L'imbalsamatore
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Un grande thriller
Il prossimo nome sulla lista è il tuo
Quando un corpo appena mummificato viene ritrovato al museo di storia naturale di Brighton, il detective Francis Sullivan non riesce a crederci. Chi è quella donna?
Ma poi per la città iniziano ad apparire vasi sepolcrali egizi contenenti parti del corpo e messaggi criptici, e Sullivan si rende conto di avere a che fare con un serial killer. Vendetta, ossessione e un’antica religione sembrano aver trovato la perfetta sintesi in questo caso, che campeggia su tutte le prime pagine di cronaca nera, scatenando un’ondata di terrore in tutta Brighton.
Impegnato in una corsa contro il tempo, il detective Sullivan dovrà fare appello a tutta la sua determinazione per scoprire la vera identità dell’Imbalsamatore prima che sia troppo tardi. Perché ci sono demoni del suo passato che, dopo anni di oblio, cominciano a risvegliarsi… Francis ancora non lo sa, ma c’è una verità oscura che sta per tornare alla luce.
Il nuovo adrenalinico thriller dall’autrice del bestseller Il tatuatore
Potente e avvincente come Stieg Larsson e Jo Nesbø
Ai primi posti delle classifiche italiane
Oltre 100.000 copie in Italia
Tradotta in 13 Paesi
Hanno scritto di Alison Belsham:
«Un thriller pieno di tensione e rancore che esibisce una carnalità e una fisicità quasi sfacciate, combinandole con un senso del ritmo che è pura adrenalina. Magnifico e scioccante.»
Matteo Strukul su Tuttolibri - La Stampa
«Un acclamato thriller: nella ricerca del serial killer viene coinvolta Marni, tatuatrice di Brighton…»
Il Venerdì
«Un thriller efficace.»
Il Fatto Quotidiano
«Un romanzo per palati audaci.»
La Lettura
«Se vi mancava qualcosa di forte alla Stieg Larsson, Alison Belsham è un’intrigante scoperta.»
Libero
Alison Belsham
Ha iniziato scrivendo sceneggiature, ed è stata finalista alla BBC Drama Writer competition. Il tatuatore, il suo thriller d’esordio, ha vinto il Bloody Scotland Crime Writing, uno dei più prestigiosi premi del genere crime. La Newton Compton ha pubblicato anche Il ladro di tatuaggi. L’imbalsamatore è il terzo attesissimo caso dell’ispettore Sullivan.
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Anteprima del libro
L'imbalsamatore - Alison Belsham
Indice
Istruzioni per la mummificazione
Capitolo 1. L’Imbalsamatore
Capitolo 2. Gavin
Capitolo 3. Francis
Capitolo 4. Francis
Capitolo 5. Gavin
Capitolo 6. Marni
Capitolo 7. Francis
Capitolo 8. Marni
Capitolo 9. Rose
Capitolo 10. Alex
Capitolo 11. L’Imbalsamatore
Capitolo 12. Francis
Capitolo 13. Alex
Capitolo 14. Francis
Capitolo 15. Gavin
Capitolo 16. Francis
Capitolo 17. Gavin
Capitolo 18. Gavin
Capitolo 19. Francis
Capitolo 20. Marni
Capitolo 21. Francis
Capitolo 22. Francis
Capitolo 23. Rory
Capitolo 24. Marni
Capitolo 25. Marni
Capitolo 26. Francis
Capitolo 27. L’Imbalsamatore
Capitolo 28. Francis
Capitolo 29. Gavin
Capitolo 30. Francis
Capitolo 31. Gavin
Capitolo 32. Francis
Capitolo 33. Gavin
Capitolo 34. Francis
Capitolo 35. Francis
Capitolo 36. Alex
Capitolo 37. Francis
Capitolo 38. L’Imbalsamatore
Capitolo 39. Francis
Capitolo 40. Alex
Capitolo 41. Francis
Capitolo 42. Rory
Capitolo 43. Francis
Capitolo 44. Marni
Capitolo 45. Francis
Capitolo 46. Marni
Capitolo 47. Marni
Capitolo 48. Gavin
Capitolo 49. Francis
Capitolo 50. Francis
Capitolo 51. Francis
Capitolo 52. Francis
Capitolo 53. Gavin
Capitolo 54. Marni
Capitolo 55. Francis
Capitolo 56. L’Imbalsamatore
Capitolo 57. Francis
Capitolo 58. Francis
Capitolo 59. Marni
Capitolo 60. Alex
Capitolo 61. Marni
Capitolo 62. Francis
Capitolo 63. Alex
Capitolo 64. Francis
Capitolo 65. Francis
Capitolo 66. Francis
Capitolo 67. Francis
Capitolo 68. Francis
Capitolo 69. Francis
Capitolo 70. Francis
Capitolo 71. Francis
Ringraziamenti
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Della stessa autrice:
Il tatuatore
Il ladro di tatuaggi
Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,
le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto
dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,
memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e
tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore.
