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Il killer del Cremlino
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Il killer del Cremlino
E-book411 pagine5 ore

Il killer del Cremlino

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Info su questo ebook

«Un attacco senza precedenti al presidente russo.»
The Times

«Le parole hanno potere, e Putin ha paura della verità.»
Aleksej Navalny

Un’inchiesta esplosiva con documenti inediti e testimonianze di prima mano

Nella Russia di Vladimir Putin, la verità si paga con la vita. Ma per il giornalista John Sweeney raccontarla è una missione. Questo libro inchiesta porta alla luce tutti i terribili retroscena passati e presenti della spia che divenne zar, l’uomo che da più di vent’anni controlla il Cremlino. Inseguendo la scia di feroci vendette e morti misteriose dei suoi nemici, le atrocità della guerra in Cecenia e la brutale invasione dell’Ucraina, si arriva infine al cuore più profondo, spietato e impenetrabile del potere russo, al cui centro non siede uno statista, ma uno spietato assassino. Un ritratto fedele e senza filtri, che ci aiuta a riflettere sui possibili scenari futuri e rivela il lato più spaventoso e nascosto di un tiranno disposto a tutto per realizzare il suo obiettivo imperialista.

Il racconto della tirannia di Putin dalle origini a oggi. Il passato da spia, la guerra in Ucraina, la lunga scia di morte dei suoi nemici.

«Un ritratto lucido di Putin e della sua storia.»

«Un libro da leggere assolutamente. Una scrittura che guarda ai fatti e alla verità. Lo consiglierò a chiunque.»

«Wow, non riuscivo a smettere di leggere. Che libro fantastico!»
John Sweeney
È nato nel 1958 ed è un pluripremiato giornalista investigativo. Già reporter di guerra per l’«Observer», attualmente è autore di documentari e servizi per la trasmissione Panorama della BBC. Ha pubblicato diversi volumi di inchiesta per i quali ha ricevuto svariati riconoscimenti, tra cui un Emmy Award e l’Amnesty International Prize nel 2001 per il suo reportage sulla violazione dei diritti umani in Cecenia.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2024
ISBN9788822787392
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    Anteprima del libro

    Il killer del Cremlino - John Sweeney

    Capitolo 1

    La macchina della morte

    Un idiota sta spostando dei mobili pesanti nell’appartamento di sopra e mi sveglio di soprassalto. Sto per chiamare il Comune di Lambeth per chiedere di risolvere il problema, quando mi ricordo che sono a Kiev, che sono le 4 del mattino e che non sono tavoli e sedie a fare quel fracasso, ma l’artiglieria russa.

    L’idiota in questione è Vladimir Putin e la sua guerra idiota ha due giorni di vita.

    Grugnisco, mi addormento di nuovo, poi mi alzo ed esco, provo a comprare un rotolo di carta igienica, fallisco. Davanti a me, nel negozio, ci sono un anziano signore e una casalinga. Lui compra dieci pacchetti delle stesse sigarette e nient’altro, il suo unico vizio esposto volgarmente al mondo. Lei prende tutte le salsicce del negozio, un acquisto ansiogeno e un po’ comico. Buffo, ma non divertente.

    La passeggiata dal mio Airbnb vicino allo stadio olimpico al centro della città dura mezz’ora. Khreshchatyk, la grande strada della capitale ucraina, ha il sapore di una rivisitazione in chiave neo-stalinista della Georgian Crescent di Bath, con l’aggiunta di shot di vodka. È così larga che potrebbero percorrerla tre carri armati l’uno accanto all’altro. Questo è il piano di Putin. A metà strada inizio ad armeggiare con la fotocamera del mio telefono, quando un tizio dall’aspetto duro e dall’autentico accento britannico mi fa notare che sto passando davanti al municipio e che non è un buon posto dove stare oggi. Spiego al mio compaesano che i russi non hanno intenzione di colpire il municipio oggi – se lo riservano per dopo – e proseguo prontamente. Quando arrivo all’edificio delle Poste, un muro di suono si innalza davanti a me come un’onda mostruosa nel mare. È la sirena antiaerea, che sta strillando alla grande, avvertendo dell’arrivo dell’artiglieria o dei missili russi. Il rumore è osceno.

    La chiamano la ninnananna di Putin.

    Registro un piccolo pezzo con la fotocamera del telefono e lo twitto mentre le sirene urlano: Sono preoccupato per lo yacht di Roman Abramovich. Spero che stia bene.

