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Trentanni nel trecento
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E-book189 pagine2 ore

Trentanni nel trecento

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Info su questo ebook

TRENTANNI NEL TRECENTO
Un romanzo / saggio che descrive le vicende dei personaggi storici intrecciandole con quelle dei personaggi di fantasia.
Un tentativo di ricostruire la vita medioevale per confrontarla con quella odierna e scoprire che poco è cambiato.
Uno stile veloce e scarno per percorrere i trenta anni di vita del protagonista, e divagare nelle tante brevi storie degli altri personaggi.

Vi troverete la caduta di San Giovanni d'Acri, la fine dei Templari, la storia dei Re maledetti, le compagnie di ventura, i flagellanti, i pellegrini, Cola di Rienzo, Gil Albornoz, Carlo IV, la costruzione della Rocca di Spoleto, la Bolla d'Oro, la Serenissima Repubblica di Venezia, le battaglie in oriente, la guerra dei cento anni, il terremoto e la peste nera che coinvolsero tutta Europa, e molto altro, intorno alla vita di Jacquì.

PAOLO CIRI
Si autodefinisce “scrivente”, non scrittore. Ha dato alle stampe Dudi e Nettuno (due racconti), Montagne Blu (diciotto racconti ambientati in Jamaica), L’epoca di Remo (biografia del campione di motociclismo Remo Venturi) ed ha scritto i testi del sito MySpoleto, ricerca storica sulla sua città natale. E’ stato giornalista e speaker sportivo. Ha cinquanta anni.
LinguaItaliano
EditorePaolo Ciri
Data di uscita22 apr 2014
ISBN9786050300291
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    Anteprima del libro

    Trentanni nel trecento - Paolo Ciri

    mummie"

    LA MALEDIZIONE DI JACQUES

    Nacque d’inverno, di notte. Poco prima d’un vitello, e più che di lui s’occuparon di quello.

    Nacque per caso, per noia. Come un gallo od un coniglio, non certo per amore: fu per sbaglio.

    Nacque.

    Ma, se avesse saputo, non lo avrebbe fatto.

    Soffiava forte quella notte.

    A Crècy en Ponthieu arrivava un vento freddissimo dal mare, che poi non era un mare, era un canale violato. Attraversato dagli odiati inglesi, potenti nelle vicine Fiandre e proprietari di molti e grandi feudi in terraferma franca.

    Nevicava, quella notte.

    Ed era talmente freddo che dovettero spostare la partoriente Carole al piano terra, nella stalla, scaldata dagli animali. Tanto alla puzza erano abituati. E le bestie alla loro.

    Tutti gli uomini vennero allontanati al momento topico, che solo le donne potevano assistere. Rimase una paffuta vicina, aspirante, non ricambiata, al primogenito Adrien. Per questo scopo si combinava lì, per mostrarsi a lui con la scusante di vegliar la sua mamma. Vestita come meglio poteva ma imbrattata di fango fino alle ginocchia: la traversata nella melmosa neve tra le due case era stata difficile. Rimasero anche le due sorelle di Adrien ed una cognata che viveva con loro. Con la poca legna che ancora avevano bollirono l’acqua per disinfettare le forbici e i coltelli e per preparare un infuso di issopo, radice di iris, origano ed erba gatta, compresso in un panno di lana e premuto sul pube. Bisbigliarono i Pater Noster a ripetizione nelle orecchie della partoriente, per altro ormai ben esperta di ripetuti travagli.

    Uscendo alla luce l’ennesimo bimbo pianse. Forse perché doveva, forse perché aveva già compreso la situazione: fu abbandonato sulla paglia che si doveva badare al vitello nascente. Bisognava salvare buona parte del patrimonio di famiglia, incarnato dalla unica mucca, e possibilmente incrementarlo, portando il parto a termine. A quello s’applicarono il padre e buona parte dei suoi dodici fratelli, di cui dieci certi e due un po’ meno.

    Ma anche questi papà Hervè li accettava, li proteggeva e li nutriva. E li scrutava. Sospettoso.

