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La luce delle stelle
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E-book329 pagine4 ore

La luce delle stelle

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Info su questo ebook

All'età di nove anni, Karin ha già ben chiaro qual è il suo sogno: diventare astronauta e andare nello spazio. Venticinque anni dopo è ingegnere robotico in un'azienda che collabora con la NASA e l'ESA. Ci è arrivata vicino... ma non abbastanza. Dentro di lei, però, la speranza non si è mai assopita: le si presenterà mai l'occasione?Quando all'improvviso l'Agenzia Spaziale Europea rende noto di avere bisogno di tre nuovi astronauti, Karin non esita un istante. Con il forte incoraggiamento della famiglia e di Emil, il suo migliore amico, incomincia la lunga e complicata procedura di selezione.Come previsto, gli ostacoli non saranno pochi per lei, giovane donna contro decine di migliaia di candidati che aspirano a quella stessa professione da sogno. Dopotutto, la fortuna premia gli audaci e Karin, contro ogni probabilità, si aggrapperà a ogni minima possibilità perché quel sogno possa finalmente avverarsi. LA LUCE DELLE STELLE è un racconto appassionato sull'amicizia, su come si possano superare le avversità e come si debba osare mettersi in gioco per realizzare i propri sogni. Questo è il primo libro della "Collana della Forza di Gravità".-
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2023
ISBN9788728455104
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    Anteprima del libro

    La luce delle stelle - Anneli Olsson

    La luce delle stelle

    Translated by Giorgio Berardi

    Original title: Tända stjärnor

    Original language: Swedish

    Copyright ©2022, 2023 Anneli Olsson and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728455104

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Alla mia mamma, Ing-Britt,

    per tutto quello che hai fatto e che continui a fare per me.

    Per aspera ad astra

    PROLOGO

    Karin, nove anni, 1996

    Quanto era grande in realtà? Un brivido le aveva percorso il corpo mentre con lo sguardo accarezzava il cielo cosparso di stelle. Senza che la mamma se ne accorgesse, Karin era sgusciata fuori con indosso solo un giubbino troppo leggero. La poltiglia fredda che le intrise le scarpe di tela le fece affrettare il passo verso il masso che si trovava nel loro campo. Ci si arrampicò sopra con movimenti che ormai le erano familiari, e poi si sedette a gambe incrociate. Tornò a guardare in alto verso il cielo nero con il velo luminoso della Via Lattea, che sembrava esserci dipinta sopra con una pennellata di grigio appena accennato. Con papà aveva letto della Via Lattea e del fatto che evidentemente ci abitavano dentro. Una galassia. Karin assaporò quella parola strana, così difficile da capire.

    Era tutto silenzio e pace, a eccezione del rumore di qualche macchina isolata che passava sulla strada. La falce di luna saliva lentamente sulla volta celeste… e pensare che l’uomo era arrivato fin lassù! Aveva imparato anche questo quando lei e papà si erano ritrovati seduti lì qualche tempo prima. Come fosse stato possibile per l’uomo andare sulla luna non riusciva proprio a capirlo, ma intanto le era venuta una gran malinconia. C’era così tanto di incomprensibile riguardo allo spazio che avrebbe voluto parlarne con papà in quel momento. Lui era bravissimo a tentare di spiegare, e aveva pazienza quando lei gli faceva sempre le stesse domande.

    Ma stasera non era così. Lui si era arrabbiato quando lei si era lamentata perché non voleva accompagnarla. Poi si era rattristato, aveva chiesto scusa ed era andato in camera da letto chiudendo la porta dietro di sé. Era la prima volta che le aveva detto di no da quando avevano preso a venire qui insieme, e la delusione di non poterlo avere per parlarci era cocente. E non era stata una bella sensazione che le avesse sbuffato contro come non faceva mai. Se l’avesse accompagnata, forse gli sarebbe tornato il buonumore. Karin ne era sicura, perché lui diceva spesso che le ore trascorse lì erano fra le migliori che conoscesse.

    Nella sua solitudine, Karin parlò silenziosamente con le stelle, e fu come se tutto il suo corpo venisse attirato verso l’alto, verso l’esterno, lontano da lì e verso ciò che si trovava là fuori per lei. Raccontò che voleva poggiare i piedi nel pulviscolo lunare e guardare verso la terra come avevano fatto quelle persone tantissimo tempo prima. Gli astronauti… ecco un’altra parola difficile. E come sarà la Via Lattea vista dalla luna? Pensava che da grande avrebbe trovato un modo per scoprirlo. Forse avrebbe dovuto portare con sé la macchina fotografica per mostrare le immagini a papà, a mamma e alla sorellina. A loro sarebbero sicuramente piaciute. E poi cosa avrebbero detto del fatto che era andata fin sulla luna?

