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Tokyo a mezzanotte
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E-book324 pagine4 ore

Tokyo a mezzanotte

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller Come petali di ciliegio

I sogni di Hailey stanno per realizzarsi: ha un biglietto di sola andata per Tokyo, dove l’aspetta il fratello Jamie, che vive in Giappone già da qualche anno, e un colloquio di lavoro in un’importante società. Appena arrivata, però, Hailey si accorge che lo studio del giapponese non è sufficiente e che la cultura con cui entra in contatto è lontanissima dalla sua. Inoltre Jamie è nei guai. Decisa ad aiutare il fratello, accetta il lavoro che, dal primo giorno, si rivela un incubo: il giovane CEO, Naoki Saito, è un uomo arrogante che la tratta in modo supponente e le assegna incarichi e retribuzione da stagista. Per guadagnare di più Hailey decide di cedere al proprio orgoglio e comincia a fare la hostess nell’unico posto dove i suoi tratti occidentali sono apprezzati, un club per soli uomini. Ma la sera in cui proprio il suo capo Naoki varca la soglia del locale in cerca di compagnia, è l’inizio di un’avventura sconvolgente e pericolosa, che la porterà alla scoperta di una parte di sé, nascosta e misteriosa. La magia avvolgente delle notti incantate di Tokyo darà ad Hailey il coraggio di lasciarsi andare a tutte quelle emozioni mai sperimentate prima? E, soprattutto, l’amore, quello folle e dirompente, sarà in grado di annullare la distanza culturale che si frappone tra l’affascinante e tradizionalista Naoki e la giovane, ribelle americana?

Il fascino unico e misterioso del Giappone in una storia d’amore sensuale e travolgente

«I personaggi, l’intreccio e l’ambientazione (il Giappone e la sua cultura) compongono un libro denso di emozioni. Brava Mia Another.» 

«Ci sono i libri che lasciano il segno, che ti fanno venire la pelle d’oca, che ti tolgono il sonno: questo è uno di quelli!»

«Tokyo è la protagonista silenziosa di questa storia ambientata tra le sue tipiche case di periferia, gli stretti vicoli del centro, l’affollato ordine delle stazioni dei treni, i colorati templi buddisti, le imponenti università e i viali fatti di ciottoli e ciliegi in fiore.»
Mia Another
È lo pseudonimo di una scrittrice che vive nel modenese. Classe 1992, introversa, ama gli animali e l’autunno, è appassionata di videogame e fumetti. La scrittura è sempre stata al centro della sua vita. Dopo aver lavorato per anni in un web magazine a tema hi-tech, ha iniziato la sua avventura nel selfpublishing nel 2014, pubblicando romanzi di genere New Adult e facendosi conoscere sui social. Con la Newton Compton ha pubblicato Come petali di ciliegio, che ha ottenuto uno straordinario successo, e Tokyo a mezzanotte.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2021
ISBN9788822750655
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    Anteprima del libro

    Tokyo a mezzanotte - Mia Another

    Prologo

    Come ho fatto a finire in una situazione del genere?

    Stavo solo cercando di sistemare le cose. E invece sono qui, in un vicolo sporco, braccata da un clan di malavitosi, a piangere e tremare di paura, a chiedermi se riuscirò mai a tornare a casa.

    Davanti a me ci sono tre tipi loschi che seguono gli ordini di un omaccione in camicia e occhiali da sole. Uno di loro ha un tirapugni di ferro, e ha colpito mio fratello allo stomaco e al volto, facendolo finire per terra proprio davanti a me.

    Sembra un brutto film che non voglio guardare. Vorrei solo svegliarmi immediatamente e scoprire che si tratta di un incubo.

    I rantoli di Jamie sono preoccupanti, sta perdendo sangue dal labbro e dal naso. Devo chiamare aiuto. La polizia, un’ambulanza, chiunque. Ma lo sguardo minaccioso di questi brutti ceffi mi paralizza, sembrano pronti ad afferrarmi per farmi qualcosa di orribile.

