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Il delitto di Killman Creek
Il delitto di Killman Creek
Il delitto di Killman Creek
E-book425 pagine6 ore

Il delitto di Killman Creek

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Info su questo ebook

Un grande thriller

La sua casa non è più un rifugio, ma una trappola

Gwen Proctor ha vinto la battaglia per proteggere i suoi figli dall’ex marito, il serial killer Melvin Royal, e dai suoi psicopatici complici. Ma la guerra non è ancora finita. Melvin è evaso dalla prigione e Gwen ha ricevuto un messaggio inquietante: “Non sei più al sicuro da nessuna parte”. La sua casa sul lago non è un rifugio, ma una trappola. Così Gwen lascia i bambini sotto la protezione di un marine in pensione e, insieme a Sam Cade, il fratello di una delle vittime di Melvin, comincia la caccia. La sua preda è uno dei killer più sadici in circolazione. Ma la sfida supera anche le sue peggiori paure. La fiducia verso chi la circonda comincia presto a svanire, e Gwen può aggrapparsi solo alla rabbia e al desiderio di vendetta. Lo scontro con Melvin si avvicina. E stavolta soltanto uno di loro potrà sopravvivere.

Autrice bestseller di New York Times, USA Today e Wall Street Journal

«L’autrice ha costruito una storia potente sull’amore materno e sulle difficoltà che si incontrano nel farsi una nuova vita.»
Publishers Weekly

«Una lettura obbligata per chi ama i thriller al cardiopalmo con personaggi di spessore.»
Criminalelement.com

«Un romanzo potente, con un grandioso sviluppo dei personaggi e un livello di suspense elevatissimo.»

«Un thriller psicologico ricco d’azione, che vi terrà sulle spine dall’inizio alla fine.»
Rachel Caine
È un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Wall Street Journal», con più di cinquanta romanzi all’attivo. Scrive principalmente thriller, mystery, urban fantasy e young adult. Vive con suo marito a Fort Worth, in Texas, in una simpatica e inquietante casetta piena di libri. La Newton Compton ha già pubblicato il suo libro Il mistero della casa sul lago, primo volume della serie Stillhouse Lake.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2020
ISBN9788822745583
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    Anteprima del libro

    Il delitto di Killman Creek - Rachel Caine

    1

    Gwen

    È la dodicesima notte da quando il mio ex marito è evaso di prigione. Sono a letto, ma non dormo. Guardo i giochi di luci e ombre sulle tende, distesa su una stretta brandina da campeggio, e sento le molle pungermi la schiena attraverso il sottile materasso. I miei figli, Lanny e Connor, occupano i due letti a una piazza e mezzo nella stanza di questo modesto motel. Al momento non posso permettermi di meglio.

    Ho un nuovo telefono e un altro, usa e getta, con un numero diverso. Solo cinque persone hanno questo numero e due di loro dormono con me nella stanza.

    Non posso fidarmi di nessuno al di fuori di questa piccola cerchia ristretta. Non riesco a pensare ad altro che all’ombra di un uomo che si aggira furtivo nella notte – cammina, non corre, perché non penso che Melvin Royal sia in fuga, anche se ha alle calcagna mezza polizia – e al fatto che mi stia cercando. Che cerchi tutti noi.

    Il mio ex marito è un mostro e pensavo che fosse stato rinchiuso al sicuro nella sua gabbia, in attesa dell’esecuzione, invece persino da dietro le sbarre è riuscito a portare avanti una campagna del terrore contro di me e i nostri figli. Oh, certo, è stato aiutato, in parte da dentro la prigione e in parte dall’esterno; non si sa di preciso quanto fosse ampia la sua rete di conoscenze, ma aveva anche un piano. Mi ha manovrata, attraverso minacce mirate, portandomi dove voleva che finissi: in una trappola. Siamo sopravvissuti, ma per un soffio.

    Melvin Royal è in agguato nelle tenebre, nel breve istante in cui chiudo gli occhi. Sbatto le palpebre, è per la strada. Sbatto le palpebre, sta salendo le scale del motel, fino al secondo piano del camminamento scoperto. Sbatto le palpebre, è fuori dalla porta. In ascolto.

    La vibrazione del telefono che segnala l’arrivo di un messaggio mi fa trasalire così forte da farmi male. Lo afferro mentre il calorifero geme; è rumoroso ma efficiente, e il tepore si diffonde lento e piacevole per la stanza. Per fortuna, perché le coperte sopra questa brandina non servono a un granché.

