L’ultimo giorno di adolescenza, Marta Derossi lo trascorse nel suo angolo di bosco.

    Era ormai aprile inoltrato: per varie settimane torrenziali piogge primaverili si erano abbattute con violenza sulla zona dell’entroterra ligure in cui la ragazzina viveva.

    Non erano state giornate allegre. La mattina si arrivava a scuola fradici e non ci si poteva cambiare fino all’ora di pranzo, che giungeva piuttosto tardi per gli studenti pendolari.

    Poi c’era il problema dei pomeriggi. Marta, divoratrice di libri e instancabile grafomane, che da grande voleva diventare scrittrice, sentiva spesso la necessità di isolarsi e concentrarsi su un’idea interessante o su qualche verso scaturito all’improvviso dalla sua fantasia, per fissarlo sulla carta, prima che venisse cancellato da una nuova folgorazione.

    A volte aveva soltanto bisogno di prepararsi in assoluta tranquillità per un’interrogazione o un compito in classe. Tutto ciò però non si poteva realizzare facilmente, quando cinque fratelli minori scorrazzavano intorno senza sosta.

    Nelle belle giornate invece la casa cambiava quasi fisionomia, perché i ragazzi cercavano ogni pretesto valido per scappare fuori. C’era sempre tranquillità in quei pomeriggi, tuttavia anche lei preferiva trascorrere le ore dedicate allo studio e allo svago lontano da casa, nel suo angolo di bosco, son coin dans le bois, come lo chiamava maman, che era nata a Parigi e insegnava francese nella scuola media locale.

    Da qualche tempo, dunque, Marta aveva ripreso a fare le sue fughe nel bosco e anche quel pomeriggio se ne stava seduta, con un quaderno in grembo e un romanzo di Cronin posato accanto sull’erba, ai piedi di una grande quercia, quella che era solita definire l’albero sacro al suo druido ispiratore. Mordicchiava la penna che teneva fra le dita, si guardava attorno aspettando nuove idee, ascoltava il fruscio delle fronde mosse dal vento e il mormorio del ruscello. Le piaceva il rumore dell’acqua che scorre fra i sassi perché riusciva sempre a farle provare un senso di profonda pace interiore e d’intima simbiosi con il creato.

    Certe notti in cui non riusciva a dormire, si alzava e socchiudeva la finestra. Erano attimi magici per lei. Nel silenzio degli uomini, poteva intendere chiaramente le voci della natura e riconoscerle, mentre inviavano i loro gioiosi messaggi: il mormorio del torrente, lo stormire delle fronde, d’estate il concerto dei grilli e il gracidio delle rane. Erano suoni meravigliosi, che non rompevano il riposo notturno, ma che ne facevano parte. In quei momenti provava sensazioni intense e indescrivibili.

    Talvolta, dopo aver ascoltato a lungo, le salivano dal cuore dei versi, risultato delle profonde emozioni che andava provando. Al buio, per non svegliare Cristina, afferrava il quaderno e la penna che teneva sempre sul comodino e, camminando a piedi nudi, andava a sedersi sulla scala che saliva alle mansarde. Lì, alla debole luce della lampadina di servizio, scriveva fino a quando era colta dal sonno o improvvisi brividi di freddo avevano la meglio sul fuoco che ardeva nel suo petto. Allora tornava dentro il letto, dove si addormentava cullata dalla gioia per il lavoro compiuto, le membra avvolte da un piacevole tepore.

    Un fruscio improvviso la riscosse dai suoi pensieri: una rana, o forse una biscia d’acqua. Marta non provava paura né ribrezzo alla vista di quegli animaletti, come accadeva invece ai suoi fratelli e alla maggior parte dei ragazzi vissuti per parecchio tempo, come loro, in città. Al contrario ne era attratta e sentiva una particolare tenerezza per quelle creature viscide e goffe, nelle quali vedeva una testimonianza della perfezione della natura.

    Se è un rospo, voglio baciarlo! Magari si trasforma in un poeta. pensò.

    Posò penna e quaderno e si arrampicò sopra una grossa pietra sporgente verso quel tratto del torrente in cui la scarsa pendenza del terreno e la disposizione dei massi avevano formato un piccolo lago, abbastanza profondo da permettere ai ragazzi di nuotarvi dentro nei mesi estivi. L’animaletto che aveva interrotto il filo dei suoi pensieri si era dileguato: Marta si rammaricò per un attimo, poi raccolse un sasso, lo lanciò nell’acqua e osservò i cerchi concentrici che si allargavano sulla superficie. Quando il primo scivolò sotto la pietra su cui stava seduta, la ragazza si sporse ancora, si trovò di fronte alla sua immagine riflessa e fece una smorfia.

    Era molto critica verso se stessa. Avrebbe voluto essere diversa nel fisico, perché il carattere non le dispiaceva, e spiava negli specchi, sui vetri delle finestre o nel riflesso dell’acqua gli eventuali piccoli cambiamenti che avrebbero dovuto fare di lei il suo tipo ideale di donna.

    Questo accadeva ormai da un paio d’anni. Maman se n’era accorta quasi subito e continuava ripeterle che non aveva niente da modificare, che era una bella ragazzina e che sarebbe diventata une jolie demoiselle trés charmante. Sicuramente sua madre ne sapeva più di lei sull’argomento, perché era stata a suo tempo une jolie fillette e si era trasformata in una splendida signora piena di fascino. Inoltre era assolutamente degna di fiducia.

    Tuttavia Marta rimaneva scettica sulle possibilità di miglioramento di una sedicenne magra, cresciuta troppo in fretta, completamente priva di attrattive. Il viso non era male, ma non avrebbe mai osato definirlo bello. Gli occhi verdi e i capelli biondi, anche se orribilmente dritti, avevano un certo fascino, ma le guance erano scarne, gli zigomi alti e irregolari, la bocca lunga e sottile. E poi c’era quel naso tipicamente francese, ereditato da maman, in un volto che per molti tratti era simile a quello paterno.

    In realtà le piaceva il suo profilo, però non lo trovava adatto a sé. Aveva l’impressione che le desse un’aria troppo sbarazzina, ben diversa dall’aspetto serio che si addice a un’esponente del mondo della cultura. Sospirando, vi fece scivolare sopra i grossi occhiali con la montatura di tartaruga che aveva fino ad allora tenuto sulla sommità del capo e si osservò di nuovo nell’acqua. Ecco, miglioravano decisamente la situazione. Quando aveva cominciato a portarli, qualche mese prima, nonna Luisa aveva detto che si era rovinata la vista con tutto quel leggere di notte e che una ragazza non avrebbe mai dovuto mettersi gli occhiali. Marta però riteneva che fossero proprio quello che ci voleva per ottenere l’aria da intellettuale e li usava anche più del necessario, incurante dell’ironia di suo fratello Norberto, il quale non perdeva occasione per ripeterle che sembrava una vecchia zitella. Allora lei scoppiava a ridere e rispondeva che la trovava senz’altro preferibile a uno scioperato narcisista.

    Il sole stava calando dietro gli alberi e le prime ombre della sera si avvicinavano rapide: era l’ora di rientrare. Raccolse libro, quaderno, penna e corse su per il sentiero.

    Non aveva molta strada da fare, la sua casa era la più vicina al bosco e l’ultima del paese.