    Ansimo e trattengo il fiato. Sul mio viso scorrono lacrime miste a sudore, sono terrorizzata e confusa. Prendo il telefono dalla tasca, ma mi trema la mano. Non riesco neppure a sbloccare lo schermo.

    All’improvviso, uno di loro fa uno scatto verso di me. Mi intima di fermarmi con tono secco: sobbalzo e il cellulare mi cade per terra; lui mi afferra il braccio prima che possa chinarmi e raccoglierlo. Grido più forte che posso, ma sembra tutto inutile. Ci troviamo in una zona isolata, e gli edifici qui intorno sono in ristrutturazione. Non c’è nessuno, a parte noi.

    Cerco di divincolarmi, di strattonarlo, di pestargli i piedi e tirargli dei calci, ma è come colpire un muro di cemento armato, non serve a niente. Mi fanno schifo le sue mani sudate, mi viene da vomitare.

    «Lasciatemi subito!», urlo nella mia lingua, che loro sembrano non capire affatto.

    Qualcuno, magari in lontananza, dovrà pur sentire le mie grida. È impossibile che finisca così, giusto? Io e Jamie non abbiamo mai fatto niente di male, siamo brave persone. Non meritiamo di morire pestati in un vicolo.

    Santo cielo, riesco quasi a immaginare i titoli di giornale sulla nostra scomparsa, i resti nascosti per sempre, in questa città caotica che ingloba tutto.

    Mi tremano le gambe. Inizio a piangere disperatamente, singhiozzando a gran voce, mentre Jamie, per terra, tossisce sangue nel tentativo di rialzarsi.

    «Vi pagheremo. Pagheremo tutto», biascico nel mio giapponese imperfetto. «Vi prego…».

    Sento stridere le ruote di un’auto. Una frenata improvvisa alle mie spalle, il rumore di una portiera, passi veloci sull’asfalto.

    E poi quella voce che conosco bene, che ormai sento ogni giorno: Naoki. Il suo tono sembra meno apatico del solito, quasi turbato. Non so cosa ci faccia in un posto così squallido, e non sono abbastanza lucida per riflettere.

    «Signori, c’è qualche problema?».

    Il delinquente che mi sta trattenendo molla immediatamente la presa e scatta in un inchino formale, seguito dagli altri due, che lo imitano goffamente.

    Non ci posso credere. I membri della banda conoscono Naoki Saito, e anzi, lo rispettano. Possibile che sia immischiato con la malavita?

    Lui avanza con falcate rapide, ha la cravatta allentata al collo, i polsini della camicia sbottonati, per il resto è impeccabile. Deve essere corso qui dall’ufficio. Si massaggia i polsi, fa scricchiolare le nocche in modo minaccioso, come se fosse pronto a una rissa.

    «Questo non ti riguarda, Saito-san», gli risponde rude il più grosso, l’unico che non ha chinato la testa per salutarlo.

    «Temo di sì, in realtà. State spaventando la mia fidanzata».

    Sto ancora tremando, mi fa male il petto, mi pulsa la testa. La sua fidanzata, ha detto? Deve essere impazzito.

    Naoki continua a camminare nel vicolo fino a fermarsi accanto a me. Nessun ghigno beffardo stavolta, niente sorrisi a metà, né occhiate dall’alto in basso. È serio, tanto serio da incutere timore. Mi cinge la vita e si china verso di me parlandomi in inglese, a voce bassissima.

    «Stai bene?»

    «I-Io sì, ma mio fratello…».

    «È tutto a posto. Lascia che ci pensi io».

    Non voglio nemmeno sapere che razza di rapporti abbia con questa gente, né come sia riuscito a trovarci, ma sono così felice che sia arrivato in tempo.

    «Saito-san… noi non ne eravamo al corrente», prova a rimediare l’omaccione con gli occhiali da sole, inspiegabilmente messo in soggezione dal mio capo. Accenna a Jamie rannicchiato per terra. «Il ragazzo non ha mantenuto la parola».