    Hervè era nato nel 1285, anno in cui Filippo IV il Bello divenne Re di Francia, alla morte del padre Filippo III, sconfitto in Aragona e stroncato dalla peste a Perpignan. Hervè era ormai un uomo sfinito dagli stenti: a quasi 52 anni le forze lo stavano abbandonando. E non stava poi bene manco sua moglie Carole, benché molto più giovane. Aveva partorito in silenzio, avendo già generato un popolo di figli, per fortuna e stranamente tutti ancora vivi. Ma altri tre no, loro non erano mai nati. Era una donna triste, non aveva più la forza di piangere o di arrabbiarsi. E neppure la voglia.

    Il neonato poppava da Carole, mentre Gilbert, suo fratello, fu mandato a prendere un pò d’olio (poco) per pulirlo. Gilbert non parlava mai. Capiva, ubbidiva, ma non diceva. A volte spariva da casa per giorni, tanto che non lo cercavano nemmeno più. Lo aspettavano. Certe notti non dormiva, se c’era la luna la guardava, altrimenti si sedeva e dondolava il capo. Non era nato così, ci era diventato dopo un assalto di briganti, che si presero casa, cibi e vino. Molto vino. Quella notte la famiglia dovette dormire all’aperto, tranne Gilbert e la piccole Heloise, che furono mandati nel fienile sopra la stalla, ove i topi e le serpi fienaiole dovettero cedere spazio. Lui la difese quando vennero a prendersela, riuscendoci solo per l’ubriachezza dei banditi. Però beccò una bastonata in testa e rimase svenuto a lungo. Da lì non fece che peggiorare, nonostante le pietose attenzioni di mamma Carole.

    Carole aveva conosciuto Hervè alla tenera età di quindici anni. Da lei erano in troppi, non c’era da mangiare per tutti in casa, e neanche troppo spazio. Chi poteva doveva andarsene. Un paio furono dati alla chiesa, la piccola Carole, già molto bella e ben formata, a Hervè. Era di ben ventidue anni più vecchio. Un po’ goffo, molto timido. Dedito al lavoro, non aveva ancora trovato il tempo ed il metodo di accaparrarsi una donna e far famiglia. Però aveva una buona posizione economica. Mangiava carne anche cinque o sei volte al mese, aveva una casa, addirittura due carretti e dei risparmi, perfino. Così, quando più non ci sperava, ebbe anche moglie. E recuperò il tempo perduto sfiorando la media di un figlio l’anno. Alla fine si volevano comunque bene. Hervè si prendeva cura di lei, la aiutava nelle faccende che le spettavano. Di nascosto, che non si sapesse. Si preoccupava per lei, ne curava i calli, le ferite, le scottature, segni di urgenti fatiche. Qualche volta, però, la sera la abbandonava per dedicarsi ad un pezzetto di cuoio morbido, con delle lettere incise sopra, di cui Carole non sapeva molto, ne chiedeva.

    Hervè era entrato in possesso di questo oggetto strano trent’anni prima, in quel funesto anno del Signore 1307, quando Re Filippo IV il Bello aveva comandato d’arrestare tutti i templari ovunque li trovassero. Jacques De Molay, ventitreesimo ed ultimo Gran Maestro dell’Ordine dei Templari, fu processato, poi torturato e dopo sette anni infiniti, nel ’14, ucciso bruciato. Alla maledizione di De Molay, pronunciata sul rogo, Re Filippo, per bello che fosse, non sopravvisse che soli otto mesi. Ne poté salvarsi Bertand de Gout, Papa col nome di Clemente V, fantoccio di Re Filippo, morto l’anno stesso. Ne i figli ne i nipoti del Re, date che la potenza iettatrice di De Molay colpì anche loro. Alla fine, in assenza di discendenti maschi superstiti, le terre di Francia sarebbero andate o alla Navarra, poiché Giovanna, nipote del Re, aveva sposato Filippo III di Navarra, oppure, peggio ancora, alla odiata Inghilterra, in quanto Isabella, figlia del Re, detta la Lupa di Francia, era stata data in moglie, ancora dodicenne, ad Edoardo II di Carnavon, Re d’Inghilterra!