Copyright © Alison Belsham 2020
Titolo originale:The Embalmer
Traduzione dalla lingua inglese di Beatrice Messineo e Carlotta Mele
Prima edizione ebook: aprile 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
Copertina © Sebastiano Barcaroli
ISBN 978-88-227-5141-6
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Alison Belsham
L’imbalsamatore
OMINO.jpgNewton Compton editori
A Mark, Rupert e Tim
Istruzioni per la mummificazione
Occorrente:
1 cadavere
1 tavola da imbalsamatore con almeno quattro supporti a croce rialzati
20 litri di vino di palma
1 ago ricurvo di ferro
Ciotoline e recipienti secondo le necessità
Diversi stracci di lino
1 lama d’ossidiana
4 vasi canopi
180 chili di natron, un composto salino naturale
Incenso e mirra
2 piedistalli di eguale altezza
90 metri di lino non trattato di buona qualità
2 litri di resina d’albero
L’utente potrebbe incontrare qualche difficoltà nel reperire questi materiali. In caso di necessità, si consiglia di utilizzare l’alternativa più similare, con l’avvertenza che ogni sostituzione potrebbe pregiudicare il processo.
1. Disponete il corpo nudo e supino sulla tavola da imbalsamatore e lavatelo con il vino di palma.
2. Inserite l’ago ricurvo in una narice alla volta. Rompete la lamina cribrosa dell’osso etmoide. Ruotate accuratamente l’ago nella cavità per liquefare il cervello.
3. Capovolgete il cadavere in modo da permettere alla materia grigia di fuoriuscire dalle narici e defluire in una ciotola precedentemente predisposta.
4. Ricoprite l’ago con gli stracci di lino e utilizzateli per pulire il cranio, eliminando del tutto il tessuto cerebrale.
5. Tramite le narici, inserite la resina d’albero nel cranio.
6. Usate la lama d’ossidiana per effettuare un’incisione di sette centimetri sul lato sinistro dell’addome.
7. Rimuovete gli organi dell’addome e del torace: milza, fegato, reni, pancreas, cistifellea, intestini, polmoni. Lasciate il cuore in loco.
8. Conservate gli organi nei vasi canopi insieme al natron.
9. Pulite la cavità addominale con il vino di palma e riempitela di involucri di lino con natron, incenso e mirra.
10. Spargete uno spesso strato di natron sulla tavola da imbalsamatore, riempiendo gli spazi fra i supporti a croce. Adagiate di nuovo il cadavere e ricopritelo con il natron rimanente.
11. Dopo trentacinque giorni, il natron si sarà indurito come sale cotto. Rompete lo strato di natron e rimuovetelo dal cadavere, che oramai risulterà essiccato.
12. Adagiate il cadavere sui due piedistalli, posti uno all’altezza del capo e uno ai piedi, e fasciatelo stretto, intrecciando i tessuti come se doveste realizzare un cesto di vimini. Le dita devono essere fasciate separatamente. Man mano che procedete, spennellate le bende con la resina d’albero in modo che restino ben ferme al loro posto. Inserite amuleti e monete portafortuna nel bendaggio.
Il cadavere mummificato è ora pronto per la tumulazione.
Capitolo 1
L’Imbalsamatore
C’è un uomo. Un uomo che è convinto di aver raggiunto l’immortalità. O, quanto meno, di essere sulla strada giusta. Ha seguito tutte le istruzioni, punto per punto. Procede lungo il percorso sacro, per prendere posto fra gli dèi.
Ra, dio del Sole.
Amon, l’invisibile.
Iside, la madre.
Apopi. Il Grande Serpente. Il suo dio. Quello che lui venera.
Se riuscirà nel suo intento, diventerà tutt’uno con Apopi. Si tramuterà nell’incarnazione vivente del Grande Serpente. E, dopo la morte, diventerà eterno.
Si ferma davanti all’altare e sospira. Spegne le candele con un leggero tocco delle dita, godendosi la sensazione del fuoco sulla carne mortale. Non ne avrà bisogno ancora a lungo. China la testa e mormora il nome del suo dio.
«Apopi. Dio dei serpenti. Veglia su di me e proteggimi».
Emette un sibilo leggero, mentre cammina sul pavimento di pietra verso il lapidario dove giace la donna mummificata, protetta in modo così mirabile nel suo sarcofago.