    Qualcuno su Twitter risponde: Affonda lo yacht.

    Attraverso piazza Maidan e raggiungo l’appartamento in affitto del mio amico Oz Katerji, un reporter britannico-libanese che ha la metà dei miei anni. Oz mi offre una tazza di Earl Grey. Sorseggiamo il nostro tè come i lord inglesi che potremmo essere in un universo parallelo e attraverso la finestra sentiamo un grande boato di artiglieria. Non è vicino, ma non è comunque mai un buon suono.

    Boato. Vladimir Putin mi riporta al mio esame di Inglese del 1976 e alla grande poesia di Wilfred Owen, Inno per la gioventù condannata: Solo la mostruosa rabbia dei cannoni....

    Oz e io siamo freelance e speriamo di guadagnarci da vivere facendo interviste a due voci con le stazioni radio bbc di Irlanda del Nord e Scozia, lbc e rte a Dublino. Ogni intervista non fa guadagnare molto, ma permette di comprarsi un kebab o due.

    Ci aggiriamo per un po’ cercando, senza riuscirci, di trovare un taxi o qualcuno che ci accompagni verso la guerra. Non c’è niente da fare. Chiunque abbia un veicolo sta portando i propri cari alla stazione ferroviaria, per farli allontanare. Noi prendiamo la metropolitana. Si vede l’ansia disegnata sui volti delle persone, una mamma che schiaffeggia il figlio che non ha fatto nulla di male, una signora anziana confusa mentre la figlia abbaia al telefono, uomini duri in uniforme da combattimento che entrano ed escono dai vagoni della metro come se ci fosse una guerra in corso. Che, ovviamente, c’è.

    Usciamo alla fermata Arsenal, la stazione della metropolitana più profonda del mondo. È costruita sul fianco del ripiano terrazzato che rende Kiev una cittadella naturale, dove la civiltà Rus’ è stata fondata mille anni fa. Mosca era, è e sarà sempre la filiale. Usciti dalla carrozza, veniamo investiti da una marea di miseria umana. Sembra di camminare lungo una banchina della metropolitana durante il Blitz di Londra del 1940. A nascondersi dalle bombe russe nel febbraio 2022 ci sono una coppia di anziani che dormono; una vecchia, circondata da borse della spesa piene di roba, con i muscoli del viso che si contraggono in modo incontrollabile; due dolci bambini assorbiti da un film sul loro telefono, un cane intontito ai loro piedi.

    Che tu sia maledetto, Vladimir Putin.

    Usciamo con la scala mobile e ci avviamo a piedi verso la riva occidentale del fiume Dnipro, dirigendoci verso nord. Si dice che l’esercito russo sia più avanti. Devo fermarmi a parlare con Jeremy Vine per il suo programma della bbc Radio Two – è un inglese conservatore della classe media, ma è un divulgatore essenziale per la gente comune – e Oz prosegue. È l’ultima volta che lo vedrò, oggi. Mentre cammino, mi riprendo e in lontananza catturo un paio di soldati ucraini che girano intorno all’Arco di trionfo dell’amicizia tra i popoli russo e ucraino. Nessuna ironia qui, gente. Un soldato mi grida di smettere di filmare. Metto giù la telecamera, cammino per un altro centinaio di metri e inizio a riprendere ancora.

    Stupido, Sweeney, stupido.

    Un giovane ucraino con un fucile comincia a gridarmi contro in russo. Kiev è una città in cui la maggior parte della popolazione parla russo. Non è vestito con una mimetica completa, ma indossa dei semplici pantaloni verdi. Altri ragazzi agitano i fucili nella mia direzione.

    Mr. Pantaloni Verdi vuole il mio telefono, per vedere i video che ho girato.

    Sembro una spia russa? Indosso un berretto arancione, un montgomery color cammello come quello indossato per la prima volta da Trevor Howard nel ruolo del maggiore Calloway ne Il terzo uomo, e una giacca di velluto a coste marrone con toppe sui gomiti. Sembro un insegnante di geografia disoccupato di Dorking.

    Chiede il mio telefono.

    È assurdo. «Sembro una spia russa?», gli urlo contro..

    Le armi non sono più rivolte genericamente nella mia direzione. Sono puntate su di me.

    Consegno il telefono, il passaporto e la tessera stampa nuj e, obbligandomi a tenere le mani in alto, mi accompagnano alla loro base. Una porta d’acciaio si chiude dietro di me. Nessuno mi ha visto entrare, nessuno ha visto il mio arresto. Sono nei guai.