    «Confido che sia possibile trovare una soluzione più adeguata. Lasciatemi parlare con Abe-sama», pronuncia Naoki sicuro e irremovibile, con il mento alzato e il respiro regolare, una mano sul mio fianco e l’altra chiusa in un pugno.

    È così vicino. Le note di cannella speziata del suo profumo mi arrivano alle narici, rassicurandomi. È venuto qui apposta per me, neanche fosse un supereroe. In qualche modo, c’è sempre quando ne ho più bisogno.

    I tre scagnozzi, un po’ titubanti, balbettano tra loro, si inchinano di nuovo, e poi si fanno da parte, per lasciargli via libera verso la porta secondaria dell’edificio, la stessa dalla quale ci hanno spinti fuori poco fa. Oh, Dio, non vorrà davvero entrare lì?

    Lui annuisce, mi lascia, fa un passo avanti. Gli afferro una manica per fermarlo.

    «Che ti salta in mente? Questi sono fuori di testa, hanno delle armi…».

    «Lo so, li conosco».

    «Finirai ammazzato!».

    «Vedremo. Adesso prendi tuo fratello e filate in macchina. Sbrigati».

    «Ti prego, no. È pericoloso!».

    Avanza ancora, si volta verso di me. Schiude le labbra in un ghigno tagliente, riduce gli occhi a due fessure.

    «Oh, Hailey. Sei così carina quando ti preoccupi per me».

    1

    Hailey

    Mio fratello è sempre stato il mio eroe. Quando eravamo piccoli, mi difendeva dai bulletti e mi aiutava a fare i compiti, e da grande mi ha persino insegnato a guidare.

    Crescendo, è diventato un esempio perfetto da seguire: borsa di studio, media altissima, insegnanti entusiasti e tanti amici. Si è laureato in scienze informatiche senza alcun intoppo, rendendoci tutti fieri di lui.

    Un paio di anni fa, ha fatto le valigie ed è volato a Tokyo per uno stage, e la città gli è piaciuta così tanto che ha deciso di trasferirsi lì e aprire una società tutta sua.Da quel giorno, ci siamo visti solo quando tornava a casa per le feste. Raccontava storie fichissime sulla sua vita in Giappone e sul progetto che stava sviluppando, un gioco per cellulari che lo avrebbe reso ricco.

    Ho passato gli ultimi anni della mia vita a imitarlo, mi sono impegnata sui libri, ho scoperto per cosa fossi più portata, e ho completato il percorso universitario in modo brillante. Dopo di che ho studiato il modo di raggiungerlo e ho ossessionato insegnanti e conoscenze per ottenere un colloquio in una società di Tokyo. Avevo bisogno di rivedere Jamie, e soprattutto di cambiare aria.

    Sognavo di poterlo fare da tanto tempo. Ero felicissima quando sono salita sull’aereo, e lo sono stata fino a poche ore fa, prima di atterrare. E prima di scoprire che Jamie, in realtà…

    «Sei un fottuto bugiardo! Dio, non ci posso credere. Le nostre telefonate, le videochiamate, le mail… Non hai fatto altro che mentire!».

    «Hailey, ti posso spiegare. Per favore, calmati».

    «Da quanto tempo va avanti questa storia?», gli ringhio furiosa.

    Lui non sembra molto turbato. Fa spallucce, si gratta la nuca.

    «Le cose sono iniziate ad andare male l’anno scorso».

    «L’anno scorso?», ripeto sconvolta.

    «Ora ti spiego tutto, d’accordo? Sediamoci».

    «E dove diavolo dovremmo sederci, non c’è spazio nemmeno per le sedie in questa tana per topi!».

    Mio fratello prende uno scatolone, lo trascina nel centro della stanza e mi fa cenno di accomodarmici sopra. Io alzo gli occhi al cielo e mi massaggio le tempie. Ho un mal di testa terribile, il viaggio mi ha distrutta e non ho ancora avuto modo di riposare. Il jet-lag mi ucciderà.