Ha davanti a sé una notte di lavoro. Con il sacrificio che ha compiuto, annuncerà il suo arrivo al mondo. Un nuovo dio si muove tra la gente. Controlla la lista, spunta le varie voci con il moncone di una vecchia matita. Il bordo è inciso da antichi segni di denti sottili: mordicchiava sempre la matita, quando si concentrava sui compiti. Tanti anni fa. Le risate degli altri ragazzi gli risuonano ancora nelle orecchie.
Scaccia via quel pensiero. Non rideranno più di lui.
Stanotte annuncerà il suo arrivo, svelando la sua creazione. E lei sarà mostrata al mondo. Pronta a divenire oggetto di venerazione. Per prima cosa, deve spostarla sulla piattaforma, per poi metterla nel retro del furgone. Il sarcofago non è pesante: la carne pallida e voluttuosa di un mese fa è sparita, trasformata dalla mummificazione in pelle dura e scura, tesa sulle ossa. Le guance morbide e graziose sono ormai scavate, le dita carnose ridotte ad artigli. È leggera come una piuma.
L’uomo sorride. Sibila di nuovo, premendo sui denti le punte della lingua biforcuta.
Il viaggio verso l’immortalità è iniziato.
Si tratta solo di sacrificare le pedine giuste.
Nell’ordine giusto.
Per ultima, una persona in particolare.
Capitolo 2
Gavin
Martedì 31 ottobre 2017
Era il secondo giorno di Gavin Albright, il nuovo membro del team. Ma il lavoro era un po’ diverso da come se l’era immaginato, più che altro perché doveva indossare i panni di un uomo morto. Anche se tecnicamente non era proprio così, era una sensazione molto difficile da scrollarsi di dosso. L’agente Tony Hitchins era stato ucciso dal famigerato assassino dei tatuaggi solo poche settimane prima, e ora Gavin aveva preso il suo posto nella squadra. Inevitabile sentirsi una pezza messa in fretta per coprire un buco. Almeno non doveva più presentarsi al lavoro in uniforme.
Guardò l’ispettore Francis Sullivan che stava parlando animatamente con Angie Burton, la sua nuova partner. Aveva appena ripreso servizio dopo essere rimasta ferita nella caccia al serial killer dell’inchiostro avvelenato. Ed era proprio quello il motivo per cui la squadra si era fermata al Mucky Duck alla fine del turno.
Sullivan era giovane e ambizioso, sapeva pensare sul lungo periodo, e si era già costruito sul campo una reputazione di detective sveglio e attivo, un uomo d’azione. Dovevano avere più o meno la stessa età, pensava Gavin, sulla trentina, ma il capo sembrava parecchio più giovane: Sullivan aveva corti capelli rossi e lineamenti infantili, mentre lui sfoggiava una stempiatura sempre più marcata e una barba folta. Eppure Sullivan era già ispettore e aveva catturato due dei più orribili assassini di Brighton. Cosa che l’aveva segnato, in senso letterale. Un rivolo nero gli correva lungo una guancia, dove gli avevano infilzato un ago per tatuaggi avvelenato.
«Albright?».
Gavin smise di grattarsi la barba e tornò con la mente in quel pub. Rory Mackay, il sergente di Sullivan, lo stava invitando al tavolo dove lo attendevano anche Sullivan e Burton. Mackay era basso, con i capelli corti spruzzati di grigio. Aveva la fama di essere un detective solido e navigato, ma in centrale girava anche voce che nutrisse un certo risentimento per Sullivan, che gli aveva soffiato la promozione sotto il naso.
«Abbiamo appena ricevuto una chiamata: violenza domestica a Kemptown. La prendete voi due?». Indicò Gavin e Angie.
Lei aggrottò la fronte dietro la sua pinta – non l’aveva nemmeno toccata. Non aveva una bella cera, con il viso pallido e smunto, il fisico scheletrico e una certa aria logora che la faceva sembrare più vecchia rispetto ai suoi trentaquattro anni. Gavin si chiese se fosse davvero pronta per tornare al lavoro.
«Sul serio, capo?», chiese la donna, rivolgendosi direttamente all’ispettore.
«Andiamo, Angie. Sai che giorno è oggi: tutti gli agenti sono impegnati con i teppisti che fanno dolcetto o scherzetto. Ci tocca dare una mano».
«Ci pensiamo noi», disse Gavin, guadagnandosi un’occhiataccia dalla sua partner.
«Bravo», disse Rory.