    Siamo in una stazione di pompaggio che rifornisce di acqua dolce metà Kiev. C’è odore di ferraglia vecchia, oliata a dovere.

    Qualcuno fa una telefonata all’intelligence ucraina, la sbu, la Sluzhba Bezpeky Ukrayiny. Continuo a dire: «Guardate il mio banner di Twitter».

    Pantaloni Verdi fa un fischio per richiamare il comandante e il suo secondo in comando, quelli veri, completamente vestiti con l’uniforme dell’esercito ucraino. Il capo è un uomo grande, persino più grande di me, che non sono un petit four. Il vice è più piccolo, ma sveglio. Mi guarda con ironia divertita. Sospetto che sappia che non sono una minaccia. I due uomini mi ricordano il capitano Mainwaring e il sergente Wilson di Dad’s Army. Ma il capo mi guarda male e dice: «Russkiy shpion». Ho studiato il russo a scuola e l’ho quasi del tutto dimenticato, eppure riesco a capire che mi sta dando della spia russa. A questo punto, mi siedo e inizio a ridere in modo incontrollato.

    La spia russa non sembra abbastanza spaventata. L’umore cambia. Pantaloni Verdi mi cerca su Google e, finalmente, vede la foto sul mio banner di Twitter che mi ritrae mentre sfido Putin faccia a faccia. Nel luglio 2014, un missile russo buk sparato dall’Ucraina orientale filo-Cremlino ha ucciso tutti i passeggeri del volo mh17 della Malaysia Airlines. Ho avuto modo di incontrare il presidente della Russia in Siberia e di chiedergli conto delle uccisioni in Ucraina.

    Pantaloni Verdi trova la foto in cui Donald Trump è in piedi davanti a me, cercando di stringermi la mano per segnalare la fine della nostra intervista del 2013, ma io rimango seduto, con il palmo della mano alzato. La mia domanda era: «Signor Trump, perché ha comprato il suo cemento da Fat Tony Salerno?».

    Dei due nella foto, uno potrebbe essere una spia russa, ma non sono io.

    Appare un’anziana nonna con una tazza di tè per il prigioniero. Pantaloni Verdi diventa il mio sostenitore. Si presenta come Vlad Demchenko, un amabile e brillante regista che mi racconta di avere realizzato un documentario sulla battaglia per l’aeroporto di Donetsk nel 2014. In una precedente esistenza, prima della guerra, viaggiava. «Come fai tu». Il suo inglese è abbastanza buono e andiamo d’accordo, ma la chiamata all’sbu è stata fatta e quindi sono bloccato nella burocrazia militare, obbligato a dimostrare la mia innocenza per la peggiore accusa possibile. È come combattere un’accusa di tradimento, in una lingua straniera, con persone armate. Saliamo su un grande pick-up marrone, il comandante al volante, il suo vice al posto del passeggero e Vlad e io dietro. In tutta la città sono istituiti posti di blocco, i soldati corrono avanti e indietro imbracciando le armi, le sirene suonano continuamente. Le esplosioni si stanno avvicinando. Parcheggiamo in una strada laterale accanto al quartier generale dell’sbu e ci fermiamo in attesa. E attendiamo. E attendiamo.

    Vlad mi sussurra: «Credo che stiano diventando un po’ paranoici».

    Benvenuto nel mio mondo, dico tra me e me.

    Mi sembra che la sede dell’intelligence ucraina sia il secondo miglior bersaglio dei missili da crociera russi in città, dopo la Presidenza.

    Alla fine, la tenda di una finestra si apre e viene detto qualcosa.

    Tre soldati ucraini appaiono e mi prendono in custodia. Saluto il comandante, il vice e Vlad, e ci incamminiamo lungo la strada, intorno al quartier generale dell’sbu e poi lungo una strada più grande fino all’ingresso principale.

    E poi aspettiamo. C’è un pesante tornello con un controllo elettronico. Ma nessuno può muoversi finché il soldato capo non fa una telefonata. E non riesce a passare. Mi rendo conto che ci sono diverse mitragliatrici puntate nella nostra direzione.