    Sto morendo di fame, ma non ho alcuna intenzione di aprire il vecchio frigo incastrato nell’angolo. Ha un brutto aspetto, la maniglia è scrostata e ho paura che venga fuori qualche scarafaggio. Dio, che schifo.

    Questo minuscolo bilocale è una topaia. C’è un caldo infernale e manca l’aria condizionata. Il bagno non ha finestre, il ventilatore sul soffitto cigola, il divanetto è costellato da bruciature di sigarette e puzza di muffa. È il posto peggiore in cui abbia mai messo piede.

    «Che ne è del tuo bell’appartamento a Shibuya?»

    «Quello non l’ho mai avuto. Ho solo scattato delle foto durante un open day dell’agenzia immobiliare».

    «E il tuo studio, i colleghi, il progetto?»

    «Tutto in malora».

    «Cristo santo, Jamie».

    Mio fratello si siede per terra goffamente e a gambe incrociate, di fronte a me. Avrebbe davvero bisogno di radersi e dare una sistemata ai capelli, non ho idea di come faccia a sopportare quella matassa di ricci con questo caldo.

    Inizia a gesticolare, apre le braccia, mi fissa come per assicurarsi che lo stia ascoltando sul serio.

    «Eravamo partiti bene. Stava andando tutto alla grande, lavoravamo notte e giorno al progetto, contavamo di lanciare il gioco durante il periodo festivo. Sarebbe stato un successo garantito, per noi».

    «Voi, chi?».

    Jamie si gratta il naso.

    «Io e altri cinque programmatori».

    «Cinque?»

    «Be’, è uno studio indipendente, cosa ti aspettavi?»

    «Non lo so, ne parlavi così in grande quando tornavi a casa», sbotto acida, arieggiandomi il viso con la mano. Sento le gocce di sudore sulla fronte. Accidenti, il clima estivo di questa città è infernale, peggio di quanto mi aspettassi.

    «Be’, stavamo procedendo a buon ritmo, il nostro Bang Battle Royale aveva superato la fase alpha, quindi abbiamo dato il via al beta test, e a quel punto sono iniziati a saltare fuori un milione di bug».

    «Lo sai che non ci capisco niente di questa roba. Puoi parlare come una persona normale, per favore?».

    Si schiarisce la voce, si scompiglia i capelli sulla fronte.

    «Dunque, come te lo spiego… I difetti, ecco. Ci siamo affidati a un’agenzia che ci aiutasse a testare il gioco, per assicurarci che tutto funzionasse a dovere. E non funzionava affatto, abbiamo sistemato prima i problemi più gravi, poi quelli meno gravi, ma appena mettevamo a posto una cosa, se ne rompeva un’altra».

    Mi porto una mano alla tempia e spalanco gli occhi.

    «Come… Com’è possibile?».

    Lui apre le braccia e alza gli occhi al cielo.

    «Non lo so! È la stessa cosa che ho detto io. Comunque, abbiamo dovuto spostare la finestra di lancio all’estate per essere sicuri di terminare i lavori, e nel frattempo, mentre cercavamo di far girare il nostro gioco, in primavera è uscito questo».

    Digita qualcosa sul suo cellulare, poi mi mostra lo schermo. C’è la locandina colorata di un gioco scaricabile dallo store, ma è scritto tutto in giapponese e ho troppo mal di testa per azzardare una traduzione.

    «Che roba è?»

    «Un battle royale con i cowboy. Esattamente come il nostro, ma con un altro nome. Oh, ed è stato un successone, hai visto quante migliaia di download? È una killer-app! Lo sapevo che la nostra idea avrebbe spaccato!».

    «Stai di nuovo parlando in quel modo», mi lamento, e scuoto la testa.

    «Sono convinto che l’agenzia alla quale ci siamo rivolti ci abbia fregati, portandoci a rallentare lo sviluppo del software, per vendere le nostre idee al miglior offerente nel frattempo», riprende Jamie, con le sopracciglia bionde corrucciate.