    Sbatto le palpebre sugli occhi stanchi e cerco di mettere a fuoco lo schermo del cellulare. Il messaggio dice

    NUMERO NASCOSTO

    . Lo spengo e lo metto sotto il cuscino, tentando di convincermi che non corro rischi se mi addormento.

    Ma so che non è così. So chi mi sta messaggiando. E la doppia mandata alla serratura sembra non essere abbastanza.

    Sono passati dodici giorni da quando ho salvato i miei figli da un assassino. Sono esausta, dolorante e tormentata dai mal di testa. Sono spaventata a morte e ansiosa, ma soprattutto, più di ogni altra cosa, sono incazzata. Ne ho bisogno, perché servirà a tenerci tutti in vita.

    Come hai osato, penso, rivolta al telefono sotto al mio cuscino. Come cazzo ti sei permesso.

    Quando la rabbia raggiunge la temperatura di ebollizione, allungo la mano sotto al cuscino e lo tiro di nuovo fuori. Me ne faccio scudo, brandisco questa sensazione come un’arma. Apro il messaggio, presentendo cosa possa esserci scritto.

    Ma mi sbaglio. Non è un messaggio del mio ex. Dice:

    ORA NON SEI PIÙ AL SICURO DA NESSUNA PARTE

    , ed è seguito da un simbolo che riconosco: Å.

    Absalom.

    Lo shock dissipa la rabbia, la fa defluire in calde ondate elettriche attraverso il mio petto e le mie braccia, quasi che fosse il telefono stesso a emanarle. Il mio ex marito è stato aiutato, a manipolarmi e a far rapire i miei figli, e quell’aiuto gli è venuto da Absalom, un hacker esperto che mi ha condotta nella trappola che Melvin mi aveva teso. Mi ero azzardata a sperare che magari, sfumato il piano, Absalom non avrebbe avuto altro con cui minacciarci.

    Ingenua.

    Per un momento mi sento sopraffare da una sensazione di puro terrore viscerale, come se avessi scoperto che i fantasmi che tanto mi spaventavano da bambina esistono davvero, poi tiro un profondo respiro e cerco di riflettere su quanto sia impossibile avere a che fare con tutto questo… di nuovo. La mia unica colpa è quella di essermi difesa da un uomo che voleva la mia morte, che si è conquistato la mia fiducia nel corso degli anni, conducendomi passo passo verso il luogo pensato per la mia esecuzione.

    Questo però non fa sparire il messaggio sul mio schermo.

    Absalom ha inviato qualcun altro sulle nostre tracce. Il pensiero mi attraversa come la scarica di un fulmine, mi secca la bocca e mi incendia le terminazioni nervose, perché so che è la verità. In queste lunghe giornate passate a nasconderci e continuare a spostarci per salvaguardare la nostra incolumità, c’era qualcosa che non mi tornava… la sensazione di essere ancora osservata. Avevo dato la colpa alla paranoia. Ma se non fosse così?

    Cerco di alzarmi senza fare rumore, ma la brandina cigola e sento Lanny, mia figlia, che sussurra: «Mamma?»

    «Tutto okay», le sussurro a mia volta. Mi alzo e infilo i piedi nelle scarpe. Indosso un paio di pantaloni comodi, un maglione largo e dei calzettoni pesanti. Mi metto anche la fondina ascellare e un parka, prima di aprire le serrature e uscire nell’aria fredda.

    È nuvoloso e fa freddo qui a Knoxville. Non sono abituata alle luci della città, ma in questo momento mi appaiono confortanti, mi sento meno isolata. Ci sono persone qui, se grido qualcuno mi sentirà.

    Chiamo uno dei pochi numeri sul mio cellulare. Suona una sola volta prima che qualcuno risponda e sento la voce perennemente stanca del detective Prester del dipartimento di polizia di Norton – la città più vicina a dove abitavo, no, abito, perché ho tutta l’intenzione di tornare a Stillhouse Lake, e giuro che lo faremo – dire: «Signorina Proctor. È tardi». Non sembra troppo contento di sentirmi.

    «È sicuro al cento percento che Lancel Graham sia morto?».

    È una domanda strana e sento il cigolio di quella che probabilmente è una sedia da ufficio, quando Prester si appoggia allo schienale. Controllo l’ora: è l’una del mattino passata. Mi domando se sia ancora al lavoro. Norton è una cittadina sonnacchiosa, anche se ha la sua buona dose di criminalità. Lui è uno dei due detective in organico.

    E Lancel Graham un tempo indossava l’uniforme della polizia di Norton.

    La risposta di Prester è cauta e studiata: «Ha una ragione più che valida per ritenere che non sia così?»

    «È morto o no?»