    Nella pancia sentiva i brividi alternarsi a un senso di vuoto, come quando andava sulla giostra d’estate. Karin inspirò attraverso il naso, e poi buttò fuori l’aria dalla bocca. Nel bel mezzo della sensazione di essere la bambina più sola sulla terra trovava posto, stranamente, anche un briciolo di felicità. Si sarebbe sistemato senz’altro tutto quando fosse diventata astronauta.

    «Karin?! Kaaarin, sei là fuori?».

    La voce la fece trasalire.

    «È quasi ora di andare a letto!».

    «Sono qua, mamma».

    «Devi dirmelo se vai fuori da sola quando è già così buio. Adesso rientra» chiamò la mamma dalla veranda.

    Karin si lasciò scivolare lentamente fino a una parte piana della roccia, saltò giù nel fango freddo del campo, e si avviò verso casa sollevando schizzi a ogni passo.

    Sulla porta la mamma l’abbracciò.

    «Mi preoccupo quando non mi dici qualcosa prima di uscire. Specialmente di sera. Lo capisci?». La mamma le baciò la testa.

    «Scusa. La prossima volta te lo dirò».

    Karin si girò e guardò in alto un’ultima volta. Assorbì quella miscela di malinconia, tranquillità e solletico, prima che la mamma chiudesse la porta alle loro spalle.

    CAPITOLO 1

    Agosto 2020

    Si scambiarono uno sguardo, si fecero un cenno, e cominciarono a correre giù per il ripido declivio, tenendo salda la presa sui tiranti dei parapendio. Dopo svariati giorni di diluvio, di venti troppo forti e di tutta quell’attesa dentro al cottage, il desiderio bruciava forte in corpo. Certo, era stato bello prendersela con calma con un libro e una tazza di caffè sul divano, ma non era quello il motivo per cui erano andati là, e anche la tranquillità, a un certo punto, poteva rivelarsi eccessiva.

    Karin si sentì finalmente sollevare da terra come aveva desiderato, e si sistemò subito in posizione sotto l’ala. Era raro che i sensi fossero così all’erta in un corpo stranamente rilassato come quando le spariva il terreno da sotto i piedi e il vento la trasportava, in modo silenzioso e sereno. Perdere la concentrazione avrebbe comportato dei rischi davvero grossi, e quindi occorreva trovare l’equilibrio perfetto fra rilassatezza e attenzione. Il suo amico Emil veleggiava un po’ più in là, con il suo parapendio di colore verde intenso, rivolto in quel momento in direzione opposta alla sua, verso la Norvegia.

    Anche quassù, i raggi del sole riscaldavano il viso, quando riuscivano a forare il manto di piccole nubi che sembravano dipinte a spruzzo in cielo. Lontano, giù in basso, si stendeva scintillante il lago Åresjön e, accanto a quello, la striscia verde sulla quale speravano di atterrare dopo un volo abbastanza prolungato. Al termine di tutta quell’attesa per poter salire in volo, speravano che quel momento sarebbe durato un’eternità. Chi sa aspettare, eccetera eccetera. Karin sorrise.

    Era parecchio tempo che al lavoro le cose si erano fatte frenetiche, ed era stato praticamente impossibile andare a Åre all’inizio dell’estate. Adesso era il momento di catturare e assorbire ogni istante perché, a giudicare dalla sua agenda, non c’erano buone prospettive per un’altra gita nel prossimo futuro. Emil aveva molta più libertà di programmare e aveva già prenotato un altro week-end di volo. Karin sapeva che le sarebbe bruciato quando fosse partito senza di lei. Ma adesso era lì, sopra montagne azzurrate, boschi, acque, e più vicina possibile al cielo e a tutto quello che c’era là fuori, almeno per il momento.

    Il volo si avviava a conclusione, e Karin guardò verso Emil, intento a divertirsi con le ultime spirali. Il volto le si aprì in un largo sorriso, e anche lei azionò con forza i tiranti con la mano sinistra per concedersi qualche piccola acrobazia aerea. L’ala le obbedì e lei si trovò subito in una spirale veloce. Non se ne stancava mai ma, come tutte le cose divertenti, anche questa finì troppo presto. Si raddrizzò e volò di nuovo con stabilità, valutando rapidamente fra i cinque e i dieci minuti il tempo di volo restante.