    Alla fine, l’interlocutore risponde e io ottengo il permesso di passare attraverso il tornello nell’atrio. Ci sono sacchi di sabbia ovunque e soldati con fucili automatici, gli occhi rossi, come se non avessero dormito bene per una settimana, il che vale per la maggior parte delle persone in Ucraina. Un uomo alto e austero prende il mio passaporto e la tessera stampa da un soldato e mi conduce su per le scale, superando soldati mezzi morti di sonno seduti sui gradini come un quadro preraffaellita di una scena de La morte di Artù di Tennyson.

    Il tipo austero mi porta nel suo ufficio, le cui finestre sono attraversate da uno spesso nastro giallo per ridurre le schegge di vetro nel caso in cui la sbu fosse bombardata. Se venisse colpita da un missile da crociera, saremmo tutti fritti. Ci sono altri tre o quattro soldati, seduti sulle sedie dell’ufficio, esausti. Studia il mio passaporto e la tessera stampa; poi esamina le immagini sul mio telefono. Sono a Kiev dal 14 febbraio. Il giorno di San Valentino.

    «Questi video di soldati ucraini. Devono essere cancellati».

    Lo faccio e mi scuso per avergli fatto perdere tempo. Poi aggiungo: «Ma non sono una spia russa».

    «Sei libero di andare. Non filmare più l’esercito ucraino».

    Ricevuto.

    Fuori dall’sbu, si sta facendo buio. Cammino rapidamente e vedo il pick-up che mi ha portato qui, parcheggiato sul ciglio della strada, con una sola persona all’interno, il comandante al volante, impegnato in una conversazione al telefono. Batto sul finestrino e sollevo il pollice, per fargli capire che sono stato liberato. Lui alza lo sguardo, mi guarda male e io mi affretto a proseguire.

    Più di un mese dopo, Vlad mi scrive: Non te l’ho detto prima, ma delle persone che erano nell’auto che ti ha portato all’sbu il giorno in cui ti ho arrestato, solo tu e io siamo ancora vivi, John. Gli altri due sono scomparsi dopo un’operazione qui in prima linea.

    Vlad va poi alla ricerca del comandante e del vice, in modo che possano essere sepolti. Mi manda un messaggio di aggiornamento: Non abbiamo trovato i loro corpi. Quindi sono stati catturati vivi o sono stati seppelliti in un luogo sconosciuto. Non so quale sia l’opzione migliore.

    E mi invia una foto del pick-up bruciato, uno scheletro di metallo carbonizzato abbandonato in un bosco da qualche parte nelle Badlands, a nord di Kiev.

    Tornato nel mio appartamento, registro un video su Twitter per raccontare alle persone la mia giornata difficile, bevendo a rapidi sorsi del gin con tonica scadente mentre parlo dell’arresto e poi della liberazione. Concludo sottolineando che l’elettricità e internet sono ancora attivi, e questo mi fa pensare che l’uomo in grave difficoltà non sia il presidente Zelensky e nemmeno io, ma Vladimir Putin.

    Quel filmato su Twitter ottiene un milione di visualizzazioni.

    I giorni si confondono. Chou-Chou il clown è bravo, più di quanto ci si possa aspettare, visto che il suo pubblico è composto da una ventina di bambini e dalle loro mamme e papà che non possono mai allontanarsi dalla loro attuale casa. Si tratta del seminterrato dell’unità di dialisi dell’ospedale pediatrico di Kiev. Se lasciano i macchinari medici, rischiano di morire. Se restano, grazie alla guerra di Vladimir Putin, rischiano di morire.

    Chou-Chou, che significa Pazza-pazza, è una giovane donna con il classico naso rosso da clown, le trecce, una camicetta e una gonna ridicola. Il suo vero nome è Anastasia Kalyuha e, ovviamente, anche lei è una rifugiata proveniente da Donetsk, invasa da Putin nel 2014. Una ragazzina, di dodici o tredici anni, è seduta su una barella, con il viso, come tutti gli altri bambini nel seminterrato, di un colore giallo acido a causa dei problemi renali. Ma è abbastanza vicina all’adolescenza da sapere che i clown sono per i bambini più piccoli e che i loro spettacoli sono sciocchi. Dico a Chou-Chou e alla bambina che sono di Londra. Chou-Chou mi offre un panino, la colazione e il tè in inglese.

    La ragazza sulla barella inizia a sorridere.

    «Come ti chiami?», le chiedo.

    «Elon», risponde lei o qualcosa del genere.

    «Elon Musk», salta su Chou-Chou e a questo punto, all’idea che il signor Tesla possa essere qui, sia io sia la ragazza dalla faccia gialla scoppiamo in una risata nasale. Chou-Chou è davvero sul pezzo.