    «Stecchito. Ho guardato il coroner estrarre i suoi organi sul tavolo autoptico. Perché me lo chiede…», esita e poi geme, come se avesse guardato l’ora solo in quel momento, «a quest’ora ingrata della notte?»

    «Perché ricevere l’ennesimo messaggio minatorio mi mette un po’ in ansia».

    «Da Lancel Graham».

    «Da Absalom».

    «Ah». Il modo in cui lo dice mi fa suonare un campanello d’allarme. Io e lui non siamo amici, ma in un certo senso siamo alleati, eppure lui non si fida del tutto di me e io non posso fargliene una colpa. «A questo proposito, Kezia Claremont ha fatto qualche indagine. Dice che è possibile che Absalom non sia un lui, ma un loro, a quanto pare». Rispetto Kezia. È stata di pattuglia con Graham per un po’, ma a differenza sua è brutalmente onesta. È rimasta piuttosto scioccata quando ha scoperto che il suo partner era un killer.

    Non tanto quanto me, comunque.

    La mia voce suona livida e brusca, al pensiero. «Perché diavolo non mi ha avvisata? Sa che sono in giro con i miei figli!».

    «Non volevo allarmarla», si giustifica. «Non abbiamo ancora prove, solo sospetti».

    «Da quanto mi conosce, detective? Le sono sembrata il tipo che si lascia accecare dal terrore?».

    Non commenta, perché sa che ho ragione. «Ritengo comunque che sarebbe meglio se tornasse a casa a Norton, si lasci proteggere da noi».

    «Mio marito ha trasformato uno dei vostri in un assassino». Devo deglutire un grumo di puro livore. «Avete lasciato Graham da solo con i miei figli, se lo ricorda? Dio solo sa cosa avrebbe potuto fargli. Perché diamine mi dovrei fidare di voi?».

    Ancora non so tutto quello che Lancel Graham ha fatto quando ha rapito i miei figli. Né Connor né Lanny hanno voluto parlarne con me e so che non devo forzarli ad aprirsi. Hanno subìto un trauma, e anche se i dottori che li hanno visitati hanno detto che sono in buona salute e che non sono stati feriti, mi domando che genere di danno psicologico abbiano riportato. E quanto questo li segnerà in futuro.

    Perché Melvin non vuole altro che piegarli, plasmarli e spezzarli. È il genere di cosa che gli provoca un piacere malsano.

    «Novità su Melvin?». Mel, sussurra ancora una timida vocina evanescente dentro di me. Non gli è mai piaciuto il nome Melvin, voleva farsi chiamare solo Mel, ecco perché adesso faccio di tutto per pronunciare il nome per intero. Una rivincita meschina è pur sempre una rivincita.

    «È in corso una massiccia caccia all’uomo. Di quelli che sono evasi, il settantacinque percento è di nuovo dietro le sbarre».

    «Non lui».

    «No», concorda Prester. «Non lui, non ancora. Pensa di continuare a scappare finché non verrà riacciuffato?»

    «Questo era il piano», rispondo. «Ma è appena cambiato. Se Absalom dispone di altre persone da mettere sulle nostre tracce, allora mi troveranno per lui. È quello che vuole, è per questo che è evaso. Scappare non fa altro che prolungare quest’incubo e implica che non ho alcun controllo sulla mia vita. Non gli farò questa concessione. Mai più».

    Sento di nuovo il cigolio della sua sedia: stavolta sono quasi sicura che si sia chinato in avanti. «Allora che diavolo ha intenzione di fare, Gwen?».

    Continua a chiamarmi con la mia nuova identità e lo apprezzo. La donna che un tempo si faceva chiamare Gina Royal, moglie di un serial killer particolarmente efferato, non esiste più: un altro dei cadaveri che Melvin si è lasciato dietro. Meglio morta. Adesso sono Gwen e Gwen non tollererà altre stronzate.

    «Non penso che le piacerà, le risparmierò i dettagli. Grazie detective. Di tutto». Quasi ci credo. Prima che possa farmi altre domande, riattacco e ficco il cellulare nella tasca del cappotto, restando in piedi nel vento umido e gelido. Knoxville non è ancora andata a dormire e sento spezzoni di musica provenire dalle auto di passaggio, vedo ombre dietro le tende nelle altre stanze del motel. Un aereo passa in cielo, fendendo l’aria.

    La porta della mia stanza si apre e Lanny esce fuori. Si è messa le scarpe e una giacca, ma sotto è ancora in pigiama. La morsa che mi stringe il cuore si allenta un po’. Se avesse indossato anche i jeans e la camicia di flanella, insieme alle scarpe da ginnastica, avrebbe significato che era spaventata.