    «Improbabile. Magari qualcuno ci aveva già pensato prima di voi. A tutti piacciono i cowboy», ribatto, alzandomi in piedi dopo aver sentito scricchiolare minacciosamente lo scatolone sotto di me. «Avreste potuto lanciare lo stesso il vostro gioco e fare concorrenza all’altro».

    «Non aveva più senso, Hailey. Ci saremmo ritrovati a rilasciare sul mercato un prodotto nato vecchio, non lo avrebbe scaricato nessuno. All’inizio abbiamo pensato di farci venire in mente qualcos’altro, ma i ragazzi erano nervosi per le spese sostenute a vuoto, per i mesi di lavoro non pagati, e insomma… hanno perso fiducia».

    «Lo credo bene».

    «Mi hanno dato un ultimatum, avevano intenzione di denunciarmi. Così, ho dovuto rimediare un prestito per pagarli, perché non mi era rimasto più un soldo», mi racconta demoralizzato. «Nel giro di poche settimane mi sono ritrovato squattrinato, in cerca di lavoro e indebitato fino al collo. Ho dovuto optare per una sistemazione economica, dato che la paga da fattorino non è il massimo, ed eccomi qua».

    «Fattorino?», ripeto sconvolta. «Tu sei un genio dell’informatica!».

    «Ho mandato il curriculum a svariate aziende, ma è un campo abbastanza saturo. Nessuno è disposto ad assumere un occidentale con poca esperienza», mi spiega, posandosi i palmi sulle ginocchia e sospirando a testa bassa. «È una giungla, sorellina».

    «E ora, come farai a pagare il prestito?»

    «Non ne ho idea. Sto provando a mettere da parte dei soldi, ma non bastano mai».

    Mi mordo il labbro e rigiro tra le dita una ciocca di capelli. Non mi piace vederlo così giù di corda, non ci sono abituata.

    «Sai, ho un po’ di risparmi del mio lavoro estivo. Potrei…».

    «No, Hailey», nega subito, facendomi un cenno con la mano.

    «Non fare l’orgoglioso, me li renderai con calma».

    «Non basterebbero».

    «Potremmo convincere papà a darti una mano, allora», insisto, caparbia.

    «Ascolta: né tu, né io, né papà abbiamo quella somma».

    «Dio, di quanti soldi stiamo parlando?»

    «Credimi, non vorresti saperlo».

    Mi guardo di nuovo intorno. Vorrei rendermi utile, perché non riesco a credere che uno come lui sia finito tanto in basso. Ci deve pur essere qualcosa che posso fare per aiutarlo.

    «Hai provato a spiegare la situazione alla banca e chiedere delle rate più piccole? Mostrami i documenti, forse posso farmi venire in mente una soluzione», propongo.

    «Non c’è una banca», mi rivela. «Nessun istituto concederebbe credito a uno come me. Ho dovuto trovare un altro modo. Un modo non convenzionale».

    «Oh, no. Strozzini?», intuisco.

    «Non sono esattamente strozzini, ma…».

    «Dobbiamo dire tutto a mamma e papà, subito!», lo interrompo, prendendo il cellulare dalla tasca dei jeans.

    «Primo, non puoi chiamarli ora, dato che sono circa le quattro del mattino in Illinois», mi ferma, sollevando un sopracciglio. «E secondo, non voglio che tu lo faccia. Non ho mai chiesto aiuto a nessuno finora, e non lo farò adesso».

    «Vuoi continuare a mentirgli, pensi che i nostri genitori meritino questo?»

    «I nostri genitori hanno lavorato tutta la vita per permetterci di studiare, e alla loro età meritano sonni tranquilli. Non voglio che finiscano sul lastrico per sistemare i miei casini, non sono più un ragazzino», mi dice serio, quasi come se mi stesse rimbrottando.

    «Be’, vedi altre soluzioni?».