    Sua zia Geneviève, che abitava al centro di Parigi, vicino a Boulevard de Sébastopol, quando era venuta a trovarli, l’anno prima, aveva dichiarato che era una pazzia andare a vivere in un paese sui monti, e per di più in una casa isolata, sola con la suocera anziana, quattro ragazzi e due bambine. Ma a maman e a lei andava bene così. Avevano deciso insieme di stabilirsi in campagna, nel paese in cui si trovava la scuola nella quale Jasmine insegnava da qualche anno, e si erano innamorate di quella villetta elegante e spaziosa, in fondo a un lungo viale alberato, proprio ai margini di San Giovanni del Colle. Era una casa a due piani, più un’ampia doppia mansarda, con un grazioso giardino sul davanti e un piccolo orto nella parte posteriore.

    Il campanile della chiesa parrocchiale, in lontananza, batté sette rintocchi e Marta prese a correre più veloce. Era tardi davvero. Forse maman la aspettava ed era preoccupata per lei.

    Improvvisamente rammentò che sua madre era andata a Genova. Almeno ogni quindici giorni scendeva in città: partiva con la macchina nel primo pomeriggio e tornava per l’ora di cena.

    Aveva sempre molte faccende da sbrigare laggiù e correva da un ufficio all’altro, però tutte le volte riusciva a tornare con qualche piccola sorpresa per i suoi figli. Quando sapeva di non doversi occupare di pratiche troppo lunghe, si faceva accompagnare da alcuni di loro. Quel giorno era partita con i gemelli… No, aveva portato con sé soltanto Cristina. Corrado aveva indugiato un po’ al pianoforte e non era riuscito a terminare i compiti. In questi casi maman era inflessibile: prima veniva il dovere. E Corrado era rimasto a casa.

    Arrivò trafelata al cancello. Si aggrappò alle sbarre e, mentre riprendeva fiato, passò una mano fra i capelli scompigliati; prima di entrare lanciò un’occhiata dentro il giardino.

    Capì immediatamente che era accaduto qualcosa.

    I fratelli erano tutti lì, mancava solo Cristina. Norberto, le mani in tasca e l’espressione del duro, stava appoggiato al cofano di un’utilitaria blu posteggiata accanto all’aiuola delle rose; Corrado, vicino a lui, fissava preoccupato le finestre illuminate del salotto; Laura, seduta a gambe incrociate sulla panchina di pietra, canticchiava a mezza voce una filastrocca. Solo la piccola Chantal, che giocava con i sassolini presso il cancello, si accorse del suo arrivo: alzò verso di lei i suoi grandi occhi azzurri e le regalò un sorriso.

    Marta salutò con la mano la sorellina ed entrò. «Ė arrivata maman?» chiese.

    Norberto la guardò appena e scosse il capo. C’era un gran silenzio, rotto solo dal monotono canterellare di Laura.

    «Ma che cosa succede, stasera?» domandò spazientita, e si chinò per togliere di mano a Chantal una grossa pietra che la piccina aveva cominciato a succhiare.

    «Ė venuta zia Ornella.» annunciò Laura, interrompendo la filastrocca e assumendo un atteggiamento di sussiego, mentre dava l’informazione.

    «Zia Ornella? A quest’ora?» esclamò Marta stupita.

    Norberto indicò col mento l’automobile blu. «Sì, con Maurizio. Hanno chiesto di te.»

    «E perché?»

    «Non lo so, non ce l’hanno detto. – intervenne Laura. – Io volevo spiegarglielo dov’eri, magari ti venivo anche a chiamare, ma non mi sono stati a sentire. Ci hanno chiesto di restare qui e si sono chiusi in salotto con la nonna.»

    «Quando è successo?»

    «Un quarto d’ora fa. – rispose Corrado. – Avevano delle facce!» aggiunse poi, angosciato.

    «Io ho fame. – dichiarò Laura, alzandosi in piedi sulla panchina. – Fra poco avrò anche freddo, se non mi lasciano entrare in casa, e allora…»

    «Basta, Laura!» sbottò Norberto.

    Corrado si avvicinò alla sorella maggiore. «Martine, perché maman tarda tanto a venire?»

    Mentre una morsa di gelo le attanagliava all’improvviso il petto, Marta udì la voce di Maurizio che la chiamava dalla soglia. Accarezzò i capelli del fratello e raggiunse il cugino.

    «Martine, cara…» esordì questi. Poi s’interruppe.

    La morsa gelata di poco prima si trasformò in una sorta di panico. Il ragazzo era pallido e si comportava con lei in modo strano, con un imbarazzo che non c’era mai stato fra loro: avevano quattro anni di differenza, ma erano legati da un affetto profondo, che non ammetteva imbarazzi e silenzi.

    «È meglio che tu venga dentro, c’è qualcosa che dobbiamo dirti.» concluse, spingendola dolcemente in casa e chiudendo la porta.

    Marta non avrebbe mai dimenticato la scena che le si presentò. La nonna era accasciata sulla sua poltrona preferita e singhiozzava convulsamente, torcendo il fazzoletto fra le dita, mentre la figlia, china su di lei, le parlava sottovoce.

    Quando i due giovani entrarono, Ornella si voltò e la mente di Marta venne per un attimo distratta dal particolare di un abito a colori vivaci, in contrasto con l’espressione angosciata.

    Come vide la nipote, Luisa si abbandonò a una crisi di pianto. Ornella lasciò la madre e andò verso la ragazza con le braccia spalancate.

    «Devi avere coraggio, bambina mia. – mormorò abbracciandola – Perché, vedi, cara, è successa una cosa molto brutta.»

    Marta si staccò da lei e indietreggiò, trattenendo il respiro.

    «C’è stato un incidente, Martine.» disse Maurizio, scivolandole accanto.

    Marta si voltò verso di lui. «Un incidente?» ripeté senza capire.

    «Si tratta di tua madre…»

    Marta barcollò, poi si portò la mano alla bocca. «Mio Dio! Ė ferita?» esclamò.

    Per un momento nella stanza si udì solo il pianto convulso di Luisa. Ornella cercava le parole giuste, ma non riuscì a trovarle. Maurizio venne in soccorso della madre.

    «No, Martine.» disse sottovoce.

    Un brivido scosse il corpo della ragazza e la vista le si annebbiò, mentre comprendeva ciò che nessuno aveva il coraggio di dirle.

    «È morta.» mormorò piano. Non era una domanda, ma un’affermazione. Si voltò, appoggiandosi alla parete per non cadere, e coprì il volto con le mani.

    Maurizio la fece girare con un gesto pieno di tenerezza. «Non lasciarti andare, Martine. Non piangere. C’è bisogno di te.»

    «Non sto piangendo.» rispose lei meccanicamente.

    «Non abbiamo ancora detto niente ai ragazzi, ma hanno capito che è successo qualcosa. Dobbiamo dare loro la notizia e penso sia meglio che lo faccia tu, perché conosci bene i tuoi fratelli e saprai come aiutarli. Tuo padre ha detto di contare su di te. Lo so, non è facile. Dopo avrai tempo per sfogare il dolore, ma ora c’è bisogno del tuo aiuto.»

    Marta abbassò lentamente le braccia: il suo viso appariva pallido, esangue; sulle tempie le vene pulsavano rapide, come se stessero per scoppiare, ma gli occhi erano asciutti.

    «Dove è papà?» domandò.

    «È rimasto con Cristina.»

    Marta si riscorre e sbarrò gli occhi. «Lei era insieme a maman! Ma che cosa è successo?»

    «È stato un incidente. – spiegò il cugino con tutto il tatto possibile. – Un’auto è passata col rosso a grande velocità. Zia Jasmine era appena ripartita e non ha fatto a tempo a frenare. Non si è accorta di niente, sai? Non ha sofferto.»

    «Si dice sempre così, immagino. – mormorò Marta. – E Cristina?»