Forse era roba di routine per una come Angie, che aveva anni di esperienza sul campo, ma per lui era tutto mille volte più emozionante rispetto ai tempi in cui doveva farsi il mazzo in strada da agente semplice. Quindi lei poteva anche mettere il broncio: per quanto lo riguardava, Gavin non vedeva l’ora di andare. Sapeva bene che Angie – come tutto il resto del team – aveva appena perso un collega in circostanze complicate, e la solidarietà che provava era sincera. Ma quella donna aveva gettato un velo cupo su tutti da quando era tornata.
«Di nuovo in sella», disse Angie, con un sospiro. Aveva due cerchi scuri intorno agli occhi.
«Se non ti senti pronta…», disse Francis.
Ma lei scosse la testa. «No, va bene. Andiamo, Gavin. Sbrighiamo la questione». Si sfilò un elastico dal polso e raccolse i capelli castani lunghi fino alle spalle in una stretta coda di cavallo. Le conferiva un aspetto più severo.
Andando verso la macchina, Gavin lesse ad alta voce l’indirizzo che Rory gli aveva mandato.
«Lo conosco», disse Angie.
Si lanciò un’occhiata veloce alle spalle, e anche Gavin si girò. Il capo stava uscendo dal pub, dirigendosi dalla parte opposta.
«Che succede?», disse Gavin. Quello scatto di Angie gli era parso in qualche modo strano.
«L’indirizzo. È casa di Marni Mullins».
Il nome gli suonava familiare, ma non ricordava bene perché. «Sarebbe?»
«Non sono affari nostri», rispose Angie, accelerando il passo.
Assurdo.
«Che informazioni abbiamo?», le chiese, salendo sul sedile del passeggero.
La macchina di Angie era piccola, e la testa di Gavin sfiorava il tettuccio. Fu costretto a tirare la cintura di sicurezza al massimo per infilarla. Con il suo metro e novanta, era quasi trenta centimetri più alto di Angie, per non parlare della stazza: con il suo fisico da giocatore di rugby, era grosso il doppio della collega.
«Non tante. Un vicino ha chiamato la polizia: urla, piatti rotti». Angie mise in moto e partì.
«Conosci gli abitanti della casa?»
«Marni Mullins è una tatuatrice di Brighton. Non è la prima volta che riceviamo una chiamata per violenza domestica».
Dal tono della voce, Gavin capì che Angie non doveva avere una buona opinione della donna.
«Marito violento?».
Angie scosse la testa. «No, il problema non è Thierry Mullins. È lei. Beve, lancia roba in giro e se la prende con lui».
«Allora perché non sarebbero affari nostri?»
«Lascia stare. Era coinvolta nel caso del Ladro di Tatuaggi».
«Ah», disse Gavin, inquadrando quel nome, finalmente. «È lei quella che aveva un qualche tipo di legame con il capo, giusto? O almeno così dicevano i giornali». Ricordava la foto sgranata che ritraeva Sullivan, alle prime luci del mattino, che usciva dalla casa di una testimone di un caso ancora aperto. Se n’era chiacchierato per settimane, in centrale.
«Fake news, niente di più». Ma quella risposta categorica arrivò un po’ troppo in fretta. E poi Angie cambiò subito argomento. «È bello averti in squadra, Gavin. Il capo ti considera un po’ una leggenda dopo l’arresto di Jered Stapleton».
«Ho solo obbedito agli ordini», rispose Gavin con un sorriso sardonico. «Ma grazie». Era orgoglioso del ruolo che aveva giocato nella cattura del killer dell’inchiostro avvelenato. «Angie, i colleghi mi hanno detto che eri molto legata a Tony Hitchins».
Nessuna risposta. Aveva appena svoltato l’angolo di Great College Street.
Aveva esagerato? Meglio andarci più piano?
«Volevo solo dirti che non voglio rimpiazzarlo, niente del genere. Non ho preso il suo posto: la mia promozione era già decisa».
Angie scosse la testa. «Tranquillo. Lo so». Parcheggiò lungo il marciapiede. «Siamo arrivati», tagliò corto, come se avesse deciso di mettere fine alla conversazione.
Erano almeno a due civici di distanza dall’indirizzo fornito da Rory, ma Gavin riusciva già a sentire un gran fracasso. Una donna stava urlando parole incomprensibili, poi il portone si aprì, e nel giro di un istante sbatté di nuovo. Un uomo di mezz’età in cardigan e mocassini andò incontro ai due agenti sul marciapiede.
«Siete della polizia?»
«Sì», rispose Gavin. «È stato lei a chiamarci?».
