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Io e l'altro nella relazione d'aiuto: Per un'etica dell'incontro
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E-book158 pagine2 ore

Io e l'altro nella relazione d'aiuto: Per un'etica dell'incontro

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L'orizzonte culturale odierno è caratterizzato da ciò che il filosofo Pier Aldo Rovatti ha definito Homo psychologicus, ossia un soggetto destrutturato, indebolito, stressato, bisognoso di appoggio, ovvero, non in «buona salute». Tuttavia, parlare di terapia o azione terapeutica, rischia di fare scivolare il counseling filosofico in un mare magnum indistinto e sostanzialmente catturato nella rete del medicalismo forzato, tutto sub specie medica. Di certo la filosofia può curare, ma non nel modo in cui il senso comune lo intende. La cura dice qualcosa di differente e anche di più appropriato per l'essere dell'uomo che non la sola via della medicalizzazione. La cura dice «relazione», resa possibile da una parola gettata come sasso, o sospesa, come piuma, in un istante di vita.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2023
ISBN9791281040090
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    Anteprima del libro

    Io e l'altro nella relazione d'aiuto - Christian Negri

    Una questione di nebbia

    Per introdurre

    Il presente lavoro vuole proporsi come possibile via da seguire per indagare il counseling filosofico ponendo l'attenzione sulla relazione d'aiuto, o anche, per dire altrimenti, su una terapeutica relazionale. Dunque, centrando, sì, l'attenzione sul cliente (la via di Carl Rogers), ma portando tale attenzione anche sul cliente-in-relazione-con-il-counselor, sul counselor e insieme, sulla relazione stessa, sempre in trasformazione in quanto posta in gioco dell'incontro.

    In primo luogo mi sembra opportuno diradare la nebbia che rende difficoltoso scorgere, nel significato di una delle parole chiave, terapia, qualcosa che non sia legato alle pratiche mediche tout court. Un limite, quest’ultimo, ma anche uno stimolo. Un limite, perché si rischia di sclerotizzare il significato di terapia non scorgendo più l’autenticità della parola greca. Uno stimolo, invece, perché si può così prestare attenzione all’uso della parola, se non proprio all’abuso, di cui la nostra società in terapia rischia di rimanere invischiata (Furedi, 2008).

    L’orizzonte culturale e sociale odierno è caratterizzato da ciò che il filosofo Pier Aldo Rovatti ha definito homo psychologicus (2006, p.20), ossia un soggetto considerato, a tutti i livelli ―nel privato come nel sociale, corpo e anima incluse― destrutturato, indebolito, stressato, bisognoso di appoggio, ovvero, non in buona salute. Con ciò, parlare di terapia o azione terapeutica rischia di fare scivolare il counseling filosofico in un mare magnum indistinto e sostanzialmente catturato dalla rete del medicalismo forzato (Id., p.24 e sgg.), tutto sub specie medica. Dunque, riprendere e ripensare le parole, risignificarle, è il quid filologico al cuore del filosofico, ossia non considerare le parole come già abbandonate e inflazionate, ma riprenderle e ripensarle iniziando così un cammino attraverso quell’intrico di vie che i significati da sempre portano con sé.

    È interessante a questo punto riprendere il significato originario della parola terapia. Therapéia, therapeuein, dal greco, significa servizio, cura. Venivano così intesi i servizi di culto resi agli dei, i servizi resi agli uomini sia con la servitù che con il trattamento medico, ma anche i servizi alle piante con la coltivazione. Mi sembra indicativo notare come la parola greca therapéia giunga da therápōn, cioè servo, scudiero, con derivazione in therapeutikós, atto a servire. Therapeuein heauton, sottolinea così Michel Foucault, dice al contempo: curare sé stessi, mettersi al servizio di sé stessi e rendere a sé stessi un culto (2018, p.89 sgg).