    «Cristina sta male, è inutile che ti racconti delle storie. L’hanno portata al Gaslini con l’ambulanza. – Maurizio controllò l’orologio. – Sono quasi due ore che è in sala operatoria. Tuo padre è andato là, insieme con il mio. C’era ancora il vecchio indirizzo sulla patente della zia. Hanno chiamato e… lui è stato avvertito subito. Prima di correre in ospedale ci ha chiesto di dirlo a te e alla nonna. Però ai ragazzi devi pensare tu.»

    Marta barcollava, ma la sua voce risuonò ferma, quando rispose. «Vai a chiamarli.»

    Ornella prese in braccio la piccola Chantal e fece sedere Laura accanto a sé, ma Corrado, data un’occhiata alla nonna, corse dalla sorella e le affondò il viso nel petto. Marta lo strinse forte, girò lo sguardo su Norberto e Laura, poi cominciò a parlare. Le parole le uscivano spedite, non faticava per trovarle. Ma non ricordò mai, in seguito, che cosa avesse detto.

    Quando finì ebbe l’impressione di trovarsi fuori dal tempo e dallo spazio. Le orecchie le fischiavano, la testa girava; le voci giungevano da lontano, anche quella di Norberto che urlava che non era vero, che maman non era morta; vedeva le cose e le persone come attraverso un velo. Cercò di raggiungere una sedia, ma Corrado, avvinghiato a lei, non le permetteva di muoversi. Chinò il viso e posò le labbra sulla testolina scura.

    Poi il telefono prese a squillare e non smise più: la notizia della disgrazia si stava diffondendo.

    Arrivarono alcune anziane vicine, che entrarono silenziose, un’espressione addolorata sul volto. Accarezzarono i ragazzi e rimasero a lungo accanto a Luisa, commiserando Jasmine, i bambini e scuotendo lentamente le teste canute.

    Arrivò don Angelo, il parroco del paese, che cercò di confortare tutti. A Marta disse poche parole che la ragazza non avrebbe scordato mai più: «A chi più è dato, più è chiesto. Tu hai goduto della presenza di tua madre più a lungo dei tuoi fratelli; hai potuto conoscere non solo la mamma affettuosa, ma anche la donna, perché so come ti aprisse spesso il suo cuore. A te dunque è chiesto più che agli altri. Devi raccogliere ciò che lei ti ha donato e conservarlo con cura, per poterlo trasmettere un giorno agli altri suoi figli.»

    Poi si chiuse in cucina con Norberto e restò a lungo a parlare con lui. Quando il sacerdote se ne andò, il ragazzo apparve più tranquillo.

    Andrea Derossi telefonò dall’ospedale pediatrico. Disse che Cristina era appena uscita dalla sala operatoria, che i medici non potevano ancora pronunciarsi: aveva perso molto sangue, il femore sinistro e il bacino erano fratturati in più punti, la milza, spappolata, era stata asportata.

    «Non riesco a immaginare in che condizioni resterà, se sopravvive.» confidò alla sorella.

    Poi domandò come i ragazzi avessero reagito alla notizia e infine la pregò di fargli recapitare al più presto un vestito da mettere a Jasmine. Quello che aveva al momento dell’incidente era strappato e sporco di sangue. «Chiedi a Marta di sceglierne uno, o decidi tu, se lei non se la sente. Io non so che cosa ci sia nel suo guardaroba. Fissate anche per il funerale. È meglio farlo in paese e seppellirla lì, sempre che Françoise non voglia portarla a Parigi. Ah, ricordatevi di telefonare a Geneviève. Ora torno da Cristina. Richiamerò appena avrò notizie da darvi.»

    «È importante?» chiese Marta quando la zia, con molta cautela, le domandò quale abito volesse far indossare alla madre.

    «Ci si deve occupare anche di queste cose, cara. Preferisci che scelga io?»

    «No, zia, grazie. Lo farò io.»

    Salì nella camera e chiuse la porta dietro di sé. Attraversò la stanza in penombra, inspirando il familiare profumo che vi aleggiava. Pensò che doveva imprimerlo bene nella memoria, perché fra poco sarebbe svanito e non lo avrebbe ritrovato mai più.

    Sulla toilette era posata la spazzola per i capelli che Jasmine aveva usato poche ore prima: Marta allungò la mano ma esitò ad afferrarla, avrebbe significato cominciare a recidere i fili che la legavano a sua madre. Non doveva toccare niente, ogni cosa andava lasciata com’era; così forse maman non se ne sarebbe andata per sempre dalla casa, dalla vita. Sfiorò con la mano la superficie del mobile e si accorse che vi si era posato sopra un sottilissimo velo chiaro. Pensò che la polvere non manca mai, che si accumula soprattutto sulle cose che nessuno usa e ricordò certe visite ai musei: entrando si veniva subito colpiti da un forte odore di muffa, di oblio. Le cose polverose apparivano sempre vecchie e dimenticate.

    No, a maman non doveva succedere! Afferrò la spazzola e cominciò a passarla freneticamente sui suoi capelli. Mentre continuava a ripetersi che non doveva piangere, sentiva un nodo in gola, gli occhi che bruciavano e un lungo, silenzioso grido uscirle dal petto.

    «Ma che cosa stai facendo? Sei diventata pazza?»

    Non aveva sentito aprire la porta e sussultò. Voltandosi vide Norberto fermo sulla soglia. Le lacrime furono inghiottite senza sforzo, ma il braccio le ricadde lungo il fianco e la spazzola di sua madre volò per terra. Il ragazzo si avvicinò, la raccolse e la girò fra le mani.

    «Guarda che casino hai combinato! C’erano i suoi capelli e ora si sono mescolati ai tuoi.»

    Marta osservò l’oggetto su cui lunghi fili castani si intrecciavano con altri più chiari.

    «Non fissarti su queste cose, Norby. È così che rischiamo di perdere davvero maman. Per colpa della polvere. Anche nei nostri ricordi s’infila, se non siamo in grado di impedirglielo.»

    «Ma che cosa dici? – mormorò il fratello – Sei davvero venuta pazza!»

    «Non puoi capire, poi te lo spiegherò… Adesso però aiutami. Scegliamo il vestito più bello per maman.» Spalancò l’armadio e cominciò a frugare fra gli abiti che vi erano appesi.

    Finirono per sceglierne uno rosso, che Jasmine aveva indossato spesso. Quando lo vide, Luisa disse che non era adatto, ma i due ragazzi si rifiutarono di sostituirlo con un altro: a maman piaceva molto quel vestito e appariva sempre allegra, quando lo portava.

    Mentre Ornella lo avvolgeva nella carta velina, i nipoti la guardavano in silenzio.

    «Vuoi anche le scarpe? Io so quali mette maman con quel vestito.» disse a un tratto Laura.

    La zia impallidì. «No, le scarpe non occorrono.» rispose.

    «Perché?» domandò la bimba.

    «Perché i morti non hanno bisogno di scarpe. Non camminano!» esclamò Norberto.

    Corrado si voltò sbigottito verso il fratello, mordendosi il labbro per trattenere un grido, poi uscì a precipizio dalla stanza. Marta fece per seguirlo, ma Laura le si aggrappò, scoppiando a piangere e urlando che voleva maman. Appena riuscì a calmare la bambina, Ornella le ricordò che dovevano telefonare a Parigi e la pregò di parlare lei con la sorella di sua madre: aveva più confidenza e parlava meglio la lingua.

    Conclusa la telefonata, la ragazza si sentiva a pezzi. E sola. Ora cominciava a capire che cosa significasse non avere più maman. Uscì dal salotto, decisa a chiudersi per un po’ nella sua stanza e stava per salire al piano superiore, quando scorse Chantal che giocava con un orsetto di peluche nel sottoscala. La piccola le tese le braccia.