    «Il moccioso sta dormendo», dice, appoggiandosi alla ringhiera accanto a me. «Sputa il rospo».

    «Non è niente, tesoro».

    «Stronzate, mamma. Non ti alzi dal letto per chiamare gente a notte fonda senza motivo».

    Sospiro. Fa abbastanza freddo da condensare il respiro in un debole pennacchio bianco. «Era il detective Prester».

    Vedo le sue mani stringere la ringhiera e vorrei liberarla da questa paura, da questo costante senso di oppressione schiacciante, ma non posso. Lanny sa bene quanto sia pericolosa la situazione in cui ci troviamo, conosce quasi tutta la verità su suo padre. E ho bisogno di credere che lei, quasi quindicenne, sia in grado di portare questo peso.

    «Oh», dice mia figlia. «Che dice di lui?».

    Si riferisce a suo padre, naturalmente. Le rivolgo un sorriso abbozzato, nella speranza che sembri abbastanza rassicurante. «Ancora nessuna novità», dico. «Probabilmente è molto lontano da qui. È braccato e quasi tutti i prigionieri evasi con lui sono di nuovo in cella. Presto toccherà anche a lui».

    «Non ci credi nemmeno tu».

    Infatti è così. Non voglio mentirle, perciò cambio argomento. «Devi tornare a letto, tesoro. Domattina ci spostiamo presto».

    «È già mattina. Dove andiamo?»

    «Altrove».

    «Sarà sempre così d’ora in poi?». Questa volta assume un tono di voce deciso. «Dio, mamma, non facciamo altro che scappare. Non possiamo permettergli di farci questo. Non di nuovo. Non voglio scappare, voglio combattere».

    È così, certo che è così. È sempre stata una ragazzina coraggiosa, costretta a fronteggiare terribili verità sul papà quando aveva appena dieci anni, e non mi sorprende che sia ancora così piena di rabbia.

    E ha ragione.

    Mi volto verso di lei, che si gira per guardarmi in faccia. Sostengo il suo sguardo e le dico: «Combatteremo, ma domani te ne andrai in un posto sicuro, così potrò essere libera di fare ciò che va fatto. E prima che tu possa protestare, ho bisogno di saperti con tuo fratello ed essere certa che siate al sicuro. È compito tuo, Lanny. È la tua battaglia, okay?»

    «Okay? Ci stai mollando da qualcuno adesso? No che non è okay. Ti prego non dirmi che è la nonna!».

    «Pensavo le volessi bene».

    «Certo, come a una nonna, ma non voglio viverci assieme. Vuoi che siamo al sicuro? Lei non può proteggerci, non può proteggere nessuno».

    «Mi assicurerò che non ne abbia nemmeno bisogno. Intanto però tuo padre mi terrà d’occhio, perché trovarmi è la sua principale priorità». Prego che sia la verità. È una grande scommessa, ma le persone cui posso affidare i miei figli sono davvero poche. Il primo istinto è di portarli da mia madre, ma devo ammettere che mia figlia ha ragione: non è una combattente, non come noi. E parliamo di tutt’altro livello di pericolo.

    Non glielo dico ancora, perché devo rifletterci su, ma Javier Esparza e Kezia Claremont si sono offerti di badare ai miei figli, se ne avessi avuto bisogno. Sono una coppia formidabile. Javier è un marine in pensione e gestisce un poligono di tiro; Kezia lavora in polizia, è tosta, intelligente e in gamba.

    Il lato negativo è che abitano appena fuori Norton e un po’ troppo vicino a Stillhouse Lake. Quella bellissima località remota dapprima è stata per me un rifugio e un santuario, ma poi ha finito per trasformarsi in una trappola, e ora non so più se potrò sentirmi di nuovo al sicuro laggiù. Di certo non possiamo tornare alla casa in riva al lago, saremmo bersagli facili.

    La casa di Javier, invece, non è su un lago. È una baita isolata e fortificata e a intuito deduco che Melvin e Absalom ci cercheranno ovunque, tranne che nel posto da cui siamo fuggiti.

    «Ci lascerai con Sam?», domanda Lanny.

    «No, perché lui verrà con me», le dico. Non gliel’ho ancora chiesto, ma so che dirà di sì. Vuole trovare Melvin Royal tanto quanto me e per ragioni altrettanto personali. «Io e Sam troveremo tuo padre e lo fermeremo prima che faccia del male ad altre persone. Prima che possa anche solo pensare di fare del male a te o a tuo fratello». Le lascio un po’ di tempo per digerire la cosa, poi aggiungo: «Ho bisogno del tuo aiuto, Lanny. È l’opzione migliore che abbiamo, oltre al continuare a scappare e nasconderci, e non voglio più farlo più di quanto lo voglia tu. Devi credermi».