    Fa spallucce, si rimette in piedi e guarda l’orologio sulla parete.

    «Me la caverò, in qualche modo. Non temere».

    «Ma Jamie, io…».

    «Mi dispiace», mi anticipa abbassando il viso per un paio di secondi. «Mi dispiace che tu abbia affrontato un lungo viaggio e pianificato tutto nei dettagli per ritrovarti in questa situazione. E mi dispiace di averti delusa», mormora. Apre le braccia, scuote la testa. «Avrei voluto ospitarti in un appartamento lussuoso per il tempo necessario a sistemarti, ma ora questo è tutto ciò che posso offrirti, perciò, se vuoi tornare a casa, non ti biasimo».

    Mi stringo nelle braccia. Vorrei continuare a sgridarlo, ma so che non servirebbe a niente. È già abbastanza demoralizzato così.

    Jamie prende un cappellino giallo dall’appendiabiti, se lo mette in testa, accenna alla porta d’ingresso.

    «Devo andare al lavoro, tra poco inizia il mio turno. Tu riposati, sei uno straccio. Puoi dormire nel mio letto».

    «E tu?»

    «Mi farò prestare un futon».

    Annuisco, lo accompagno sulla soglia. Mi lascia le chiavi, posandole nel palmo della mia mano, e mi sorride malinconico.

    «Sai, ora che ti ho raccontato la verità mi sento molto meglio. Sono contento che tu sia qui», mi strizza l’occhio, apre la porta e mette un piede fuori. «È bello rivederti».

    Lo saluto, chiudo l’uscio dall’interno con la chiave. Sento i suoi passi fuori, e poi sulle scale, ancora per qualche secondo.

    Gironzolo per il minuscolo appartamento guardando i pochi mobili che lo arredano. La cucina sembra alquanto usurata, il piano cottura è opaco, c’è un forno a microonde con la spina staccata. Le due finestre si aprono solo a metà, e si affacciano verso le mura dei palazzi adiacenti, che non lasciano entrare molta luce in casa. In camera, appoggiati alle pareti, ci sono il letto, il comodino e l’armadio, mentre sul soffitto sono attaccati degli appendini per fare asciugare la biancheria. Mi stendo sulle lenzuola e rimango con lo sguardo verso l’alto, a osservare i calzini asciutti che oscillano sopra la mia testa.

    Mi sembra chiaro che, se anche decidessi di restare, in questo posto staremmo stretti. Però, se la paga alla Saito fosse decente, io e Jamie potremmo mettere insieme le nostre risorse per ripagare i suoi creditori in fretta. E magari, potrei persino cercarmi un bell’appartamento tutto mio.

    Mi rigiro nel letto, nascondo gli occhi sotto il braccio per ripararmi dalla luce. Sto quasi per addormentarmi, e nella mia testa iniziano a farsi vivi i ricordi d’infanzia con lui.

    Andarmene significherebbe abbandonarlo a sé stesso, e sarei davvero una pessima sorella se lo lasciassi solo proprio ora che è in difficoltà. Ma ho troppo sonno per pensarci.

    2

    Hailey

    Sento dei tonfi e il suono di un campanello. All’inizio non riesco a capire nemmeno da dove provengano. Sono convinta di essere a casa mia, e che sia mattino presto, ma appena apro gli occhi mi ritrovo in un posto che non riconosco, tutta sudata, disorientata dal buio e dalla puzza di chiuso. Sbatto le palpebre un paio di volte prima di fare mente locale: sono a Tokyo, questo è il letto di mio fratello, fa un caldo fottuto e non ho la più pallida idea di che ore siano.

    Mi alzo, barcollo dalla minuscola camera alla cucina a piedi scalzi. Mi avvicino alla porta e mi sollevo sulle punte per guardare dallo spioncino.

    «Chi… chi è?», biascico, senza rendermi conto che avrei dovuto dirlo in giapponese.

    Riconosco subito il cappellino giallo che Jamie ha indossato prima di uscire.