L’uomo annuì e guardò la casa. «Ne ho le palle piene di quei due», disse. «Dovrei lasciarli liberi di suonarsele una volta per tutte, così avremmo finalmente un po’ di pace da queste parti».
«Grazie per averci avvisato», disse Angie. Marciò decisa verso il portone e suonò il campanello.
Le urla erano ancora più forti e Gavin sentiva imprecare incessantemente in inglese e in francese. Angie suonò una seconda volta e la porta si aprì. Una donna bassa dai capelli scuri li studiò sulla soglia. Aveva il volto arrossato e gli occhi sgranati.
«Io ti conosco», disse, rivolgendosi ad Angie. «Va’ a farti fottere».
Con uno scatto del polso cercò di sbatterle la porta in faccia, ma Angie la bloccò con la spalla.
«Si calmi, signora Mullins».
Una volta dentro, Gavin vide un uomo alto, di colore, appoggiato al corrimano della scala. Thierry Mullins.
«So bene quello che ho visto, Thierry». Marni insisteva, infischiandosene alla grande dei due poliziotti. «Era Paul. È tornato».
«Paul è morto».
«Non è vero. È qui. E vuole portarmi via Alex. Vaffanculo, Thierry, perché non mi credi?». Gli si lanciò contro e lo tempestò di pugni sul petto.
«Merde! Non ricominciare». Thierry le afferrò le braccia.
Marni si allontanò, incerta, le lacrime agli occhi.
Thierry fece una smorfia. «Che c’è, ora? Non è il poliziotto che speravi?».
Con un urlo di rabbia, Marni si lanciò addosso al marito un’altra volta.
«Gavin!», strillò Angie.
L’agente sbatté le palpebre e tentò di fermare Marni, ma fu troppo lento e non riuscì a impedirle di raggiungere l’obiettivo.
Una ginocchiata. Dritto dritto là dove non batte il sole.
Ahia.
Capitolo 3
Francis
Mercoledì 1 novembre 2017
Quando arrivò la chiamata, Francis era in strada, diretto al lavoro. Un messaggio criptico e ingarbugliato a proposito di una qualche irruzione al Booth Museum of Natural History di Dyke Road. Non aveva ancora bevuto il caffè e già la giornata aveva preso una brutta piega, perché gli agenti arrivati per primi sulla scena non sapevano nemmeno dirgli se fosse stato commesso un crimine o meno. O se ci fosse davvero un cadavere.
Il Booth Museum era un anacronismo. Francis lo conosceva bene, come tutti coloro che erano cresciuti a Brighton. Si trattava di un bel museo vecchio stampo, con i vari reperti in mostra nelle teche di vetro e nessuna traccia di interattività, nessun bottone da premere. Non rifilava nozioni su nozioni ai suoi visitatori, e ormai non poteva più competere con l’acquario o la torre panoramica i360. Conteneva soltanto sfilze di uccelli impagliati, esemplari meravigliosi – anche se un po’ scoloriti, adesso – che rimandavano a un’era in cui il birdwatching si coniugava con la necessità di uccidere la preda e conservarla dietro un vetro per i posteri.
Quando arrivò sulla scena, parcheggiò tra le strisce gialle all’altro lato dell’ingresso. C’era già una pattuglia fuori dall’edificio e occupava lo spazio riservato alla fermata dell’autobus. Alle otto e mezzo, il museo non era ancora aperto alle visite, perciò Francis dovette bussare alla porta per entrare. Fu il poliziotto in divisa che aveva richiesto la sua assistenza ad aprirgli e fargli strada. Una breve rampa di scale e arrivarono alla reception.
Francis si guardò intorno. Le pareti erano tappezzate da teche quadrate e rettangolari, tutte contenenti uccelli impagliati inseriti nei diorami che rappresentavano i loro habitat. Avevano l’aria rigida e impolverata, non c’era più niente di vivo o naturale, o anche solo di verosimile, in loro. Tranne gli occhi. Era una cosa che Francis ricordava dai tempi delle gite scolastiche. Occhietti scuri e brillanti, che ti seguivano passo passo. Non era mai stato un grande fan degli uccelli morti.
Al centro della parete di fondo, c’era un ampio bancone di legno con un registratore di cassa all’estremità. Ogni superficie disponibile era occupata da espositori traboccanti di libri, cartoline, portachiavi, matite, pietre levigate e modellini di dinosauri – le solite cianfrusaglie pensate per privare i visitatori più giovani dei loro soldi. I gadget sembravano uguali a quando era piccolo lui.
Un ragazzo con il completo stropicciato e gli occhiali tondi gli stava venendo incontro.
«Salve, sono Nathan Cox. Il vicedirettore». Aveva una voce nervosa ed esitante. Gli porse la mano.