    La parola terapia, con il suo significato, è passata nel tempo ad esclusivo appannaggio dell’orizzonte medico, data per scontata: si va in terapia o si fa terapia se non si è in buona salute. Ebbene, chiedo in modo provocatorio, se il movimento critico della filosofia è anche quello di rimuovere le concrezioni storiche sedimentate intorno alle parole, significa che la dimensione di trattamento medico ―terapeutico― rivolto alla sofferenza dell’uomo andrebbe quindi rimosso? Niente di tutto ciò, solamente ricollocare il significato proprio della parola nel linguaggio, per sottolineare come l’atto del servire, del portare aiuto all’altro, non sia esclusivo della medicina tout court, ma sia l’atto di colui che, nello specifico il filosofo, il counselor, come da scudiero, si metta vicino al sofferente, si chini su di lui e lo supporti attraverso un cammino di relazione d’aiuto. Dice Epitteto a proposito di alcuni allievi della sua scuola di filosofia: "Voi siete venuti solo per questo [per imparare] e non per ottenere la vostra guarigione. […] il vostro animo non era spinto dal desiderio di farvi curare (therapeuthēsomenoi). Ma è invece questa la cosa a cui dovreste dedicarvi. Dovreste ricordare di continuo che siete qui essenzialmente per guarire" (1982, II, p.21,15 e 21,22). Certo, si può parlare di terapia nell’ambito specifico del counseling filosofico, ma di una terapia pulita e per niente medicalizzata, come scrive Rovatti (2006, p.21) o per dirla utilizzando il lessico della filosofa e counselor Barbara Norman, di una terapia ecologica (Raabe, 2006, p.18,19).

    Proprio in Epitteto leggiamo un’altra parola legata direttamente a terapia, ossia cura, il curare. Anche per questa parola mi pare opportuno spendere alcune righe in riferimento al suo legame ―certo, discusso― con l’orizzonte del counseling filosofico.

    Vorrei partire proprio dal titolo del libro di Rovatti, La filosofia può curare?, per rivolgere l’attenzione, sebbene in modo impressionistico, alla parola cura. Di certo la filosofia può curare, ma non nel modo in cui il senso comune lo intende, ossia non nel senso di un trattamento medico-tecnico volto alla risoluzione di patologie o al cammino terapico in vista di un miglioramento, sia esso fisico che psichico. La cura dice qualcosa di differente e anche di più appropriato per l’essere dell’uomo che non la sola via della medicalizzazione.

    Il mito racconta infatti come Cura, attraversando un fiume, potremo interpretare come lo scorrere della vita stessa, si mise a modellare del fango per farne un uomo. Racconta altresì, come alla Cura, che per prima prese in cura l’uomo dal fango, sia stato affidato l’uomo perché ne abbia cura, per tutta la vita. Così, per citare il filosofo counselor Luca Nave: "l’essere umano è l’ente che, per sua natura, è affidato alla cura (2013, p.19). Ossia, considerando la cura come tratto essenziale dell’uomo, cioè come struttura esistenziale che lo pone al mondo nel modo della cura ―il prendersi cura e l’avere cura― l’uomo è sempre in cura, ha cioè cura di sé e cura dell’altro nel modo proprio del comprendersi, sé e l’altro, cioè nel modo dell’accompagnarsi, sé e l’altro, nella fragilità della vita. In questo senso, dice Rovatti, non si vede perché la filosofia, che da sempre promette una cura di sé e degli altri, non possa a suo modo curare e, chissà, perfino salvare (2006, p.13).

    Certo è che, se il processo dell’avere cura va da sé a sé, e da sé all’altro (certamente nel modo della reciprocità), allora le cure che riceve l’anima, o il soggetto, sono quelle fondamentali. Di contro, laddove la cura legata alla terapia si fa, o si fa sempre più medicalizzata o psicologizzata, dove cioè si trasmettono soltanto vocaboli, equazioni, un lessico, un know how, delle procedure e dei protocolli, allora il processo si interrompe (Sequeri, 2012, p.16,17).