    Karin guardò verso il villaggio, che sembrava essere scivolato giù dalla montagna ed essersi raccolto come un serpentone di edifici schiacciato fra i piedi dei monti e il lago. Tutto quello che si poteva udire da quassù era il rumore attutito del traffico e di qualche cascata solitaria. Per il resto, solo silenzio e pace più che mai.

    All’improvviso sentì una sensazione di vuoto allo stomaco. Cos’era? Karin diede una rapida occhiata all’ala. Merda! Aveva perso tensione e si era increspata quando era venuta a contatto con una bolla di aria calda ascensionale. Purtroppo una delle estremità dell’ala si era ripiegata in dentro. Virata di peso. Aveva bisogno di una virata di peso per sistemare la punta dell’ala. Poi non sarebbe rimasto che sperare di non incappare in altre bolle d’aria calda prima dell’atterraggio. Karin diede uno strattone e cercò di fare funzionare i tiranti come aveva già fatto altre volte. Il cuore le tamburellava, ma riuscì a mantenere la calma e a concentrarsi sul problema. Così era la vita, anche se sul filo del rasoio.

    Non si rese conto di quanti secondi fossero passati, ma il sollievo fu enorme quando il flaccido sacchetto della spesa che aveva sopra la testa si trasformò di nuovo in una porzione d’ala tesa a dovere. Avere evitato di schiantarsi voleva dire che ci sarebbero state altre uscite in volo nel corso della giornata. Quando riuscì a riportare l’attenzione sul terreno valutò che ci fosse margine sufficiente per l’atterraggio, e un attimo dopo stava correndo in leggerezza lungo il lago, con l’erba del centro sportivo di Draklanda sotto gli scarponcini e, dietro di sé, un parapendio che si stava afflosciando. Una volta che si fu fermata e tutta l’attrezzatura fu a terra, la raggiunse Emil a grandi passi.

    «Cos’è successo? Sei finita in una termica?».

    «Proprio così».

    «Caspita, mi è saltato il cuore in gola».

    «Allora è una fortuna che nella termica ci sia finita io» disse Karin con un ghigno. «Ma in effetti non è stato piacevole».

    Emil scosse il capo.

    «Vuoi rilassarti un po’ per riprenderti?».

    Karin rispose di no e incominciò a raccogliere il parapendio per un altro giro.

    «Chiaro che no». Emil la cinse con un braccio e la strinse a sé, e poi incominciò a rimettere a posto la propria attrezzatura.

    «E adesso tiriamo fuori da questa giornata tutti i giri che possiamo» disse Karin. Gli occhi color verdeazzurro le scintillarono.

    Qualche ora dopo Emil si distese sul telo da bagno aperto sulla sabbia mista a ciottoli e chiuse gli occhi a ripararli dal sole serale. Karin gli sedeva accanto mentre strizzava via l’acqua dai capelli dopo aver fatto un bagno tonificante. Lo stomaco le brontolava sul serio, e non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che aveva mangiato. Se fosse esistita una pillola da sostituire al pasto, avrebbe senz’altro optato per una cosa del genere durante queste giornate intense, ma assolutamente meravigliose. Per mangiare bene c’era tempo tutto il resto dell’anno. Comunque fu molto felice di tirar fuori le baguette con verdura fresca e formaggio di capra che erano passati velocemente a comprare alla panetteria Grädda Bageri.

    «Il tuo panino lo vuoi ora o lo mangi dopo?».

    «Silenzio, sto dormendo».

    «Oh, scusami» disse lei sporgendosi su di lui e scuotendo la testa per fare piovere delle gocce d’acqua dai capelli sul suo torace.

    «Che cavolo!» disse Emil mettendosi a sedere, senza però riuscire a tenere lo sguardo serio a lungo.

    «No, ma, oh, ti sei bagnato? Scusa». Lei inarcò le sopracciglia e fece boccuccia.

    «Attenta a quel che fai» replicò Emil e si gettò addosso a Karin facendole il solletico fino a farla gridare.

    «Mi arrendo, mi arrendo!».

    Lui si risistemò a sedere sul telo, con un’aria sfacciatamente soddisfatta.

    «D’accordo, allora dammi il mio panino».

    Mangiarono e poi ripresero fiato, mentre guardavano le persone che nuotavano o sguazzavano nel lago.