    Distoglie lo sguardo e si stringe nelle spalle con studiata indifferenza. «Certo, come ti pare. Però costringi noi a farlo». Continuare a scappare finora è stato necessario, era la cosa giusta da fare all’epoca. Adesso però capisco quanto sia stata dura per i miei figli vivere in questa condizione di allerta costante.

    «Mi dispiace tanto, tesoro».

    «Lo so», concede lei alla fine, e dopo averlo detto mi dà un rapido abbraccio inatteso, prima di rientrare in camera.

    Resto ancora un po’ fuori all’aria gelida, a pensare, poi compongo il numero di Sam Cade e dico: «Sono fuori».

    Gli ci vuole solo un minuto per uscire e venire da me; la sua camera è proprio di fianco alla nostra. Come me, anche lui è completamente vestito e pronto a combattere. Si appoggia alla ringhiera, nel punto in cui poco fa si era trovata Lanny, e dice: «Deduco che non fosse una telefonata di piacere».

    «Spiritoso», gli dico, guardandolo con la coda dell’occhio. Non siamo amanti, anche se in un certo senso siamo intimi. Probabilmente alla fine potremmo arrivarci, ma nessuno di noi due ha fretta di farlo. Abbiamo entrambi dei bagagli emotivi, Dio solo sa quanto è vero. Io, l’ex moglie di un serial killer, sempre minacciata dalle sue groupie, dai suoi alleati e dai segugi dei giustizieri di Internet.

    E Sam? Lui è il fratello di una delle vittime del mio ex marito, l’ultima. Riesco ancora a vedere il corpo di quella poveretta ciondolare giù da un cappio. Torturata e uccisa per un puro piacere sadico.

    Siamo complicati. La prima volta che ho incontrato Sam ho pensato che fosse un estraneo amichevole, senza alcun legame con la mia vecchia vita. L’aver scoperto che mi aveva deliberatamente rintracciata e sorvegliata nella speranza di trovare prove della mia complicità nei crimini di mio marito… be’, aveva quasi mandato tutto all’aria.

    Sa che non sono colpevole e che non lo sono mai stata, ma tra di noi ci sono ancora fratture profonde che non so come riempire – non so neppure se mi vada. Io gli piaccio e lui piace a me. In un’altra vita, senza la putrida ombra di Melvin Royal a separarci, penso che avremmo potuto essere felici insieme.

    Per ora non riesco a concentrarmi su altro che non sia sopravvivere e assicurarmi che anche i miei figli se la cavino. Sam è solo un mezzo per raggiungere il mio scopo e, per fortuna, lui ne è consapevole e lo capisce. Sono certa che anche lui mi consideri nello stesso identico modo.

    «Che succede?», mi chiede, e io tiro fuori il telefono, richiamo il messaggio sullo schermo e glielo passo. «Merda. Graham è morto, giusto?». Avverto nella sua voce lo stesso disorientamento che c’era nella mia, ma si riprende in fretta. «Hanno mandato qualcun altro?»

    «Forse anche più di uno», gli dico. «Secondo Prester, Absalom potrebbe indicare un collettivo di hacker. Chi può sapere quante persone ci sono nella loro rete? Dobbiamo fare molta più attenzione d’ora in poi. Mi sbarazzerò di questo telefono e ne comprerò uno nuovo. Usiamo solo i contanti e teniamoci il più possibile alla larga dalle telecamere».

    «Gwen, non posso andare avanti così. Nasconderci non…».

    «Non ci stiamo nascondendo», gli dico. «Stiamo andando a caccia».

    Lui si raddrizza e mi guarda. Non è un uomo grande e grosso e non è troppo alto. È forte e agile e so che se la può cavare in una lotta. Soprattutto – e in questo momento per me questa consapevolezza vale tutto – so che posso fidarmi di lui. Non è una creatura di Melvin e non lo sarà mai. E ormai non è una cosa che posso dire di molte persone.

    «Finalmente», commenta. «I ragazzi, quindi?»

    «Chiamerò Javier. Si è offerto di prenderli con sé già una volta e mi fido di lui».

    Sam sta già annuendo. «È rischioso lasciarli indietro», dice, «ma non quanto cercare di proteggerli mentre inseguiamo Melvin. Mi sembra giusto». Fa una pausa. «Ne sei certa?», chiede in tono quasi gentile. «Potremmo lasciar fare alla polizia o all’

    FBI

    . Forse dovremmo».