Francis la strinse al volo, cercando di sbrigare le formalità il più in fretta possibile. Il palmo era appiccicaticcio.
«Ispettore Sullivan». Resistette alla tentazione di pulirsi la mano sui pantaloni. «Mi spieghi perché ci ha chiamati».
«Sono arrivato verso le sette e mezzo», disse Cox. «In genere non apriamo prima delle dieci, ma ci vuole un bel po’ di tempo per preparare tutto per l’arrivo dei visitatori. A maggior ragione se aspettiamo qualche scolaresca». Fece una specie di smorfia. «Anche se io preferisco quando c’è silenzio e posso sentire l’eco dei miei passi».
Francis serrò le labbra. Pregò che quella visita non fosse solo una perdita di tempo.
«Stamattina mi sono reso conto quasi all’istante che c’era qualcosa di… non di sbagliato, no, ma di diverso. Non appena ho varcato la soglia, ho avuto la certezza che fosse entrato qualcuno: avevo chiuso a chiave ieri sera».
«Che cosa glielo ha fatto pensare?», chiese Francis. «C’erano segni di effrazione?». Si guardò intorno, prendendo nota mentalmente di ciò che vedeva: tanto per cominciare c’era una grossa cassa aperta vicino all’entrata, da cui fuoriusciva della sabbia, e poi… cos’era quel trambusto intorno al banco della reception?
«No, niente del genere», rispose Cox. «Solo un presentimento. Sono molto sensibile all’atmosfera di questo posto. L’aria… la polvere era stata spostata».
«Possiamo andare dritti al punto? Cosa dovrei guardare, signor Cox?»
«Sì, certo. Sono entrato dalla porta secondaria e ho appeso il cappotto nella saletta riservata al personale. Era quasi buio: dobbiamo tenere i lucernari socchiusi per evitare che i reperti della mostra sbiadiscano. Ho acceso le luci e ho attraversato la galleria dei dinosauri, fino in fondo. All’apparenza, tutto normale. Poi ho imboccato il corridoio più grande, controllando le esposizioni da entrambi i lati. Anche qui, tutto normale. Il salottino vittoriano nel mezzo era lo stesso di sempre. Ma quando sono arrivato alla reception, l’ho vista subito».
Francis inarcò le sopracciglia. «Vista? È una donna?».
Nathan Cox indicò la teca a sinistra dell’ingresso, quella su cui Francis aveva messo gli occhi poco prima. «Là».
L’ispettore guardò meglio. La teca conteneva un’antica mummia egizia, a quanto pareva, assisa su un piedistallo di legno ricoperto da geroglifici colorati e brillanti. Sotto, a sostenere il peso, parecchi centimetri di sabbia dorata e pulita. Su un lato del piedistallo c’erano tre vasi d’argilla, sigillati dalle teste animali di tre dèi egiziani.
Non era autentica, se ne accorgeva persino Sullivan. Le bende che fasciavano la mummia erano troppo bianche e nuove. Era tutto troppo perfetto. Le mummie vere sono sporche, macchiate e logore. Quella sembrava un artefatto nuovo di zecca. Magari l’avevano creato apposta per le scolaresche.
«Quindi, qual è il problema?»
«La mummia», disse Cox arricciando il naso. «Ieri sera, quando ho chiuso, non c’era e al momento non abbiamo appalti esterni. In genere in quelle teche teniamo le aquile di mare dalla coda bianca».
«Che fine hanno fatto?», chiese Francis.
Nathan Cox si guardò intorno esasperato. «Non ne ho idea. Non so come sia finita lì quella roba, né chi ce l’abbia portata. Il capo non è ancora arrivato… Magari lei sa qualcosa».
«Allora perché ci ha chiamati, di preciso? Non poteva aspettare che arrivasse il suo capo? Magari si tratta di una specie di scherzo di Halloween».
Cox non rispose.
Francis si avvicinò alla cassa e guardò all’interno. Gli arrivò alle narici un mix di canfora, pino, incenso e rosmarino. Non era spiacevole, anche se conteneva un sentore più amaro che gli restò incastrato in gola.
Le bende di lino avvolgevano la mummia in un intricato schema di sovrapposizioni e intrecci. C’erano delle piccole figure d’argilla incastrate fra le pieghe. Su quello che avrebbe dovuto essere il viso, scorse una losanga di legno su cui era dipinto il volto di una donna, gli occhi appesantiti dal kohl, le labbra rosse e sensuali. Si chiese chi fosse. Probabilmente era la copia di una mummia esistente, di una donna vissuta nell’antico Egitto che era stata sottoposta al processo di mummificazione. I suoi resti si trovavano in un qualche museo, ora?