    «Mi dai la pappa?» domandò, mentre la prendeva in braccio.

    «Hai ragione, chérie, – rispose Marta, pensando con un po’ di vergogna che si erano dimenticati di lei – l’ora della tua cena è passata da un po’. Ma provvederemo subito.»

    « Maman?» chiese la sorellina, passandole una mano sul viso per accarezzarla.

    « Maman non… non c’è. Dobbiamo fare tutto da sole, ma vedrai che ce la caveremo.»

    Entrò in cucina e mise la piccola sul seggiolone; poi, ripetendo i gesti che aveva visto fare tante volte a sua madre, scaldò del passato di verdura e vi mise dentro un formaggino. Quando ebbe terminato, si sedette accanto alla sorellina, le pulì il visetto e le manine con una salvietta umida, le allacciò il bavaglino al collo e infine le consegnò il cucchiaio. Chantal mangiava con avidità e in pochi minuti il piatto si vuotò. Allora Marta sbucciò una mela, la tagliò in spicchi e gliela diede. Chantal mangiò anche quella, poi le tese le braccia: «Andiamo a fare dodo…» farfugliò. La sorella la prese in braccio e lei si girò, cercando una posizione comoda. Trovatala, sbadigliò, si cacciò il pollice in bocca e chiuse gli occhi.

    Marta pensò che avrebbe dovuto lavarla, ma ormai era tardi, il piccolo petto si alzava e si abbassava con ritmo regolare. Salì al piano superiore con la sorellina addormentata fra le braccia, la spogliò, le infilò il pigiamino, la mise dentro il letto e la coprì con cura. Infine uscì dalla camera e chiuse la porta senza far rumore. Pensò che anche Laura e Corrado sarebbero dovuti andare a letto. Ma dove era Corrado?

    Salì la scala che portava alle mansarde, si avvicinò alla porta di sinistra e rimase in ascolto; non udiva alcun rumore, però avvertiva ugualmente la presenza del ragazzino. Allora entrò. La stanza era completamente buia, solo un lieve fruscio confermò la sua intuizione. Accese la lampada sul comodino e si guardò attorno. Il fratello era steso sul letto.

    «Da quanto tempo sei qui tutto solo?»

    «Non lo so. Mi sembra che il tempo non ci sia più e che questa non sia la nostra casa. Tutta quella gente! E le cose strane che si fanno, che si dicono… Così sono venuto quassù. Non è cambiato niente qui. – Rimase per un po’ in silenzio, poi riprese a parlare sottovoce. – Sai? Continuo a ripetermi che maman non c’è più, ma non ci credo. Non riesco a crederci. È come se avessi dentro un’altra persona che me lo ripete in continuazione: " Maman è morta, non la vedrai mai più". Io vorrei non ascoltare, ma… Oh, è terribile! Mi sembra di venire matto. Diventano matti i ragazzi cui muore la mamma, Martine?»

    «No, Corrado, non diventano matti. Le mamme non muoiono mai del tutto.»

    «Ma la mia è morta! Sai che cosa ho pensato? Che è stata cattiva. Che bisogno c’era di morire? Non doveva farlo! Non doveva lasciarmi solo.» Scoppiò in un pianto convulso.

    «Lei non voleva morire. È…successo. Se avesse potuto, non ti avrebbe mai lasciato. E poi non sei solo, ci siamo tutti noi con te.»

    «Morirete anche voi! Tu, nonna Luisa, Norberto, le bambine… E vi porteranno via senza scarpe. Pure Cristina sta morendo. E voglio morire anch’io! – Si gettò riverso sul letto, singhiozzando disperato. – Voglio andare da maman. Con Cris, ci voglio andare! È la mia gemella, e lei diceva sempre che ci aveva tenuti insieme sul suo cuore. Ora però se ne va, si porta via Cristina e lascia qui me!»

    Marta lo lasciò sfogare. Quando il pianto si fece più pacato, gli prese la mano.

    «Forse Cris non morirà. Tu parla con Dio, chiedigli di lasciarci almeno lei. Ti ascolterà più di tutti gli altri, perché sei il suo gemello. Prega, Corrado! Vuoi farlo insieme con me?»

    Lui non rispose, ma le strinse forte la mano e girò appena la testa. Nella penombra Marta lo vedeva muovere le labbra, senza però emettere suoni. Allora cominciò a pregare anche lei. E all’improvviso una frase udita in chiesa qualche domenica prima risuonò nel desolato silenzio della sua anima: Anche se tua madre ti abbandonasse, Io non ti abbandonerò.

    «Io non ti abbandonerò…» mormorò.

    «Lo so. – rispose Corrado – Ma come faccio, senza la mia mamma?»

    Marta non si era accorta di aver parlato ad alta voce e la domanda la colse di sorpresa.

    Abbassò lo sguardo fino a incontrare quello smarrito del fratellino. Comprese allora che c’era in lei qualcosa di diverso, una forza nuova, la certezza di aver attraversato le tenebre, ma di esserne uscita vittoriosa. Non fece nessuno sforzo a sorridere, mentre rispondeva.

    «Sarò io, d’ora in poi, la tua mamma.»

    ​Capitolo II

    La chiesa parrocchiale di San Giovanni del Colle era affollatissima, venerdì 22 aprile 1966, quando, alle dieci del mattino, si svolse il rito funebre per Jasmine Vallière Derossi.

    Quelli del paese c’erano tutti. Gli uomini stavano in fondo, impacciati; le donne, sedute nelle panche dietro l’elegante folla giunta dalla città, biascicavano preghiere e sgranavano rosari, senza resistere alla tentazione di alzare lo sguardo per dare qualche occhiata intorno.

    Erano venuti i parenti di Jasmine, gli amici, i conoscenti e i curiosi che avevano spiato la vita della bella straniera separata dal marito, che faceva la professoressa e viveva con la suocera e sei figli nella casa più costosa del paese; c’era la preside della scuola in cui aveva insegnato, c’erano i colleghi, gli alunni. E la sua famiglia, osservata con interesse da tutti.

    La gente non si occupava tanto di Luisa e dei ragazzi, volti ormai familiari nel borgo, quanto di Andrea, al cui passaggio si era levato un mormorio: È il marito!; di Françoise, che aveva intenerito le donne più anziane, quando si erano rese conto che il dolore di una madre parigina non era differente da quello di qualunque fra loro avesse perso un figlio; di Geneviève e della sua famiglia: il marito Didier, il figlio Eugène e Dominique, una brunetta coetanea dei gemelli.

    I parenti avevano preso posto nei primi ordini di panche, a sinistra del catafalco: i ragazzi davanti, con le nonne, gli altri dietro. Solo Andrea aveva preferito isolarsi e si era spostato verso il muro laterale del transetto, accanto alla nicchia dedicata alle Anime del Purgatorio, che poteva vedere con la coda dell’occhio e che parevano fissarlo minacciose. Il gioco di luci provocato dall’oscillazione della lampada accesa davanti al quadro faceva scaturire da quelle figure bagliori improvvisi, come se scagliassero su di lui scintille sfuggite alle fiamme da cui erano avvolte. Per incenerirlo, non certo per associarlo alla prossima ascesa al Cielo. Non era un fastidio grave, quella vicinanza, ma rappresentava un ulteriore contrattempo per un uomo già provato dalla disgrazia e assillato da preoccupazioni, dubbi, crisi di coscienza.