    «Loro non conoscono Melvin e non comprendono Absalom. Se abbiamo davvero a che fare con un collettivo, lo nasconderanno all’infinito senza smettere di cercare di rintracciarci. Non possiamo permetterci di aspettare, Sam. Nasconderci non funzionerà». Inspiro una boccata d’aria fredda e la lascio uscire in una nebbiolina tiepida. «E poi è quello che voglio. Tu no?»

    «Sai che è così». Mi rivolge uno sguardo distaccato, come se stesse soppesando un compagno d’armi. «Sicura di non aver bisogno di riposare un altro po’?».

    Mi scappa una risatina amara. «Mi riposerò dopo che sarò morta. Se vogliamo trovare Melvin prima della polizia, dovremo essere più resistenti, più veloci e più in gamba di lui. E ci servirà aiuto. Informazioni. Non avevi detto di avere un amico che potrebbe darci una mano?».

    Lui annuisce. Ha la mascella contratta e un luccichio negli occhi. In genere non è semplice decifrare Sam, ma in questo momento non vedo altro che rabbia e dolore. Melvin è là fuori, libero di sorvegliare e uccidere altre donne come la sorella di Sam. Melvin ucciderà ancora. Se conosco il mio ex marito, so che vorrà abbandonarsi a una furia omicida egocentrica e granguignolesca.

    L’

    FBI

    è sulle sue tracce, così come la polizia di ogni stato confinante col Kansas, ma è improbabile che lo trovino in fretta nel Midwest, perché la prima cosa che Melvin avrà fatto, ne sono certa, sarà stata di spostarsi a sud-est, verso di noi.

    Absalom ci ha rintracciati fin qui, perciò Melvin non si troverà dall’altra parte del Paese o diretto verso uno stato senza estradizione. Magari non ci avrà ancora raggiunti, ma di certo ci starà venendo incontro. Riesco a percepire il suo odore nel vento.

    «Partiamo alle sette del mattino», gli dico. «Voglio che i bambini riposino ancora un po’, intesi?». Guardo il telefono. «Chiamerò Kezia e Javier per accordarmi».

    Sam mi toglie il cellulare di mano con gesto fluido e se lo infila in tasca. «Se Absalom conosce questo numero, non puoi usarlo per decidere il rifugio dei ragazzi», dice, e mi sento subito una stupida per non averci pensato. Devo essere più stanca di quanto credessi. «Cancellerò il registro delle chiamate e i contatti e lo lascerò dove possa essere rubato. Meglio che resti in funzione e conduca Absalom fuori strada per un po’». Fa un cenno verso l’altro lato della strada, in direzione di un minimarket ancora aperto. «Comprerò un telefono nuovo stasera stessa e lo useremo per chiamare Javier, poi ce ne sbarazzeremo subito. Non compriamo altri telefoni in questa zona, perché è il primo posto in cui Absalom cercherà le nostre tracce».

    Ha ragione su tutta la linea. Devo pensare come una cacciatrice adesso, ma non posso dimenticarmi di essere ancora una preda. Melvin mi ha resa vulnerabile abbindolandomi e manipolandomi, portandomi fino a questo punto. Adesso devo fare lo stesso con lui.

    Per anni mi sono aggrappata alla finzione di un matrimonio, a una vita in cui Melvin Royal controllava ogni aspetto della mia realtà, e non me ne sono resa conto né ne ho avuto paura. Gina Royal, la vecchia me, la me vulnerabile… Lei e i bambini erano la copertura di Melvin, per celare il segreto della sua doppia e terribile esistenza. Dal mio lato della barricata vedevo solo che tutto sembrava così normale. Eppure non lo è mai stato e ora che mi sono lasciata Gina Royal alle spalle me ne rendo conto con chiarezza.

    Non sono più Gina; lei era incerta, preoccupata e debole. Aveva paura che Melvin le avrebbe dato la caccia.

    Gwen Proctor, invece, è pronta per lui.

    In cuor mio so che alla fine tutto si riduce a noi due: il signore e la signora Royal.

    In fondo è sempre stato così.

    2

    Lanny

    Connor, il mio fratellino, è troppo silenzioso. In tutto il giorno apre bocca a malapena e tiene la testa bassa. Si è rintanato dietro le mura che si costruisce intorno e mi viene voglia di buttarle giù a calci e trascinarlo fuori per farlo urlare, colpire la parete, qualsiasi cosa.

    Invece non riesco neppure a scambiarci due parole senza che il radar della mamma capti qualche problema… per lo meno non finché la porta della stanza non si chiude alle sue spalle e lei esce in corridoio. Conosco la mamma e le voglio bene, ma certe volte non è di aiuto. Non sa più come abbassare le sue difese.