    «Che giornata fantastica, eh?» osservò Emil passandosi una mano fra i riccioli biondi.

    «Meravigliosa. Hai dato un’occhiata alle previsioni di domani? Sembravano davvero buone quando ho controllato nel pomeriggio».

    Che il tempo atmosferico in montagna fosse capriccioso non era un’esagerazione, e Karin desiderava intensamente avere almeno un’altra giornata di volo prima di dover tornare a casa.

    «Guarda qua!». Le passò il cellulare. Il grafico e le cifre le allentarono i muscoli: da come stavano le cose ora, l’indomani avrebbe offerto delle condizioni meteo perfette.

    Si scambiarono un cinque e finirono di mangiare.

    «Facciamo un tuffo prima di ritornare allo chalet, o sei a posto così?» domandò Karin.

    «Ancora uno!».

    CAPITOLO 2

    «Stupendo, quindi siamo ancora in carreggiata. Ottimo lavoro da parte di tutti, fin qui. Ci risentiamo fra un paio di settimane. Continuate così» disse Oline in teleconferenza con il suo accento francese, per poi salutare con la mano.

    Tutti i partecipanti alla riunione salutarono in risposta, dopodiché Karin rimase a sedere nel suo ufficio, davanti allo schermo nero. Doveva lasciar sedimentare le informazioni e i pensieri dopo quella prolungata riunione di lavoro, prima di occuparsi del resto della giornata. Dopo un paio di anni alla Rigel Robotics di Uppsala percepiva ancora come una benedizione il poter essere ogni giorno uno dei piccoli ingranaggi che consentivano di progettare e realizzare tutto ciò che facevano. Inoltre era un sogno che la sua capa, Sara, l’avesse nominata rappresentante dell’azienda per le riunioni con l’agenzia spaziale europea, l’ESA, con l’equivalente russa, la Roscosmos, e con la NASA. Oltre alle istituzioni statali e a Karin, partecipavano alle riunioni del progetto anche un paio di aziende europee, più una statunitense.

    Non sapeva se la cosa avesse fondamento, ma a volte pensava che in azienda aleggiasse un po’ di invidia per il fatto che il ruolo di rappresentante era toccato a lei. Era la dipendente assunta più di recente, e la cosa sembrava bruciare per l’ego di alcuni colleghi. Ma quello era un loro problema… e di Sara, a volte. Karin svolgeva il suo lavoro, dannatamente bene, oltretutto, e non aveva nulla di cui vergognarsi. Per di più aveva la preparazione e l’esperienza giuste per accollarsi quella responsabilità. Il rientro in Svezia per iniziare un nuovo lavoro non l’aveva programmato con la finalità di farsi degli amici.

    In più, le riunioni di lavoro con Oline e il team erano interessanti e proficue, e davano a Karin quel respiro internazionale che le sarebbe altrimenti mancato. Dopo gli anni trascorsi a Boston e a Parigi immaginava che trasferirsi a Uppsala non le avrebbe fatto un grande effetto, anche se era piacevole tornare a vivere in Svezia. L’attrattiva maggiore era stata la vicinanza alla famiglia, e quando un paio d’anni prima era comparso quel posto da ingegnere robotico alla Rigel Robotics sembrava fatto apposta, ed era come un segno che dopo tutto non sarebbe stato male tornare a casa. Aveva lavorato come ingegnere robotico e spaziale in aziende private sia a Boston che a Parigi, quindi il passaggio alla ditta di Uppsala non era parso a nessuno come qualcosa di strano.

    Già al termine del suo secondo mese nel nuovo lavoro, un pomeriggio Sara aveva convocato una riunione straordinaria e aveva comunicato che era estremamente importante che vi partecipassero tutti. Giunti in sala riunioni uno dopo l’altro, chi con delle rughe di preoccupazione, chi con un atteggiamento più rilassato, i vari partecipanti adocchiarono subito le tre bottiglie di champagne e il gruppo di flûte al centro del tavolo. Quando furono tutti a sedere, con un silenzio tale che si sarebbe sentita volare una mosca, la capa cominciò a sorridere. Riferì che l’azienda aveva vinto un contratto per lo sviluppo dei componenti di un altro rover che sarebbe stato inviato su Marte. Tutti loro avrebbero avuto un ruolo nella prosecuzione della ricerca di forme di vita sul pianeta rosso. Sara e i colleghi di Karin avevano lavorato sodo per molto tempo per portare a casa un risultato del genere.