    L’analogia tra filosofia e medicina, che potrebbe essere per i più spiazzante, fuori luogo, ha trovato tuttavia un suo grande sviluppo nell’età ellenistica ad opera di pensatori quali Epicuro, Zenone, Crisippo e ancora in epoca romana, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, solo per ricordarne alcuni. Un esempio è la citazione di Crisippo riportata dalla filosofa Marta Nussbaum nel suo libro Terapia del desiderio, dove appunto abbondano esempi e sviluppi di questa analogia: Così come c’è un’arte per le malattie del corpo, che noi chiamiamo medicina, così vi è un’arte per le malattie dell’anima, e questa non deve essere inferiore all’altra, né in fatto di competenza speciale, né in fatto di metodo terapeutico (2018, p.21).

    Ora, nell’orizzonte del counseling filosofico, dove appunto la filosofia quale medicina dell’anima ne è la struttura, il filo conduttore, il modus operandi e la sostanza, i termini pregnanti e fortemente connotativi quali malattia e medico vengono ad assumere uno specifico indirizzo filosoficamente orientato. Infatti, pensare e curare una malattia dell’anima, se poi di malattia si può propriamente parlare ―e non invece di disagio, sofferenza, confusione, dilemmi etici e esistenziali― non è lo stesso che pensare e curare un soggetto malato. Ci si può infatti prendere cura di qualcuno o prendere in cura qualcuno, senza però averne cura. Questo sguardo rivolto al soggetto si manifesta, quindi, nella misura in cui la cura si esplica in una pratica dell’avere cura. Ossia in un fare che porta con sé quel saper-fare che è massimamente pratica filosofica, perché la mano è una parte dell’anima, dice il teologo Pierangelo Sequeri (2012, p.16,17), perché la mano è inerente al comprendere l’altro ―ted. be-hand (mano)-lung― che è, nella reciprocità, anche un comprender-si, curar-si, nella prospettiva del tutto pratica che spesso sarebbe meglio fare invece che parlare (Id.).

    Ebbene, terapia e cura vengono qui risignificate, accompagnate al loro proprio dire per donare un giusto senso all’interno di quell’orizzonte complesso e sfaccettato del counseling filosofico. Una terapia che può così venire consegnata dal counselor al consultante (cliente o ospite), una via di cura, un cammino, un aiuto, ma anche un servizio di sé a sé, da percorrere, per essere sempre in-cura e mai sicuri (lat. se-curum, set-curum), ossia mai fuori dallo stato di cura.

    Passo ora a ciò che potrebbe essere interpretata come una sorta di decostruzione del counseling filosofico. Ciò significa, da una parte, portare in emergenza quegli aspetti ―quelle tracce― che ho ritenuto chiamare minimi, ossia basilari, che ne costituiscono lo scheletro e dei quali si può pensare possano conferire una certa tonalità etica al counseling stesso: relazione-silenzio-ascolto-parola (r.s.a.p.). Dall’altra, proporre ciò che ho ritenuto essere una sorta di doppia attenzione, attenzione al quadrato 2, cioè attenzione all’attenzione r.s.a.p rivolta, appunto, alla relazione, al silenzio, all’ascolto e alla parola: prestare attenzione a ciò che succede nel momento dell’attenzione rivolta alla r.s.a.p.

    Quindi pensare e disporre un riferimento etico che possa agire da stella polare, sia per il counselor stesso che per il consultante, nella consapevolezza di come la posta in gioco sia il continuo rispecchiar-si l’uno nell’altro, pensar-si l’uno nell’altro in questa relazione di reciprocità. Un askēsis costante di attenzione a sé e all’altro, dunque, nella consapevolezza di come il counseling filosofico, inteso radicalmente, sia incontro trasformativo e di esperienza veritativa per entrambi. Laddove i

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