    Connor è sveglio. È bravo a fingere di dormire, ma lo conosco. Per due anni quando mamma è stata lontana – in prigione e al processo, accusata di essere complice di papà –abbiamo condiviso la stanza, perché da nonna lo spazio non era granché, anche se io avevo dieci anni e lui sette ed eravamo troppo cresciuti per dividere la stanza. Dovevamo essere l’una l’alleata dell’altro e coprirci le spalle a vicenda. Così ho imparato a capire se è davvero addormentato o fa solo finta. Non ha mai pianto molto, non quanto me, e in questi giorni non piange affatto.

    Vorrei che lo facesse.

    «Ehi», gli dico piano, ma non troppo. «So che sei sveglio, sfigato». Non risponde, non si muove e continua a respirare a ritmo regolare. «Ehi, Squirtle, non mi freghi».

    Finalmente sospira. «Che c’è?». Dalla voce sembra sveglissimo e non sembra neppure infastidito. «Torna a dormire. Diventi intrattabile se non fai il tuo sonnellino di bellezza».

    «Ma taci».

    «Ehi, sei tu che volevi parlare. Non è colpa mia se non ti piace quello che ho da dire». La sua voce suona normale.

    Ma lui non lo è.

    Mi lascio cadere sul letto, che puzza come un discount: sudore stantio e piedi sporchi. Quella puzza aleggia nell’intera stanza. La odio. Voglio solo tornare a casa… cioè quella che io, mamma e Connor ci siamo impegnati a rendere vivibile. Quella dove c’è la mia stanza e la parete con gli stencil a forma di fiori lilla. Quella con il bunker antizombi di Connor.

    Casa nostra si trova proprio sulla riva del lago di Stillhouse e rappresenta qualcosa che pensavo non avrei mai più avuto: sicurezza. I miei ricordi dopo il giorno in cui abbiamo lasciato la prima casa, quella di Wichita, sono una macchia confusa di stanze tutte uguali e città grigie, un anno dopo l’altro. Non ci siamo mai fermati in nessun posto abbastanza a lungo da sentirci realmente a casa.

    Stillhouse Lake era diversa. Mi sentivo come se fosse per sempre, come se la vita stesse davvero ricominciando per tutti noi. Mi ero fatta degli amici. Buoni amici.

    C’era Dahlia Brown, che all’inizio detestavo, ma alla fine è diventata la mia migliore amica. Mi ha fatto male doverla lasciare laggiù, come se fosse un giocattolo rotto e abbandonato. Non se lo meritava. Non me lo merito nemmeno io. E poi avevo una specie di ragazzo, ma è quasi scioccante accorgermi che non mi manca neanche un po’. Quasi non penso a lui.

    Solo a Dahlia.

    Abbiamo lasciato la casa così com’era e mi domando se ormai sia già stata devastata. È probabile. La notizia di chi fossimo e di chi fosse nostro padre era circolata proprio nel bel mezzo del casino dell’agente Graham e ricordo cosa faceva la gente ai posti in cui stavamo, quando veniva a scoprire la nostra identità: scritte a vernice sulle mura, cadaveri di animali sullo zerbino, finestre rotte e auto vandalizzate.

    La gente sa essere davvero una merda.

    Non riesco a fare a meno di pensare a come potrebbe essere la nostra casa a Stillhouse Lake adesso. Chissà se la gente ha sfogato la sua rabbia su di lei, anziché su di noi. Mi si stringe il cuore e mi si rivolta lo stomaco. Mi giro su un fianco e prendo a pugni rabbiosi il cuscino scadente, per dargli una forma più comoda. «Secondo te chi l’ha mandato il messaggio?»

    «Papà», risponde lui. Non mi sfugge l’inflessione, il tono teso, ma non riesco a capire cosa significhi. Rabbia? Paura? Nostalgia? Magari tutte e tre le cose. Io so una cosa che probabilmente alla mamma sfugge: che Connor non capisce davvero perché papà è un mostro. Cioè, lo sa, ma aveva solo sette anni quando le nostre vite sono finite sottosopra e si ricorda solo un padre che qualche volta trovava straordinario, e gli manca. Io invece ero più grande e sono una ragazza. Vedo le cose in modo diverso. «Immagino che ora lei gli darà la caccia». Noto un’inflessione diversa, che riconosco, perciò mi metto a scavare.

    «Sei arrabbiato, vero?»

    «Tu no? Ci scaricherà come due randagi», dice. Questa volta è palese il tono piatto e gelido. «Probabilmente dalla nonna».