    Ormai doveva restare lì, non poteva spostarsi più avanti, perché si sarebbe trovato sotto lo sguardo della suocera, ben peggiore per lui di quello dei santi purganti. Ed era meglio tenersi lontano anche dalla cognata, la belle sœur Geneviève, che la sera prima, appena arrivata, gli aveva chiaramente manifestato ciò che pensava di lui. Preferiva stare a una certa distanza anche dalla madre e dai quattro figli presenti alla cerimonia: nessuno sarebbe stato disposto a comprendere la posizione imbarazzante in cui si trovava lui, recente vedovo di una donna che aveva avuto tutte le virtù. Perché Jasmine era stata bella, intelligente, affascinante, colta, sensibile. Inoltre lo aveva amato profondamente e si era rivelata una madre straordinaria per i loro figli. E lui l’aveva ferita, umiliata, tradita.

    Mentre il sacerdote saliva all’altare avvolto nei paramenti della liturgia dei defunti, lo sguardo di Andrea cadde sulla bara e il suo cuore sobbalzò. Non riusciva a persuadersi che Jasmine fosse morta e ogni volta che si scontrava con quella realtà, riceveva un nuovo trauma.

    Senso di colpa o un sentimento più nobile? Che cosa aveva rappresentato per lui, Jasmine?

    Indubbiamente l’aveva amata. Verso quella donna aveva provato un’attrazione indescrivibile fin dal primo incontro. E le aveva concesso ciò che molte avevano sognato invano: sposarlo.

    Avevano fatto l’amore un’infinità di volte; aveva baciato con avidità la sua bocca calda, gustosa, invitante; aveva esplorato ogni particolare del suo corpo; l’aveva fatta gridare di piacere e piangere di dolore; l’aveva ingravidata sei… no, cinque volte, e sempre aveva visto la sua figura perfetta deformarsi, per poi tornare bellissima. L’aveva osservata mentre allattava i suoi bambini e li stringeva fra le braccia. E l’aveva lasciata andare via.

    Lei aveva quarantun anni, allora, ed era incinta della piccola Chantal; lui quarantasei e temeva la vecchiaia incalzante. Di colpo ricordò l’eccesso di collera con cui l’aveva investita, quando gli aveva annunciato quella nuova, inopportuna, gravidanza; come brutalmente, quasi con malignità e compiacimento, avesse messo in dubbio la propria paternità, per ferirla in ciò che per lei era più sacro, nobile e bello.

    E tutto per una ragazzina che aveva pochi anni più della loro figlia maggiore.

    Lei non gli aveva mai rinfacciato niente. Dalla sua bocca non era uscita una sola parola di condanna. Anzi! Se sua madre non lo aveva maledetto, la sorella aveva continuato a parlargli e i figli non avevano rinnegato il suo nome, il merito era stato unicamente di Jasmine che, con coraggio e pazienza, aveva saputo recuperare i capi intricati della matassa familiare, sciogliere i nodi più vistosi e intrecciare un sottile, delicato lavoro di equilibri.

    Spesso Andrea aveva avuto l’impressione che la moglie lo deridesse. Era una sensazione sgradevole, che aveva provato per la prima volta un giorno in cui lei era arrivata nel suo ufficio proprio mentre Elena ne stava uscendo. Jasmine non poteva sapere che quella ragazza era la sua rivale, tuttavia Andrea aveva avuto l’impressione di leggerle sul viso un’espressione di scherno. La stessa impressione che provava in quel momento. Già all’obitorio, quando si era trovato davanti il corpo senza vita di lei e aveva posato lo sguardo sulle palpebre abbassate da una mano ignota, si era sentito preda della sua ossessione. Per tutti, nella morte, Jasmine aveva un’aria serena. Per lui, aveva un sorriso di scherno. Era però certo che, quando fosse venuta la sua ora, non avrebbe avuto un aspetto simile. Sarebbe morto arrabbiato lui, con la schiuma alla bocca e i denti digrignati. Li stava digrignando anche adesso, mentre pensava a quelle cose. Per carità! Con tutto il paese che l’osservava come se fosse il demonio. Si ricompose più in fretta che poté e tornò a guardare il catafalco.

    La bara era molto semplice, di legno grezzo, con una piccola croce incisa sopra. L’aveva voluta così Jasmine stessa, e molti si erano stupiti che una donna ancora giovane e in perfetta salute si fosse preoccupata di cose simili. Soltanto la sorella e la cognata sapevano che il pensiero della morte l’assillava da tempo. Ma non temeva per sé. Che cosa sarebbe dei miei bambini, se mancassi io? – si era chiesta spesso. – Su Andrea non potrebbero certo contare.

    La chiesa era piena di corone e l’odore dei fiori rendeva l’aria irrespirabile. Sulla bara però era stato posato solamente un piccolo cuscino di rose gialle, con un nastro bianco su cui, a lettere dorate, erano scritti sei nomi: Marta, Norberto, Cristina, Corrado, Laura, Chantal.

    Anche Françoise Vallière fissava quella bara e intanto chiedeva a Dio che male avesse fatto, nella vita, per veder morire tragicamente due dei suoi tre figli. Prima Norbert, l’unico maschio, ammazzato dai tedeschi durante la guerra, e ora la più piccola.

    Quando, due sere prima, Geneviève era arrivata trafelata a casa sua in un’ora così tarda, aveva capito immediatamente che era successo qualcosa di grave, ma non aveva pensato a Jasmine.

    Il discorso del sacerdote doveva essere commovente, perché vedeva parecchia gente asciugarsi le lacrime. Qualche frase era riuscita a comprenderla anche lei e sapeva che il brano del Vangelo letto era quello di Matteo sulle Beatitudini, perché era stata presente la sera prima, quando Marta e Norberto l’avevano scelto; ma conosceva poco l’italiano e avrebbe avuto comunque bisogno di più concentrazione nell’ascolto. In quel momento però non riusciva neppure a formulare una preghiera, poteva pensare solo alle sue creature: a Norbert, che aveva scritto meravigliose poesie nelle aule della Sorbonne, come al fronte; a Jasmine, che in un giorno lontano era rientrata dicendo di aver conosciuto un giovane italiano bellissimo e molto simpatico; a Geneviève, seduta in quel momento dietro di lei, che ogni tanto le accarezzava i capelli. Geneviève, la figlia di mezzo, a volte troppo trascurata. L’unica che ora le restava.

    Un movimento la fece voltare: la piccola Laura aveva lasciato cadere il fazzoletto e Corrado si era chinato per raccoglierlo. Il suo pensiero si soffermò allora con tenerezza su quei nipotini italiani, che conosceva così poco. Tutti gli anni, d’estate, avevano trascorso qualche settimana insieme a Parigi o al mare, e durante le vacanze natalizie a volte Jasmine era tornata da lei con il marito e i bambini. Ma il tempo in quelle occasioni passava in fretta, e sebbene i ragazzi, o almeno i più grandi, parlassero francese correntemente, il rapporto con loro non aveva mai potuto avere la continuità che c’era invece in quello con Eugène e Dominique.

    Françoise scopriva ora i suoi nipoti italiani. E li ammirava, perché erano pieni di coraggio e dignità. Eccoli lì, con i visetti sollevati, intenti ad ascoltare le parole del sacerdote. Marta non aveva versato una lacrima e si era occupata dei fratellini con tenerezza materna, con grande senso di responsabilità. Norberto, che ricordava come un ragazzino sciocco e pieno di sé, appariva ora un piccolo uomo controllato e forte. Laura era graziosa e vivace, ancora troppo piccola perché si potessero notare i cambiamenti che la perdita della madre aveva provocato in lei, e Chantal le appariva solo come un delizioso batuffolo di tenerezza e simpatia.

    Corrado invece era quello che, insieme con Marta, l’aveva colpita di più: aveva una sensibilità particolare, qualcosa di ancora indefinito, che soltanto un occhio esperto poteva riconoscere. La stessa sensibilità che aveva avuto il suo Norbert, al quale il nipotino assomigliava tanto pure nel fisico. Poi c’era Cristina.