    Lo strano matrimonio tra il Re di Inghilterra e la figlia del Re di Francia fu progettato per anni da Papa Caetani, Bonifacio VIII, nel lodevole tentativo di legare i governanti dei due grandi stati e così riappacificarli. Questa unione, di puro spontaneo amore, fu quindi molto tribolata. Era voluta dal Papa e dal padre della sposa, il Re di Francia Filippo IV, ma osteggiata dal padre dello sposo, Edoardo I Plantageneto (pianta di ginestra, dal nome del suo stemma), Re di Inghilterra, detto Il Gambelunghe.

    Anche lui si era dovuto prendere, in seconde nozze, per ragioni di stato, una francese, Margherita, sorella del Rebello. Però poneva il suo veto ad un ulteriore legame tra i due regni. Smise d’impuntarsi solo nel ’07, morendo. Così, l’anno successivo, si celebrò finalmente questo disinteressato matrimonio.

    Il ventiquattrenne Edoardo II di Carnavon avrebbe dovuto essere ben felice di ricevere la graziosissima e giovanissima Isabella. Ma si diceva che fosse più attratto dai prestanti ragazzotti di corte. Ed anche lui non ebbe buona sorte, sebbene non compreso nell’elenco delle infallibili maledizioni di De Molay. A causa delle sue specifiche predilezioni si separò, nel ’24, e venne deposto (e imprigionato) dal parlamento, nel ’27 nel castello di Berkeley. Lì morì, come e perché mai si seppe.

    Posero la sua corona sul capo d’un bambino di 14 anni: suo figlio Edoardo III. In realtà comandavano i nobili, attraverso la mamma Isabella di Francia, la Lupa! La quale s’era consolata delle inadempienze coniugali di Edoardo II con tale Ruggero Mortimer. Adempiente. Decapitato nel 1330, per ordine di Edoardo III, figlio della fedifraga.

    Nel 1328, alla morte di Carlo IV il Bello, dunque, in Francia erano esaurite le scorte di figli e nipoti maschi cui assegnare la cospicua eredità. La Francia andava donata, come dote di donna, o alla Navarra o alla Inghilterra. E l’ipotesi più probabile era la seconda, dato che dentro i confini di Francia, o appena fuori, molti nobili inglesi avevano possedimenti importanti e molto potere. Edoardo III Re di Inghilterra e di Francia. Una idea insopportabile pei nobili francesi. Non tanto perché era solo un ragazzo, quanto perché era inglese, quantunque mezzosangue. Furono perciò riuniti dottori d’Università, prelati ed eruditi ed incaricati di cercare una soluzione salvifica. La trovarono in antichi, polverosi codici manoscritti. Ed era geniale. Dichiararono ancora in vigore una legge di otto secoli prima, una legge che Re Clodoveo aveva emesso verso i Fanchi Salii. La (appunto) Legge Salica. Essa, semplicemente, vietava la assegnazione di terre alle donne!

    A chi dare il regno, allora, se alle donne non si poteva più ? Andò al nipote di zio Filippo IV il Bello, figlio di Carlo di Valois e della napoletana Margherità d’Angiò. Cioè Filippo VI di Francia il quale fu, da allora, soprannominato Filippo il Fortunato.

    Tale la sua fortuna che gli toccò dare il via, malamente, ad una infinta guerra. E che tutta la famiglia gli morì di peste.

    HUGO

    In quel nefasto 1307, e precisamente il tredicesimo giorno di ottobre, Hervè al fiume, ad abbeverare pecore, quando vide arrivare un cavaliere. Si avvicinò proprio a lui, perché solo in quel punto il cavallo poteva arrivare all’acqua. Hervè si scostò, diede spazio, e lo vide proprio da vicino. Lo sconosciuto cavaliere, dai vestiti preziosi, alzò il cappello. Lui rispose abbassando gli occhi, e intanto cercava di capire se poteva essere pericoloso. Aveva già visto, nei pochi anni della sua vita, tanti morti senza motivo. Semplicemente, mentre qualcuno stava lavorando nei campi, o dormendo, o uscendo dalla messa, o mangiando, arrivava qualcun’altro che lo ammazzava. Compagnie di ventura, nemici personali, predoni, aggressori dai paesi vicini, appestati, soldati allo sbando e poi chissà. Chi muore d’improvviso non capisce bene chi e perché. Tantomeno lo racconta.