    «Hailey, sono io. Mi apri?»

    «Ah, s-sì».

    Ho ancora gli occhi assonnati, perdo tempo a ritrovare le chiavi, a beccare la serratura, prima di lasciare entrare mio fratello. Il sentore acre che mi arriva alle narici mi fa storcere il naso.

    «Hai bisogno di una doccia, Jamie».

    «Be’, anche tu».

    Abbasso lo sguardo, inspiro l’odore della mia maglietta. Dio, ha ragione.

    «Ma che razza di clima è questo?», bofonchio, mentre lui richiude la porta e posa due sacchetti sul ripiano della cucina. «Sembra una sauna, non si respira».

    «E non è niente, sorellina. Avresti dovuto vedere il mese scorso. L’estate qui fa schifo, ma ormai sta passando. Ancora un paio di settimane e avrai bisogno di una giacca», mi spiega, mentre accende il ventilatore sul soffitto, che inizia prima a cigolare, poi a diffondere un soffio d’aria tiepida che mi dona ben poco sollievo.

    «Come fai a sopportarlo?».

    Fa spallucce, fruga nei sacchetti e tira fuori delle vaschette di patatine fritte e qualche bustina di ketchup.

    «Ci si abitua».

    Mi avvicino alla cucina. Jamie ha portato anche due hamburger, un contorno di verdure miste che non riesco a identificare e un paio di bibite.

    «Dimmi quanto hai speso, ti pago la mia parte».

    «Niente», ribatte, addentando il suo panino. «L’unica cosa bella del mio lavoro è che mi lasciano portare a casa gli ordini sbagliati, il che vuol dire cena gratis quasi ogni sera. Sbagliano sempre qualcosa, in cucina».

    «Oh, wow».

    Prendo una patatina con la punta delle dita, ma il mio stomaco è sottosopra e non vuole collaborare.

    «Non ho fame. Credo che mi farò un caffè».

    «Devi mangiare qualcosa, altrimenti come speri di affrontare il colloquio di domani?»

    «Do-Domani?», Mi porto una mano tra i capelli, sospiro. Sono confusa, non ricordo più nulla.

    «Domani mattina. L’hai detto tu», risponde stranito. «Ma se non vuoi più andarci, ti capisco».

    «Ci vado eccome», mormoro. «Quanto tempo ho per rimettermi in sesto?».

    Ridacchia e guarda l’orologio.

    «Undici ore, più o meno».

    «Ah, odio il jet-lag».

    «Che intenzioni hai, Hailey? Vuoi farti assumere?»

    «Ci puoi scommettere. Tu non hai idea di quanto abbia dovuto sgobbare per ottenere le raccomandazioni necessarie per il colloquio. Non mi tirerò indietro proprio ora», rispondo seria. «Resterò qui e ti darò una mano. È una compagnia importante e in rapida ascesa, la paga non sarà male. Faremo a metà con l’affitto, le bollette e la spesa, e metteremo da parte i soldi che ci restano per ripagare il tuo debito».

    Smette di mangiare per lanciarmi un’occhiataccia.

    «Sai che non posso accettare».

    «Perché no? Mi restituirai fino all’ultimo centesimo quando ti sarà possibile, ma almeno sarai fuori dai guai. Tu faresti lo stesso per me, non negarlo».

    Sospira, apre una lattina e beve un sorso di birra.

    «Non lo nego».

    «Bene, allora è deciso».

    «Quindi, stai seriamente pensando di stabilirti qui?».

    Inizio ad avvertire un po’ di fame. Prendo l’altro panino, lo rigiro per capire cosa c’è dentro.

    «Può darsi. A patto che riesca a permettermi un appartamento con l’aria condizionata e più grande di questo».

    Jamie si appoggia al ripiano della cucina e continua a mangiare in piedi, ancora con il cappellino in testa. Sembra così stanco.

    «Devi rifletterci bene. La vita non è facile a Tokyo,

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