    A Cristina stava pensando anche Geneviève.

    Appena arrivata a San Giovanni, il pomeriggio precedente, dopo una sosta in quell’assurda casa di Jasmine e un’altra nell’unico albergo del paese, per rinfrescarsi e cambiare abito, era stata accompagnata dal cognato nella camera ardente dell’ospedale San Martino per vedere la sorella, poi aveva chiesto di andare dalla nipotina, al Gaslini.

    Le due immagini si fondevano ora in una sola, nella sua mente. Cristina era quella, fra le nipoti, che più assomigliava alla madre: gli stessi capelli scuri, gli stessi occhi azzurri, la stessa forma del viso. La vista della sorella, composta nella rigidità della morte, l’aveva turbata, ma non quanto ritrovare poco dopo gli stessi tratti, deformati dal dolore, nel volto di sua figlia.

    Cristina aveva cominciato solo nella tarda mattinata a riprendere conoscenza e veniva ancora tenuta sotto l’effetto di potenti sedativi. I medici non avevano potuto ingessarla a causa delle ferite aperte sul fianco e sulla gamba, così era stata posta in trazione. L’intervento era stato lungo e aveva comportato parecchi rischi: avevano dovuto asportarle la milza e praticarle varie trasfusioni di sangue. Ora due tubicini le uscivano dalle narici e un flacone appeso a capo del letto le centellinava il contenuto nel corpo attraverso un ago infilato dentro il braccio. Era pallidissima e aveva due profondi solchi scuri sotto gli occhi. Geneviève e Andrea poterono entrare nella camera solo uno per volta. Andò prima lei, che si avvicinò silenziosa al letto.

    Cristina sembrava addormentata ma, mentre la zia la guardava, aveva mosso un poco la testa e socchiuso gli occhi. Geneviève le aveva allora parlato sottovoce.

    «Cristina , ça va, mon petit chou?Parle–moi, chérie.»

    « Maman…» aveva mormorato la piccola, scambiando la sua voce per quella della madre, poi era ripiombata nell’incoscienza. Geneviève, sconvolta, era uscita di corsa dalla stanza e aveva atteso Andrea passeggiando nervosamente in corridoio. Quando il cognato era tornato, l’aveva guardato negli occhi con disprezzo e aveva mormorato una sola parola, in italiano perfetto: «Bastardo.»

    Nessuno dei due aveva più parlato, mentre rientravano a San Giovanni.

    De profundis clamavi ad te, Domine… invocava mentalmente Luisa, che non conosceva il latino, ma che aveva sempre pregato in quella lingua e non si adattava alla nuova liturgia. Proprio dal profondo chiamava il suo Signore, perché quello che era capitato le pareva l’abisso. Era morta Jasmine.

    Si era sentita male, quando l’aveva saputo. L’aspettava a casa per la cena, insieme ai bambini, aveva già preparato la tavola. Invece era arrivata Ornella con quella notizia terribile.

    Un incidente. È successo a un incrocio di Corso Torino. Lo sterzo si è conficcato nello sterno e ha sfondato la cassa toracica. È morta sul colpo.

    «Ma perché? – si chiedeva Luisa – Perché proprio Jasmine? Perché a noi?»

    Forse era la punizione divina per il male che aveva fatto Andrea. Che idea assurda le era venuta in testa, ora! Se Dio avesse voluto punire suo figlio, gli avrebbe fatto morire l’amante, non la moglie. E Cristina? Che cosa c’entrava quella povera bimba nelle discordie fra i genitori? Le colpe dei padri… Del padre, nel suo caso. No, non doveva pensare questo. Era successo e basta. Un incidente, come tanti di cui si legge sui giornali, forse con un pizzico di curiosità, soprattutto quando si diventa vecchi. Senza pensare al dolore che c’è dietro. Poi, qualche volta, tocca a noi. Anche Jasmine era finita sui quotidiani.

    Pensò al giorno in cui l’aveva conosciuta: una ragazza deliziosa. «Suocera? – aveva detto con quella sua voce un po’ roca. – Non mi piace questa parola. Noi diciamo belle maman. Posso chiamarvi così?» Sì, una ragazza deliziosa, che le aveva regalato sei meravigliosi nipotini. Ad Andrea però tutto questo non era bastato.

    Rimasta vedova, era andata a vivere da loro e, quando si erano separati, aveva dovuto scegliere con chi restare. Andrea era suo figlio, Jasmine quasi una figlia, ormai. Aveva messo da parte i sentimenti e preso una decisione razionale: l’errore non l’aveva fatto Jasmine e i bambini sarebbero rimasti con la madre. La via da percorrere era dunque chiara.

    Avevano trascorso momenti felici a San Giovanni. Due anni di serenità. Erano pochi per chi, come lei, anni addosso ne aveva tanti. Si sentiva vecchia per crescere sei bambini da sola, ma non poteva permettere che fosse Andrea a occuparsene. La sera della disgrazia, molto tardi, verso mezzanotte, aveva lasciato l’ospedale ed era salito in paese da loro. Appena arrivato, aveva chiesto di fare una telefonata e Luisa lo aveva sentito parlare sottovoce. Non capiva le parole, ma conosceva quel tono di voce. Era scoppiata in lacrime.

    «Se fossi morto io, piangeresti così?» le aveva domandato lui, dopo.

    «Se fossi morto tu, Jasmine non avrebbe telefonato all’amante.»

    Laura scese dalle ginocchia di Marta e si sedette sulla panca accanto a Corrado.

    Non aveva più voglia di stare in chiesa ed era stanca di fare la fillette sage, come continuava a raccomandarle mamie. Non era simpatica, questa mamie. Mica come nonna Luisa, che non faceva mai prediche e le sorrideva sempre, anche ora che era tanto triste. Mica come maman che… Maman. Non era tornata dal suo viaggio a Genova, due sere prima. Laura l’aveva attesa a lungo in giardino, insieme con i fratelli. Invece erano arrivati Maurizio e zia Ornella, però non si erano fermati a giocare con loro, neppure con Chantal che era sempre coccolata da tutti. Avevano raccomandato di restare lì per un po’ e si erano chiusi in casa con la nonna. Più tardi Martine li aveva fatti entrare in salotto e aveva detto che maman non sarebbe più tornata perché Dio aveva deciso di prenderla con Sé. Laura non aveva capito bene che cosa volesse Dio da maman e stava per chiederlo, ma Norberto si era messo a gridare che era morta e da quel momento erano successe tantissime cose, ma nessuna bella.

    Che maman fosse morta lei non lo aveva creduto. Sì, la gente moriva qualche volta: smetteva di parlare, di muoversi e la mettevano sottoterra. Don Angelo, al catechismo, aveva spiegato che tutti prima o poi devono morire, che la colpa è del peccato originale e che la gente, quando muore, si ricongiunge a Dio. Maman però non c’entrava con la gente. Lei era maman.

    Così aveva cominciato ad aspettarla. Ma non era tornata. Dopo era capitata quella faccenda delle scarpe: Norby aveva detto qualcosa sui morti che non camminano, lei si era spaventata ed era scoppiata a piangere. Aveva chiamato maman, l’aveva invocata con uno struggimento tale da credere che le si sarebbe spezzato il cuore. Ma non era venuta.

    Il giorno dopo non l’avevano mandata a scuola e c’era stata ancora confusione in casa. Erano arrivati mamie, tata Geneviéve, tonton Didier e i cugini da Parigi. In serata finalmente aveva rivisto maman: a Genova, in un posto strano, una camera piena di fiori, ma senza mobili, né quadri. Aveva subito pensato che a sua madre non erano mai piaciute le stanze spoglie.