    Ma chiaramente quel cavaliere era una vittima, non un carnefice. Bevuto che ebbe, il cavallo riprese la via. L’uomo s’aggiusto i vestiti e le bisacce, perciò gli cadde un pezzo di cuoio, morbido, inciso. Hervè, svelto, lo raccolse e fece sparire l’oggetto nella manica. Il cavaliere si allontanò recitando a ripetizione "Non nobis domine, non nobis, sed nomini tuo dà glorias. Hervè non capiva quella lingua, ma la cantilena le entrò in testa. Quando fu bastante lontano estrasse il pezzo di cuoio e lo guardò: insvla qvercvs in glacie maris". Non è che non sapesse leggere il latino. E’ che non sapeva leggere proprio.

    Quel cavaliere aveva avuto una vita talmente dissoluta, in gioventù, e se ne era pentito così profondamente da decidere di cancellarla. A trent’anni aderì alla confraternita dei monaci guerrieri detta dei Templari e dovette confessare il suo torbido passato al suo Maestro. Ma lui ne serbò il segreto e gli diede nuovo nome e nuovo rispetto: Hugo De Charny. E lo mise subito alla prova, incaricandolo di difendere San Giovanni d’Acri. Una cittadina in Galilea, sul mare, che da quasi venti anni era ormai l’ultima fortezza cristiana in una terra santa riconquistata dai mori. Essa era in mano ad un altro Ordine, quello degli Ospitalieri, ma anche i Templari volevano essere presenti in quello scampolo di crociate.

    Hugo rimase in quel luogo per dieci anni. In quel tempo desiderò, con tutto il suo cuore, d’andare a Gerusalemme, per visitare i luoghi sacri ma soprattutto il Tempio di Salomone. Dopo anni di titubanze prese coraggio e uscì dalla città per intraprendere il viaggio di quasi tre giorni. Ma frettolosamente rientrò al forte, atterrito da efferati eccidi commessi dai sui stessi confratelli: all’insaputa dal Gran Maestro dei Templari, Guglielmo di Beaujeu, alcuni monaci s’erano avventurati ad ammazzare i musulmani, gli infedeli. Contadini, mercanti, passanti. A decine. L’ultima agonizzante roccaforte cristiana ebbe perciò i giorni contati. La vendetta non poteva attendere. Arrivò sui carri del sultano d’Egitto, insieme ad altri 180.000 soldati. I cristiani destinati ad assumere lo status di martiri erano meno di 15.000. Non c’era gara. Lo divennero facilmente.

    Hugo, sebben ferito, riuscì a salvarsi e a tornare in Francia. Fu incaricato di comandare la mansione di Amiens. Ne fu ben felice. Avrebbe avuto modo di vivere vicino alla meravigliosa Cattedrale di Notre Dame. Un immenso edificio, alto come pochi altri, eretto una settantina di anni prima, col nuovo meraviglioso stile costruttivo apparso quasi d’improvviso, dopo il 1100 grazie alle formule architettoniche del Tempio di Gerusalemme: il gotico ! Da Saint – Denis de Paris, sperimentato per ordine dell’abate Suger, questo meraviglioso stile si diffuse velocemente in tutta Europa e permise alla cattedrale di Amiens, intitolata al patrono San Firmino di Pamplona, ivi decapitato nel 303, di avere luce all’interno, luce colorata, perché al posto dei muri ci sono le vetrate. Sottili colonne, culminanti in volte a costoloni, riescono a sostenere, come per voler divino, il grande peso. Gli archi a sesto acuto lo scaricano verso terra, ed i

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