Tastò la mummia, chiedendosi con cosa fosse stata imbalsamata. Paglia, probabilmente, a giudicare dal movimento traballante sul piedistallo sotto il suo tocco leggero. Per quanto apparentemente massiccia, non doveva pesare molto. Si spostò di lato e si chinò a studiare uno dei vasi. I granelli di sabbia scricchiolavano sotto i suoi piedi. Neanche i vasi erano veri, con ogni probabilità: gli originali erano inestimabili capolavori da museo, questo lo sapeva anche lui. Non ricordava i nomi degli dèi egizi, ma quei vasi servivano a custodire gli organi del deceduto, pronti per essere usati nell’aldilà. Notò un avvallamento nella sabbia, alla fine della fila.
«C’era qualcosa là?», chiese, rivolgendosi a Nathan Cox.
«Sì». Nathan lo guardò in faccia e poi posò gli occhi sul banco della reception. Francis seguì la traiettoria del suo sguardo e vide un vaso d’argilla rovesciato, il coperchio a forma di testa di lupo, un cumulo di polvere bianca e un oggetto che somigliava a una vecchia sacca di pelle, rigida e marrone, di una decina di centimetri di diametro. Francis si alzò e si avvicinò al banco. La testa di lupo aveva le orecchie a punta e il muso lungo e stretto. La sormontava il famoso copricapo dei faraoni egizi e, anche se il vaso per il resto non presentava disegni, il coperchio era dipinto d’oro, blu e nero. Esaminò la polvere rovesciata sul bancone e subito lo colpì un nuovo odore, che ricordava il puzzo stantio dei seminterrati abbandonati o delle cripte delle chiese.
«Che è questa roba?»
«Ho aperto uno dei vasi. Volevo vedere cosa ci fosse dentro. A dirla tutta, credevo fossero vuoti, e invece…». Gli tremò la voce. «Credo sia parte di un corpo». Concluse la frase con un tono un po’ più acuto, trasformandola quasi in una domanda.
Francis guardò l’oggetto che Nathan stava indicando, quello che sembrava una sacca di pelle. Era quasi nero, la superficie disidratata. Si chinò e annusò, facendo una smorfia.
«Non c’è ragione di credere che sia umano», disse, raddrizzando la schiena. «Ci è già capitato qualcosa di simile, ed è venuto fuori che erano resti felini». Sia Cox che il poliziotto semplice che lo accompagnava fecero una faccia disgustata. «Chiamo la nostra patologa e le chiedo di venire a dare un’occhiata. A questo vaso e agli altri», continuò indicando la teca. «Nel frattempo meglio che il museo resti chiuso, giusto per precauzione, nel caso si tratti di una scena del crimine».
Chiamò il medico legale Rose Lewis e le raccontò del vaso. Non gli parve troppo colpita.
«Ho già avuto la mia buona dose di gatti mummificati, grazie», rispose. «È il quarto vaso canopo in arrivo questo mese, con tanto di resti».
«Davvero?»
«Non umani, non preoccuparti. Resti felini».
Come supponeva.
«Qualcuno si è messo a mummificare gatti? O erano antichi?»
«Non credo, ma non sprecherò test e provette per scoprirlo».
«Quindi in parole povere questa chiamata è solo uno spreco di tempo prezioso?».
Rose si mise a ridere. «Visto che ci sei, prendi tutto e portamelo».
«Bisogna comunque capire cosa c’è all’interno della mummia», disse Francis lanciando un’occhiata a quella messa in scena in stile egizio. «Probabilmente niente, ma credo che sia il caso di considerarla una scena del crimine fino a nuovo avviso».
«E va bene, mi hai convinto. Arrivo».
Francis si rimise il cellulare in tasca.
«Nathan», lo chiamò, «lei è il vicedirettore di questo posto, giusto?».
Nathan annuì.
«Chi è a capo dell’istituto e dov’è finito?»
«Finita. La direttrice è Alicia Russell. Avrebbe dovuto essere già qui». Nathan si guardò intorno come se si aspettasse quasi che il suo diretto superiore si materializzasse di colpo davanti ai suoi occhi. «Vado a controllare la sala del personale sul retro».
«Sì, la prego».
Rose arrivò intorno all’orario d’apertura, ma Nathan aveva già appeso un cartello all’ingresso spiegando che lo stabile sarebbe rimasto chiuso. Ancora non c’era traccia di Alicia Russell: non si era fatta vedere e non rispondeva al telefono.