    C’era solo un letto, lì dentro; maman ci stava distesa sopra e dormiva. Però era strana, sembrava che fosse diventata di cera e aveva una posizione insolita per lei. Era anche andata a letto vestita. Le scarpe però non le aveva.

    Laura si era avvicinata e l’aveva chiamata piano. Maman non si era svegliata. Aveva chiamato più forte, ma ancora niente. Così aveva capito. Maman era morta davvero. Ora l’avrebbero messa sottoterra. La sua anima invece era volata in Cielo, con Dio, e ci sarebbe rimasta per l’eternità. Cioè sempre, sempre, sempre…

    Si era svegliata urlando, quella notte. Martine era venuta di corsa e l’aveva portata nel suo letto, proprio come faceva sua madre quando lei stava male. Le cose allora le erano sembrate un pochino meno brutte. Martine aveva lo stesso odore buono di maman ed era calda come lei.

    Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia…Beati quelli che si sentono soli. Beati i ragazzi con le spalle forti per sopportare la vita. Beate le madri che muoiono insieme ai loro bambini. Beati gli orfani… beata me.

    Le Beatitudini erano il brano del Vangelo che Jasmine aveva amato di più, quello che, insieme con Norberto, aveva scelto perché venisse letto durante la Messa. Ora però Marta comprendeva quanto fosse difficile metterle in pratica. Come si fa a sentirsi beati, quando ci muore la madre?

    Lei si era sempre considerata una ragazza fortunata. D’accordo, i suoi genitori erano separati, vedeva poco suo padre e sapeva che viveva con un’altra donna; però maman le aveva spiegato la situazione e non si era sentita menomata dalle vicende familiari. Aveva sua madre, la nonna, due fratelli, tre sorelle. Una famiglia bellissima. Aveva anche il bosco, i suoi libri, i quaderni pieni dei versi che scriveva. Ma ora le cose avevano perso il loro splendore.

    Come le sembravano sciocche e vuote le sue poesie, mentre si scontrava con la realtà della vita! Come inutili le ore trascorse presso il torrente e sotto la quercia a pensare… a che cosa? Non avrebbe più potuto confidare a maman tutte le idee che le nascevano in testa.

    Non sarebbe neppure più riuscita a trovare il tempo per intrecciare una trama. Pensava, sì, ma a cose diverse. Quella mattina era stata più di mezz’ora nella camera delle bambine, davanti all’armadio spalancato, per decidere che cosa far indossare a Laura per il funerale di maman.

    Il funerale di maman. Come suonavano strane quelle parole! A forza di ripeterle, sembravano perdere ogni significato. Continuava a ripeterle dentro di sé, fino a farle diventare nient’altro che suoni privi di senso. Norberto l’aveva accusata spesso di giocare con le parole.

    Certo! Non avrei deciso di fare la scrittrice, altrimenti. aveva sempre risposto lei. Ma era inutile perdersi in rigiri lessicali, questa volta. La realtà restava la stessa.

    Il funerale di maman, dunque . Aveva provato a immaginarselo, una volta, e subito si era vergognata della propria fantasia troppo fervida. Si era vista vecchia, a quel funerale, con tutti i capelli bianchi e le rughe sul viso. Tutti loro erano vecchi, anche Chantal. Ma camminavano dritti, anche Cristina.

    La mattina prima Maurizio, che aveva dormito a casa loro, in camera con Norberto, era sceso in cucina molto presto, verso le sei. Lei era già lì da parecchio tempo. Si era stesa sul letto, ma non era riuscita a prendere sonno, temeva il momento del risveglio. Poi Laura si era messa a urlare ed era corsa a calmarla; l’aveva portata nel suo letto e l’aveva vegliata a lungo, mentre si riaddormentava. Infine era scesa di sotto.

    «Preparati, – aveva detto il cugino – ti porto da tua madre.»

    Marta aveva scrollato la testa. «Ci andremo più tardi. Devo aspettare che i bambini si sveglino. Se si accorgessero che sono andata via, si spaventerebbero.»

    «Sei diventata grande, Martine.» aveva mormorato il giovane, guardandola pensoso.

    Lei si era alzata per mettere la caffettiera sul fuoco. «No, sono diventata orfana.» aveva risposto.

    Il discorso di don Angelo era stato semplice ma toccante, soprattutto quando aveva sottolineato le doti della defunta come madre esemplare e ottima insegnante. Ora che l’omelia era finita, il sacerdote si riavvicinò all’altare e alzò gli occhi verso la cantoria, in fondo alla chiesa, dove si trovava la consolle del grande organo a canne.

    Fin dalle prime note Corrado si voltò a guardare lassù e rimase in ascolto. L’organista stava suonando il Notturno di Chopin, quello in Mi Maggiore. Aveva chiesto lui di farlo eseguire: era un dono per maman, che aveva amato la musica e, in particolare, quella di Chopin.

    Il Notturno opera nove, numero due – si chiamava così – piaceva moltissimo anche a Corrado, che si era impegnato tanto per imparare a suonarlo sul suo pianoforte. Poi, un pomeriggio in cui era cominciato a piovere all’improvviso, nonna Luisa lo aveva mandato in parrocchia con un ombrello per riportare a casa Laura, che era alla lezione di catechismo, senza farla bagnare. Era arrivato presto e aveva deciso di aspettare in chiesa.

    Non c’era nessuno a quell’ora, solo Ernesto, il vecchio organista, che si stava esercitando.

    Che cosa meravigliosa un organo che suona in una chiesa deserta! aveva pensato ed era rimasto ad ascoltare. Allora aveva udito la trascrizione per organo del Notturno che piaceva tanto a lui e a maman.

    «L’hanno suonato anche al suo funerale. – aveva spiegato Ernesto, quando il ragazzino si era arrampicato in cantoria, chiedendo di poterlo ascoltare ancora una volta. – A Parigi, nel milleottocentoquarantanove. La chiesa era quella della Madeleine.»

    «Chopin era francese?»

    «Veramente era polacco, però viveva a Parigi. Tu la conosci bene, vero?»

    Corrado aveva annuito, sorridendo.

    Sorrideva anche adesso. Marta e Françoise, sedute accanto a lui, si scambiarono un’occhiata, ma il ragazzo non se ne accorse: stava suonando per maman su una tastiera immaginaria e intanto pensava che la musica è meravigliosa, riesce a esprimere quello che con le parole non si può spiegare. Lui provava angoscia, smarrimento, dolore per l’assenza di maman e tanto amore per lei. Non sarebbe riuscito a dirlo, ma le note si levavano chiare nella chiesa gremita e parlavano al suo posto.

    Anche Chopin aveva provato quei sentimenti? Forse sì. Maman gli aveva raccontato che era stato un uomo sensibile e infelice. Quasi tutti i musicisti erano infelici, ma lui doveva esserlo stato un po’ più degli altri, per riuscire a comporre della musica così bella.

    Anche Corrado era infelice e non riusciva a dirlo. Chopin invece lo esprimeva attraverso la musica. E l’aveva scritta a Parigi, quella musica, nella città in cui era nata sua madre. Aveva fatto bene a scegliere il Notturno: era certo che lei stesse ascoltando e lo gradisse moltissimo.

    «È per te, maman. So che ti piace e ho voluto che tu lo sentissi ancora una volta. Grazie per avermi insegnato ad amare la musica. Voglio confidarti una cosa: da grande farò il pianista. Suonerò sempre pensando a te.»

    Per tutta la Messa Norberto aveva tenuto gli occhi fissi sul pavimento. Neppure al momento della Comunione si era mosso: non era andato alla balaustra insieme ai fratelli. Era rimasto immobile, poco lontano dal padre.