    Mi giro verso di lei e le dico, riflettendoci un po’ troppo paternalisticamente come John Cleese a Manuel in Fawlty Towers: «In realtà sei piuttosto brava». Chou-Chou è, infatti, davvero sorprendente.

    Sulla barella successiva si trova Angelica, di quattordici anni, che chiacchiera con me nel suo eccellente inglese da scolaretta, mentre due infermiere le riempiono le vene di medicine; una macchina lì vicina emette un segnale acustico; i bambini ridono. Dico ad Angelica che, quando uscirà da questa situazione, verrà a Londra, conoscerà mia nipote e andremo a vedere dove vive la regina. Lei solleva il pollice. Coraggio sotto il fuoco, grazia sotto la pressione: è l’atteggiamento ucraino e dietro la mia maschera sono profondamente commosso.

    Chou-Chou mi è passata davanti e sta facendo un numero che coinvolge un telefono e che sta facendo impazzire di risate un ragazzino con la faccia gialla. I suoi compagni, ragazze e ragazzi con la faccia gialla, ridacchiano e anche una mamma, seduta su una barella, sorride e saluta la fotocamera del mio telefono.

    Sono un reporter di guerra di sessantatré anni. Ho seguito guerre in Ruanda, in Burundi, nel Sudafrica dell’apartheid, nella rivoluzione rumena, nell’ex Jugoslavia, in Iraq, in Siria, in Albania, in Cecenia, in Afghanistan e in Zimbabwe. Ho visto neonati con arti mozzati e un anziano con gli occhi spappolati da un proiettile d’artiglieria, persone con i polmoni rivoltati all’esterno e un uomo con il cervello fatto a pezzi con un machete, e non c’è niente di peggio che guardare i bambini sorridere in guerra, osservare la nobiltà dell’animo umano. Mi fa piangere, e piango davvero.

    Torno al mio appartamento in affitto nel centro di Kiev, inizio a scorrere TikTok e Twitter e vedo un video di tre contadini ucraini che trainano un cannone russo abbandonato con la loro moto. Mi ritrovo a ridere istericamente di questi ragazzi, i migliori guerrieri del mondo.

    Sono abbastanza in gamba da impedire alla macchina militare di Putin di uccidere i bambini in dialisi nel seminterrato? Non conosco la risposta, ma so una cosa ed è ciò che mi fa vincere la mia paura del tutto razionale, che mi fa restare fino a quando il mio coraggio non si esaurisce, che mi fa continuare a raccontare da Kiev.

    I combattenti ucraini possono fermare Putin? Non lo so. Ma, ragazzi, ci stanno provando. E vedendo questo e conoscendo le vite innocenti che stanno cercando di difendere, ritengo che anche loro facciano parte di quella parte di umanità dotata di nobiltà d’animo che Vladimir Putin vuole distruggere.

    Per il momento, il male sta facendo bene.

    La mattina successiva faccio l’autostop per andare alla torre televisiva – sono un freelance, del resto – e un altro tizio di nome Vlad mi viene a prendere con la sua piccola e ansante Skoda rossa. Lo nomino subito mio autista. Superiamo i posti di blocco, nessun pezzo grosso ci ferma mentre i cuscinetti a sfera difettosi di una ruota ululano di dolore, e arrivo al complesso della torre televisiva prima di qualsiasi altro reporter. Un combattente di nome Rost, minaccioso con la sua felpa con cappuccio e la pistola, mi mostra la torre e l’edificio di controllo del trasmettitore bombardati e un enorme buco nella muratura causato da un colpo diretto. Lì vicino, a macchiare una leggera spolverata di neve, c’è una pozza di sangue rosso vivo, dove uno dei lavoratori è stato ucciso.

    «Fanculo Putin», dice Rost.

    «Fanculo Putin», ribatto.

    «Che cosa facevi prima della guerra?», gli chiedo.

    «Ero un pilota di mongolfiere», risponde Rost, ed entrambi scoppiamo a ridere per l’assurdità della situazione in cui ci troviamo.