    «Ti piace stare dalla nonna», gli dico, cercando di avere un tono allegro. «Ci prepara i biscotti e i popcorn che ti piacciono tanto. Non mi sembra il ritratto di una tortura». Resto orripilata nell’istante in cui quelle parole lasciano la mia bocca, ma è troppo tardi. Ce l’ho con me stessa e un’ondata di rabbia accecante mi fa sfrigolare i nervi come se fossero micce per fuochi d’artificio. L’istante successivo mi ritrovo in una baita in collina, trascinata giù in uno scantinato. Chiusa in una piccola cella poco più grande di una bara insieme a mio fratello.

    So che mamma si chiede cosa ci è successo là sotto. Io e Connor non ne abbiamo parlato e non so se e quando lo faremo mai. Presto o tardi, però, cercherà di farci vuotare il sacco.

    Vorrei solo poter chiudere gli occhi e non vedere quell’argano con il cappio, quei coltelli, i martelli e le seghe sul pannello appeso al muro. La stanza fuori dalla cella somigliava all’officina di mio padre in garage, per lo meno dalle foto che ho visto. So cosa accadeva laggiù. So cosa sarebbe potuto accadere a noi, nello scantinato di Lancel Graham.

    Più di ogni altra cosa vorrei potermi dimenticare di quello stupido tappeto. In qualche modo Graham era riuscito a procurarsi una copia perfetta del tappeto di papà. Cioè, in realtà era il mio, perché era uno dei miei primi ricordi: un tappeto morbido in sfumature azzurro e verde pastello. Lo adoravo. Mi ci sdraiavo a faccia in giù e strisciavo lungo il pavimento e mamma e papà ridevano. Mamma mi tirava su e rimetteva il tappetino a posto vicino alla porta e quello stupido tappeto rappresentava l’amore.

    Un giorno, quando avevo circa cinque anni, il tappeto era scomparso dal corridoio e papà ne aveva messo uno nuovo. Tutto sommato era okay, aveva una base antiscivolo, perciò nessuno rischiava di scivolarci sopra. Ci aveva detto di aver buttato via l’altro.

    Ma nel giorno in cui le nostre vite erano finite, il giorno in cui papà era diventato un mostro, quel tappeto, il mio tappeto, era sul pavimento del garage, proprio sotto l’argano con il cappio e il corpo ciondolante di una donna morta. Si era preso un pezzo della mia vita e l’aveva reso parte di qualcosa di orribile.

    Quando ne avevo visto uno praticamente uguale nello scantinato degli orrori di Lancel Graham, qualcosa dentro di me si era spezzato. Quando la notte chiudo gli occhi, ciò che vedo è il mio tappeto, diventato un incubo.

    Chissà cosa vede Connor. Magari è per questo che non riesce a dormire. Quando dormi sei costretto a rinunciare alla possibilità di controllare i ricordi.

    Connor non ha reagito alla mia gaffe sulla tortura, perciò continuo, titubante: «Davvero vorresti andare con la mamma, se darà la caccia a papà?»

    «Si comporta come se non fossimo capaci di badare a noi stessi», risponde. «Ma lo siamo».

    Concordo sul fatto che io lo sono, ma sono anche abbastanza grande da conoscere la dura verità su mio padre e su cosa è capace di fare. Non voglio doverlo affrontare. La sola idea mi fa stare male e mi terrorizza. Però so anche che non voglio restare da sola con Connor e badare a entrambi. Quasi vorrei stare con la nonna, anche se i suoi biscotti sono tremendi e i popcorn troppo appiccicosi. Anche se ci tratta da poppanti.

    Scarico la colpa su qualcun altro. «Mamma non ce lo lascerà mai fare, lo sai».

    «Allora andiamo dalla nonna. Come se papà non fosse capace di arrivarci da solo».

    Ho un brivido, ma al buio so che non mi può vedere. «Anche la nonna si è trasferita e ha cambiato nome. E comunque sarà solo per un po’, come una specie di vacanza».

    È inquietante il modo in cui Connor resta immobile. Non si sente nemmeno un fruscio provenire dal suo lato del letto. Solo una voce nel buio. «Già», dice. «Come una vacanza. E se la mamma non dovesse più tornare? Se venisse lui? Ci hai mai pensato?».

    Apro la bocca per dirgli con sicurezza che non succederà mai, ma non riesco. Le parole mi muoiono in gola, perché sono abbastanza grande da sapere che mamma non è immortale né onnipotente e che i buoni non sempre vincono. E so, come lo sa Connor, che nostro padre è incredibilmente pericoloso.

    Perciò alla fine dico: «Se ci trova,

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