    Mentre Marta tornava al suo posto, i loro sguardi si erano incrociati. Norberto aveva letto un interrogativo negli occhi della sorella e aveva subito distolto i suoi: lei sapeva leggergli dentro, quasi quanto sua madre. Ma non voleva che capisse ciò che aveva nell’animo. Proprio non riusciva a guardarla, come non riusciva guardare Corrado, Laura, la nonna e la bara di maman. Con suo padre invece non c’erano problemi. Quanto a dignità, stavano sullo stesso piano.

    Erano due vigliacchi, loro. Eccolo lì, il dottor Derossi, con l’espressione di circostanza stampata in faccia, quando lo sapevano tutti che se n’era fregato di sua moglie, e che se ne fregava anche adesso. Tanto, a casa aveva l’amante ad aspettarlo. Ed ecco ora suo figlio. Il maggiore, l’erede. La stessa faccia. La stessa anima nera.

    Non riusciva a pensare a sua madre senza aver l’impressione di profanarne la memoria. Perché si sentiva una canaglia. " Pas une canaille, – avrebbe detto Jasmine – seulement mon enfant prodigue". E lui avrebbe capito prodige. Sì, era davvero un portento! Di mascalzonaggine.

    Quante discussioni in casa! Con nessuno degli altri suoi figli maman aveva mai dovuto alzare la voce. Con lui sempre. Norberto che non studiava; Norberto che diceva parolacce; che stuzzicava Marta, insultava Laura, tiranneggiava i gemelli… I suoi fratelli erano bravi ragazzi, ma lui era prepotente e si sentiva più forte, così aveva sempre la meglio. Su Marta, veramente, no. Era una guerra verbale, con lei, e ne usciva facilmente sconfitto. Le sue battute erano offensive, quelle della ragazza argute.

    Anche l’episodio che ora lo metteva in crisi era cominciato come ogni altro: una discussione fra lui e Corrado. Niente di grave, ma il fratellino aveva ragione e lui non avrebbe mai ammesso di avere torto. Così la questione era andata avanti fino a quando non era intervenuta Jasmine. Quel giorno gli aveva detto di tutto. Norberto però, ferito nel suo orgoglio e sentendosi osservato dagli altri, aveva fatto lo spaccone anche con lei.

    «Taci, donna!» le aveva detto, servendosi di un’espressione che usava spesso con le sorelle. Veramente gli era scappata, non avrebbe voluto offendere maman, ma quando se n’era reso conto era ormai troppo tardi.

    « Tiens, grand homme!» aveva risposto lei, lasciandogli andare un sonoro ceffone sulla bocca. Il bruciore del labbro gonfio era durato poche ore; la coscienza invece bruciava ancora adesso. Ora più che mai.

    È successo venerdì, proprio una settimana fa. pensava. Preso dai suoi rimorsi, non si era accorto che la funzione era arrivata in fondo e che il sacerdote era sceso per benedire la salma.

    Taci, donna!. Non avrebbe parlato mai più. E lui non avrebbe mai più potuto chiederle scusa. Fra poco l’avrebbero messa sottoterra, poi la vita avrebbe ripreso a scorrere, senza di lei.

    Senza i suoi rimproveri, senza i suoi ceffoni, ma anche senza il suo amore, senza la sua protezione e il suo aiuto. Quanto si sentiva piccolo, il grande Norberto, senza maman! Più piccolo di sua sorella Chantal. Fra poco… Doveva fare qualcosa per sua madre. Subito. Non poteva lasciarla andare via per sempre senza chiederle perdono, senza compiere un gesto che cancellasse per entrambi quell’episodio. Un gesto che li unisse per l’eternità.

    In Paradiso ti portino gli angeli… intonò il parroco. I necrofori si avvicinarono al catafalco e tolsero il cuscino di fiori gialli. Maurizio, suo fratello Pierluigi ed Eugène si alzarono e andarono a mettersi ai lati della bara. L’avrebbero portata loro fuori dalla chiesa, erano ragazzi forti. Tre soli, però, e ci volevano quattro persone.

    Norberto raggiunse i cugini. Due sere prima aveva detto a Laura che i morti non possono camminare: dunque, lo avrebbe fatto lui per maman. E così le avrebbe chiesto scusa.

    Lo zio Giacomo cercò di fermarlo, mentre si caricava quel peso enorme.

    «Lascialo stare!» disse Marta, decisa.

    «Non ce la farà. Guardalo, è tanto più piccolo degli altri!»

    «È più giovane, ma è forte. E comunque deve farlo.»

    Mentre seguiva il piccolo corteo, però, teneva il fiato sospeso e pregava perché le forze del fratello reggessero. Sapeva quanto fosse importante per lui.

    Deposta la bara sul furgone spalancato, Norberto restò a guardarla in silenzio, mentre il sudore gli colava lungo il viso. Ripensò a tutte le volte in cui era corso da sua madre per chiederle scusa. " Ah, c’est mon enfant prodigue qui revient chez lui!" esclamava lei abbracciandolo e tutto era dimenticato. Lo aveva perdonato, questa volta? Se solo avesse potuto saperlo…

    Marta si fece largo tra la folla e lo raggiunse. Erano uno di fronte all’altra adesso, e si guardavano negli occhi. Quelli di Norberto erano di nuovo limpidi, non la evitavano più. Lei sorrise, passandogli un fazzoletto sulla fronte bagnata.

    «Ora maman può veramente essere fiera di te.» disse, con la sua voce un po’ roca, straordinariamente simile a quella della madre.

    «No, non può. Io sono son enfant prodigue

    « Tu es son enfant. Seulement son enfant. Comme tous les autres.»

    ​Capitolo III

    Andrea e Jasmine si erano conosciuti nel 1947, a Parigi. A Jeu de Paume, per l’esattezza, davanti a una tela di Degas.

    Era un pomeriggio di fine novembre e un acquazzone si era riversato sulla città. Jasmine aveva deciso di andare a visitare il Museo degli Impressionisti, inaugurato da poco, perché era sicura di non trovarlo affollato, in una giornata come quella. Andrea invece c’era capitato per caso: sprovvisto di ombrello, era stato sorpreso dalla pioggia ed era entrato per ripararsi.

    Si trovava a Parigi per incontrare alcuni fornitori della piccola, ma già ben avviata industria farmaceutica che era riuscito a impiantare con il cognato. Erano partiti quasi da niente. Suo padre, titolare di una fabbrica di saponi e prodotti di bellezza, lo aveva spinto a laurearsi in Chimica: gli sarebbe servito per ingrandire l’attività, il giorno in cui gliel’avesse ceduta.

    Poco prima dell’inizio della guerra aveva conosciuto Giacomo Santini, più vecchio di lui di qualche anno, che già lavorava nel campo farmaceutico e aveva quindi dell’esperienza, oltre un discreto capitale di famiglia. Il conflitto mondiale, in cui molti giovani persero la vita e altri il patrimonio, fu per loro – che erano riusciti a evitare l’arruolamento – l’inizio della fortuna.

    Impiantarono un primo laboratorio nei locali in cui si era svolta l’attività del vecchio Derossi. I medicinali scarseggiavano e i due soci sperimentarono la produzione di alcuni farmaci a basso costo, che ebbero successo sul mercato. Nel frattempo Andrea si era laureato e Giacomo ne aveva sposato la sorella, Ornella. Alla fine della guerra, grazie al lancio di alcuni prodotti già diffusi in America, l’azienda era in piena espansione.

    Nel novembre del 1947, dunque, Andrea Derossi, comproprietario della DERSAN, si trovava a Parigi per discutere le clausole di

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