    Nelle vicinanze, un missile da crociera russo è andato sotto tiro, squarciando alcuni alberi presso il memoriale di Babij Jar, un monumento in ricordo del peggiore omicidio di massa dell’Olocausto, in cui quasi 34.000 ebrei di Kiev furono giustiziati dai nazisti e dai collaborazionisti ucraini. Putin sostiene che il governo dell’Ucraina è neonazista. Il presidente è ebreo; i russi hanno attaccato Babij Jar. A scanso di equivoci, non sono gli ucraini a comportarsi come i nazisti in questa guerra.

    Rost mi conduce all’esterno del complesso e dall’altra parte della strada, dove uno dei missili ha superato il bersaglio e ha colpito una fila di negozi, il fumo che ancora si alza dagli incendi all’interno. I corpi giacciono a terra. Gli uomini dell’obitorio arrivano e prendono delle coperte da un furgone verde scuro. Le stendono sui morti: un uomo anziano, una madre e il suo bambino. Quando il Cremlino dice di non prendere di mira i civili, mente. Lo so. Ho visto con i miei occhi le vittime civili della guerra russa. E lo scrivo su Twitter.

    Forse è per questo che nel cuore della notte ricevo un rapporto da Microsoft che dice che sono stato hackerato e che l’hacker ha sede vicino al Cremlino o al Cremlino. Non è esattamente chiaro cosa sia successo, è anche possibile (e sarebbe meglio) che si tratti di un tentativo di phishing fallito. Ma so che il solo fatto di essere qui, di fare video per Twitter e di scrivere articoli per qualsiasi testata giornalistica li pubblichi, mi rende un bersaglio del Cremlino.

    L’esercito russo non seppellisce i suoi morti. Questo è causa di un abbassamento del morale.

    Il morale basso deriva dalla seconda grande ragione del fallimento: l’alto comando russo non si preoccupa minimamente del suo popolo. Si preoccupa solo del denaro. È corrotto.

    Passiamo al cibo per cani. I soldati russi mangiano le razioni più nutrienti di qualsiasi altro esercito, purché si tratti di cibo per cani. Si può avere un’idea di ciò che sta andando storto nel territorio dell’Ucraina da una storia che Reuters ha pubblicato una decina di anni fa. L’agenzia di stampa riportava le parole dell’ex maggiore Igor Matveyev: «È imbarazzante dirlo, ma i soldati qui venivano nutriti con cibo per cani. Veniva somministrato loro come stufato». Le scatole di cibo per cani erano coperte con etichette che recitavano Manzo di qualità superiore».

    Gli ucraini hanno trovato veicoli dell’esercito russo abbandonati con razioni alimentari che riportavano date di scadenza di sette anni prima. Ciò che è così magnificamente divertente in questa truffa è che il responsabile è uno dei compari preferiti del Cremlino, Yevgeny Prigozhin, conosciuto come lo chef di Putin. In contatto con l’intelligence militare russa, il gru, Prigozhin, ex detenuto ai tempi dell’Unione Sovietica, è sospettato di finanziare le troll farm e l’unità di mercenari assassini, il Gruppo Wagner, che prende il nome del compositore preferito di Hitler. Il suo impero ha assunto il novanta per cento del business della fornitura di cibo all’esercito russo. Gli ucraini hanno pubblicato diversi video di soldati russi affamati che cercano cibo. E questo è merito di Prigozhin e del suo capo.

    Il brillante osservatore della Russia Christo Grozev lavora per Bellingcat, il sito di giornalismo investigativo specializzato nell’intelligence open-source. Ha twittato: Mentre i soldati russi muoiono di fame e irrompono nelle case degli ucraini per chiedere il pane, le razioni di cibo militare ‘non in vendita’ di Prigozhin hanno invaso i siti russi simili a eBay a tre dollari a lattina.

    La corruzione sta uccidendo la macchina da guerra della Russia.

    E poi c’è una cattiva leadership. Vladimir Putin ha lanciato una guerra senza intelligenza. Non ha guardato dall’altra parte del muro e non ha chiesto a qualcuno cosa ci fosse. O, se lo ha fatto, quella persona ha avuto paura di dirgli la verità, e cioè che l’Ucraina avrebbe combattuto. La cattiva leadership è il fulcro del classico di Norman F. Dixon, On the Psychology of Military Incompetence. Putin è un incompetente militare, senza dubbio. Questo perché è una personalità autoritaria debole, perché ha paura della propria morte – da qui il lungo tavolo per le trattative con il presidente Macron e con gli alti funzionari russi – e perché è estremamente paranoico.