    Quella comunicazione diede ancora più senso al fatto che Karin si fosse trasferita, anche se non riusciva a smettere di fantasticare di un futuro ritorno negli USA, nel corso della carriera. Il suo sogno era il Jet Propulsion Laboratory, la ditta della NASA che fra l’altro aveva realizzato i meravigliosi rover per Marte che già percorrevano la superficie ricoperta di sabbia rossa del pianeta a decine di milioni di chilometri dalla terra.

    Si sentì pervadere dai brividi dalla punta dei capelli giù, giù fino alle punte dei piedi. Nonostante l’euforia, era come se le fossero entrati dei granelli di sabbia sotto le palpebre, e dopo aver battuto gli occhi alcune volte si alzò dalla sedia. Karin aveva bisogno di una boccata d’aria e di camminare per qualche minuto per riuscire ad affrontare il turno pomeridiano che l’attendeva. Non intendeva andare a casa prima di avere spuntato tutto ciò che aveva nell’elenco delle cose da fare, la cui lunghezza era ancora preoccupante. I pochi colleghi che, come Karin, avevano una delle giornate di lavoro in presenza quella settimana avevano probabilmente già fatto pausa, mentre lei era impegnata con la videoconferenza.

    Proprio in quel momento non aveva comunque voglia di socializzare in sala ristoro dopo tutto quel parlare e ascoltare. Nonostante le videoconferenze fossero una componente naturale della vita professionale nei progetti internazionali ai quali aveva lavorato, le faceva ancora un effetto strano incontrare in quel modo, un paio di volte la settimana, i colleghi più stretti della Rigel. Che fosse dall’ufficio o dalla cucina di casa. Come per la maggior parte delle cose della vita, c’era del buono e del meno buono nel non dovere incontrare tutti ogni giorno. Specialmente i più ciarlieri che interrompevano a tutte le ore per farsi aiutare o solo perché dovevano sfogarsi per via di qualche faccenda privata. Questi ultimi, a dire il vero, si erano diradati dopo il primo anno di Karin in azienda. In occasione del suo primo colloquio di valutazione, Sara l’aveva informata che alcuni colleghi avevano l’impressione che lei fosse poco collaborativa e che forse avrebbe dovuto impegnarsi a migliorare le sue competenze sociali.

    Lei si era complimentata con sé stessa per l’autocontrollo dimostrato nel corso del colloquio, che l’aveva aiutata a rispondere alla capa con calma e oggettività, affermando di aver preso nota della critica. Erano di sicuro quelle malelingue di Cassie e Robert, che non concepivano il bisogno di Karin di tenere la vita privata distinta dal lavoro. Quelli che non riuscivano a fare a meno di spiattellare tutte le questioni intime e private in pausa pranzo.

    Uscì dall’ufficio e dal corridoio silenzioso.

    L’aria aveva assunto quella caratteristica umidità che annunciava l’imminente fine dell’estate. La luce estiva era meravigliosa, ma anche le serate buie d’agosto avevano un’aria di magia. Le stelle apparivano prima, se ne vedevano di più, ed era arrivata la stagione per le gite in moto col telescopio al seguito. C’erano volte in cui Karin riusciva a portare Emil con sé, ma per lo più usciva con altri sognatori del circolo astronomico. E a volte andava completamente sola, cosa di cui Emil non era entusiasta, e che si rivelava il motivo principale per cui in effetti andava a farle compagnia.

    Un chiaro svantaggio della vita in città era l’inquinamento luminoso, che costringeva a percorrere delle distanze abbastanza considerevoli se si aveva in progetto di uscire a osservare dei fenomeni celesti di luminosità più debole. Le tornarono alla mente i bei ricordi dei tempi trascorsi a Kiruna e a Esrange, l’unico centro spaziale situato in Svezia, a poche decine di chilometri dalla città. Era là che aveva vissuto dopo i primi due anni all’Università Tecnica di Luleå, quando studiava per diventare ingegnere spaziale. La volta celeste sopra la città mineraria di Kiruna non era imbrattata dalle luci allo stesso modo di quanto avveniva a Luleå.

    E lassù l’aurora boreale era la forma più pura di magia. Anche se l’aveva già vista quand’era piccola in Hälsingland, lo spettacolo che offriva la Lapponia era di tutt’altro calibro. A volte le pareva di sentire un lieve crepitio provenire dalle onde verdi e blu che vedeva, mentre le cresceva il desiderio di sapere come sarebbe stato osservare quel fenomeno dall’alto, dallo spazio. Da astronauta. L’esperienza più ravvicinata che ne aveva avuto era stata grazie alle foto pubblicate sui social e sui siti dell’ESA e della NASA dagli astronauti della stazione spaziale internazionale, la ISS.