Rose portava la tuta e aveva da poco tagliato i capelli castani e scuri in un ordinato caschetto corto. Aveva ancora un velo di sudore sulla fronte – Francis pensò che lui invece non ricordava neanche l’ultima volta in cui era andato a correre. Ma almeno la collega era venuta armata di caffè.
Sullivan si concesse un bel sorso prima di guidarla verso il bancone della reception.
«Lì», disse indicandole la sacca essiccata ancora circondata dalla polvere.
Rose la esaminò da una miriade di angolazioni diverse, poi infilò i guanti di lattice.
«Era tutto quanto nel vaso?», chiese.
Nathan Cox annuì.
Rose si avvicinò alla mummia. La teca di vetro era ancora aperta. Si sporse dentro, annusando l’aria con grande concentrazione. Posò gli occhi sui tre vasi e aggrottò la fronte.
«Francis?». Nella voce si percepiva una nota di preoccupazione.
«Sì».
«Quanto credi che sia grande lo stomaco di un gatto? Soprattutto dopo essere stato essiccato nel processo di mummificazione?».
Si voltò anche lui a guardare l’oggetto sul banco delle reception. Capiva cosa voleva dire. Il sapore del caffè che gli era rimasto in bocca assunse una nota di rancido e Francis fece una smorfia.
«Esatto», disse Rose. «Non è di un gatto. Temo che quello sia uno stomaco umano. Il che significa che questa è davvero una scena del crimine».
Capitolo 4
Francis
Mercoledì 1 novembre 2017
Francis vagava per i corridoi vuoti del museo. Aveva come la sensazione che gli uccelli ormai morti da tempo seguissero ogni sua mossa con i loro occhietti vitrei, gli pareva di respirare tutta la polvere di quelle carcasse. In fondo al corridoio, un enorme pipistrello impagliato lo puntava con le sue ali di carta spiegate, i denti aguzzi da roditore pronti a lacerargli la pelle. Per quanto innocuo, aveva sempre trovato quel posto un tantino inquietante, anche prima della scoperta dello stomaco.
L’agente in divisa che aveva risposto alla chiamata era in piedi davanti alla porta della saletta riservata al personale.
«È arrivato qualcun altro dello staff?», chiese Francis.
«La ragazza della biglietteria, che gestisce anche il negozio di souvenir. Le ho chiesto di aspettare dentro».
Francis entrò nella sala: un paio di sedie, un tavolino, uno striminzito angolo cucina con un lavandino e un bollitore. Non sembrava un posto accogliente, tanto meno rilassante. Una ragazza sedeva nervosamente sul bordo di una sedia di legno. Nathan Cox le dava la schiena, in piedi di fronte alla finestra. La vista non era un granché: un muretto di mattoni. Il vice direttore si voltò solo quando sentì entrare Francis.
Quando Cox fece le presentazioni, la ragazza lo guardò con occhi sgranati e confusi. Doveva avere sui diciotto anni, anche se portava uno di quei vestitini floreali fuori moda che si vedevano agli incontri della chiesa. Occhiali da vista dalla montatura pesante, capelli castani raccolti in una coda di cavallo.
«Lei è Martina Russell».
Francis attese un attimo prima di rivolgerle un cenno del capo a mo’ di incoraggiamento. «Di che ti occupi qui, Martina?»
«Sta alla reception quattro giorni alla settimana, il quinto dà una mano ad Alicia in ufficio». Cox rispose senza darle il tempo di aprire bocca.
Martina Russell confermò annuendo.
«Russell?», disse Francis. «Parente di Alicia?»
«È mia zia».
L’espressione contrariata che attraversò il volto di Nathan Cox non passò inosservata agli occhi esperti dell’ispettore. Chissà cosa significava.
«Sai perché non si è presentata al lavoro stamattina? Hai anche solo una vaga idea?».
La ragazza sollevò di colpo lo sguardo, sorpresa. «È mercoledì, giusto?».
Francis annuì.
Martina scosse la testa. «Non mi ha detto niente. Magari è rimasta imbottigliata nel traffico».
«Ha quasi due ore di ritardo e abita a Shoreham», disse Nathan Cox. Dal tono di voce era piuttosto evidente che tra la giovane e il vice direttore non correva buon sangue. «E non ha nemmeno chiamato per avvisare».
«Tiene un’agenda qui?», disse Francis. «Magari aveva un appuntamento da qualche altra parte».
Martina annuì di nuovo, ma poi scosse la testa. «Sì, l’agenda è nell’ufficio, ma non aveva in programma niente per oggi. Altrimenti l’avrei saputo».
«Me la mostri, per favore?».
Quando Martina si alzò,