    La paranoia sta distruggendo l’esercito russo dall’interno. Vladimir Putin è prigioniero nel suo castello, proprio come Stalin. Il terrore di rivelare le sue mosse troppo presto, e di farle trapelare agli americani, era così grande che ha tenuto nascosto all’esercito i suoi veri piani di invasione fino al giorno prima dell’invasione stessa. Così lo stato maggiore russo ha dovuto inventarsi la guerra a mano a mano che la faceva, e il risultato è stato disastroso. I generali sono stati nominati in base alla loro fedeltà al Cremlino, non al loro coraggio né alla loro competenza. Il servilismo va bene quando un esercito non sta combattendo contro un avversario difficile. Ma il generale Uriah Heep non è un granché contro l’esercito ucraino.

    Irina Borogan e Andrei Soldatov, due dei migliori osservatori dello psicodramma russo, suggeriscono che la paranoia di Putin sta corrodendo la fiducia all’interno del Sancta Sanctorum, lo Stato segreto russo (l’fsb, ex kgb). Riferiscono che il capo del servizio di intelligence estera dell’fsb e il suo vice sono «detenuti in seguito alle accuse di avere abusato di fondi operativi destinati ad attività sovversive e di avere fornito un’intelligence scadente in vista dell’invasione della Russia, ora in fase di stallo».

    Tutte e tre le cose sono riconducibili al capo. Il morale è basso perché Putin non si preoccupa del suo popolo e dei suoi soldati; la corruzione è diffusa nel suo esercito perché, come mi ha detto una volta Alexei Navalny, «è lo zar della corruzione»; vivere in paranoia è ciò che fanno le ex spie del kgb, invece di giocare a golf. La sua guerra non sta andando bene e c’è solo una persona da incolpare. Non c’è da stupirsi se a Mosca si dice che i capi dell’fsb stanno vendendo le loro dacie in Crimea.

    A qualche chilometro di distanza dal sacrario sul ciglio della strada dedicato agli ucraini uccisi nel Grande Terrore di Stalin del 1937 – tetre croci di metallo, una lastra di granito, betulle che scivolano in un passato oscuro – si trova l’ultimo posto di blocco dell’esercito ucraino.

    L’ultimo, almeno per noi.

    Siamo a metà marzo. Mentre ci avviciniamo, ci viene ordinato di tornare indietro verso Brovary. Al di là del posto di blocco, una settimana prima, i carri armati russi che si accalcavano verso Kiev sono stati fatti saltare in aria dai difensori. Il luogo dell’imboscata dei carri armati si trova più avanti, tuttavia un soldato ucraino ci ordina deciso: «Tornate indietro».

    A rafforzare la sua argomentazione, si sente il forte boato di un’esplosione, in uscita, proveniente dalla foresta alla nostra destra. Non è vicino, ma non è così lontano. Si impara a distinguere la differenza tra uscita ed entrata. In uscita, c’è un solo botto e la pressione dell’aria non cambia. In entrata, i colpi possono essere due e si sentono attraverso gli stivali.

    Saliamo in macchina, torniamo un po’ indietro, ci fermiamo in una piazzola di sosta per picnic, ascoltiamo altri boati, vediamo il fumo nero che si staglia pigramente contro il freddo cielo blu. Di tanto in tanto un’ambulanza urla lungo l’autostrada a quattro corsie, diretta a Kiev.

    Una coppia cammina verso di noi, verso la guerra, e facciamo una breve chiacchierata. Vanya e Natasha sono di mezza età, composti, determinati. Prima della guerra, lui commerciava in frutti di mare, lei coltivava cetrioli e insalata.

    «Prenderò un panino al salmone affumicato con cetriolo», azzardo.

    Un altro boato dal bosco alla nostra destra.

    «Mi dispiace, non è disponibile al momento», risponde lei.

    Il senso dell’umorismo ucraino è una meraviglia. Natasha è ancora seria.

    «Vi farò una recensione negativa», dico.

    Allora anche lei ride e, per un momento, la guerra viene dimenticata mentre ci godiamo la nostra battuta, ci godiamo la vita. Sto lavorando con Vlad, l’autista che mi ha raccolto quando ho fatto l’autostop per raggiungere l’attacco missilistico alla torre televisiva di Kiev nei primi giorni della guerra, e con Eugene, il peggior traduttore del mondo. Questo, ovviamente, è del tutto falso. Eugene è una star. A partecipare alle risate c’è anche Emile Ghessen, un regista londinese che, in un’altra vita, era un sergente dei Royal Marines. Iraq, Afghanistan.