    Il bip del cellulare interruppe quel viaggio nella memoria e i sogni dell’aurora boreale. Non aveva nessuna voglia di essere disturbata durante la sua breve passeggiata per il Science Park, quindi aver portato il cellulare con sé era stato un errore. Comunque, quando vide che si trattava di un messaggio di papà, lo aprì per leggerne il testo.

    Ciao, come stai? Ti disturbo al lavoro, lo so, ma volevo sapere se hai visto anche tu che il lancio dell’equipaggio di SpaceX è stato rinviato. E chiederti quando vieni a trovarci. Non vedo l’ora di vederti e di farmi raccontare qualcosa del lavoro! Un abbraccio, papà

    Era passato un po’ di tempo da quando aveva parlato con lui e mamma, e le venne un nodo allo stomaco per il rimorso. Si era trasferita dagli Stati Uniti anche per poter vedere più spesso la famiglia, e poi finiva per non avere quasi mai il tempo e l’energia per andare a trovarli. L’ultima volta che loro due si erano parlati, papà le aveva detto che era in gran forma e che lavorava a pieno regime. E lei gli aveva creduto, perché con gli anni aveva imparato a sentire dall’energia della sua voce per telefono se quello che diceva era vero. A volte verificava comunque anche con la mamma, di nascosto.

    Ora che le chiedeva se sarebbe andata presto a trovarli, intendeva probabilmente nel giro di un paio di settimane, il che non era purtroppo possibile. Di sicuro, Emil l’avrebbe rimproverata perché non era abbastanza libera nei fine-settimana, visto quanto lavorava. Avrebbe provato a convincerla a fare un salto dai genitori per un week-end, così da cambiare aria per un po’. Ma non era così facile. Se lei ed Emil volevano forse, forse, fare un’ultima uscita in parapendio insieme durante quella stagione che si sarebbe conclusa nel giro di due mesi, occorreva darsi delle rigide priorità.

    Karin diteggiò la risposta prima di tornare in ufficio. La attendevano numerose tazze di caffè e svariate ore da trascorrere al computer.

    Ciao papà! Sto bene e, sì, ho letto la notizia. È più la regola che l’eccezione, specialmente adesso che SpaceX comincerà coi lanci con equipaggio. Stupendo, ma parliamone per telefono nel week-end o giù di lì, perché qui ho da fare fin sopra i capelli. Scadenze, scadenze, scadenze… sai com’è. 

    Un abbraccio, K

    CAPITOLO 3

    I capelli le gocciolavano e lei tremava mentre si malediceva per non aver preso il bus quando si erano aperte le cateratte del cielo. Si era bagnata dall’inizio alla fine di quel giro in bicicletta e l’acqua le era arrivata fino alle mutande e al reggiseno.

    «Ehilà!» salutò Emil dalla cucina.

    «Ciao!».

    Lui sporse la testa in corridoio con un’aria preoccupata.

    «Perché ti ostini a usare la bicicletta con questo tempo di merda?».

    «Perché è bello. Il più delle volte».

    «Infatti hai un’aria davvero soddisfatta. Comunque, la cena è presto in tavola». Emil fece una risata rientrando in cucina.

    Karin si spogliò di quasi tutto nell’ingressino, andò ad appendere i vestiti sopra la vasca da bagno per farli asciugare e si strofinò i capelli con un telo. Andò velocemente in camera per mettersi la tuta di felpa color vinaccia.

    «Cosa c’è da mangiare?» chiese, sedendosi alla tavola apparecchiata.

    «Stasera sono stato abbastanza pigro, quindi c’è dello stufato di lenticchie».

    «Pigro? Quando si è pigri ci si fa un panino. Questo ha un profumo fantastico».

    «Grazie, e serviti pure». Collocò la pentola di ghisa sulla tavola, e quando scodellò la pietanza fumante le venne un’acquolina tale da far bruciare le guance. Nonostante la passione per il cibo, Karin era purtroppo senza speranza in cucina, ed era quindi semplicemente fantastico poter convivere con una persona che, oltre ad amare il cibo, se la cavava anche nell’arte culinaria. Anche vini e deliziosi formaggi erano in cima alla lista dei piaceri della

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