    Dove stanno andando Vanya e Natasha? «A casa, nel villaggio più vicino, a un chilometro e mezzo di distanza».

    «È in mano ai russi?»

    «No, nelle nostre».

    «E il villaggio successivo è sotto il controllo russo o ucraino?»

    «Nessuno ne è sicuro».

    I russi sono vicini, forse a dieci miglia di distanza, forse meno.

    Torniamo indietro ancora un po’ e ci fermiamo in una stazione di servizio per un caffè sul lato est di Brovary.

    Denis, un tassista tarchiato, sta aiutando una coppia a spostare le proprie cose dalla loro auto danneggiata dalla guerra nel suo veicolo. La parte anteriore dell’auto è stata quasi completamente distrutta e come sia riuscita ad arrivare alla stazione di servizio è uno dei miracoli della guerra. L’uomo ha la faccia torva e silenziosa; la donna è disperata e piange. Squilla un cellulare e lei inizia una lunga conversazione telefonica, durante la quale Denis tira una boccata di sigaretta e parla con noi. (Non ho chiesto il suo cognome. Se l’esercito russo è a portata d’orecchio, è maleducazione importunare le persone con questo genere di domande).

    Ho sentito rapporti secondo i quali l’esercito russo non solo era in stallo, ma che qui, nell’artiglio orientale del suo attacco a tenaglia su Kiev, stava retrocedendo.

    «I russi si sono mossi?»

    «No», dice Denis. «Rimangono nello stesso posto, non si muovono né in avanti né indietro».

    «Come stanno?»

    «Gli abitanti del villaggio dicono che implorano per avere del cibo. Sono così affamati che vengono da loro e chiedono qualcosa da mangiare. Gli abitanti del villaggio sostengono che non sono aggressivi. I loro comandanti vogliono che combattano, che siano duri, ma loro sono troppo occupati a chiedere qualche briciola da mettere nello stomaco».

    C’è sempre un bar. A Kiev, nel marzo del 2022, è il Buena Vista Social Club, accanto a un posto di blocco della polizia ucraina, il che è sia divertente sia strano, perché c’è un divieto di vendita di alcolici a livello nazionale. Ssh. È un allegro shebeen a tema cubano, gestito da Maks, e non si sa mai cosa si può bere e chi ci sarà. Tutte le donne hanno un passato; tutti gli uomini non hanno un futuro. Questa è l’atmosfera che si percepisce.

    All’inizio della guerra, un cliente abituale era un uomo grande e grosso, con folti baffi e una criniera di capelli ricci e indomabili, spesso accompagnato dal suo braccio destro, una freelance ucraina. Non gli ho mai parlato, ma lo avevo inquadrato come una persona di presenza, un personaggio interessante, che probabilmente avevo visto a Sarajevo o in un posto simile. In effetti, lui era un cameraman leggendario, Pierre Zak Zakrzewski, e lei era Oleksandra Sasha Kuvshynova. Entrambi sono stati uccisi il 14 marzo 2022 quando il loro veicolo è stato colpito a Bucha, a venti miglia a nord-ovest di Kiev. Il giornalista britannico Ben Hall è stato ferito nello stesso attacco. Lavoravano per «Fox News», scelta verso la quale Zak, cinquantacinque anni, cresciuto in Irlanda, aveva sentimenti contrastanti. Ma conosceva troppo bene i rischi della guerra e aveva deciso che lavorare per una grande azienda permettesse di gestire meglio il pericolo rispetto al lavoro da freelance. I suoi colleghi della «Fox» lo amavano, e gli hanno assegnato un premio come Eroe misconosciuto dopo l’aiuto che lui aveva prestato ai freelance afghani per lasciare Kabul.

    Sasha aveva ventiquattro anni, era bella, audace e fieramente intelligente. Dopo la sua morte, il padre ha raccontato che aveva imparato a leggere all’età di tre anni e che aveva appreso l’inglese leggendo i menu dei ristoranti durante le vacanze di famiglia. Era una fanatica della fotografia, possedeva cinque macchine fotografiche, aveva fondato un festival musicale per musicisti jazz emergenti, lavorava come dj e scriveva poesie. Voleva fare film.

    Se non si gradisce la libertà di espressione in una democrazia, si fa saltare in aria la torre televisiva. La prima vittima del Cremlino tra i giornalisti è stata Yevhenii Sakun, quarantanove anni,

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