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Dai Cani
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E-book147 pagine2 ore

Dai Cani

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Info su questo ebook

Bente è seduta su una panchina poco distante dal mare in attesa di un autobus che non arriva, ma trova rifugio presso una giovane coppia, nella più profonda provincia danese. Sottratta alla violenza di un imminente uragano da John e Putte, la donna, alla ricerca di un posto tranquillo, prima si sistema sul loro divano e poi nella quotidianità della loro vita. John e Putte vivono una vita tranquilla cadenzata dalle più normali e semplici faccende quotidiane, interrotte soltanto da qualche fugace giro in bicicletta al distributore di benzina per comprare tortine alla crema e schedine del lotto e dalle uscite con i cani che lo zio di Putte ha affidato loro durante il suo ricovero in ospedale. Giorno dopo giorno riesce a fare proprio il ritmo di quelle esistenze tanto semplici quanto piene di concretezza e di senso e grazie alla ritualità responsabile di azioni e compiti estranei alla sua vita di prima si avvia gradualmente verso la riappropriazione di sé. Con un occhio straordinariamente acuto per la realtà della vita quotidiana, Helle Helle raffigura con calore e umorismo tagliente l'esaurimento nervoso di una donna spinta alla periferia geografica e sociale.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2013
ISBN9788865640838
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    Anteprima del libro

    Dai Cani - Helle Helle

    cani

    Dai Cani

    HELLE HELLE

    DAI CANI

    Dai cani

    Titolo dell’opera originale

    Ned til hundene

    © Helle Helle, 2008

    © Gyldendal Group Agency

    Traduzione dal danese di Carola Scanavino

    © Atmosphere libri

    Via Seneca 66

    00136 Roma

    www.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    1

    Cerco un buon posto dove piangere. Non è per niente facile trovare un posto così. Ho girato in autobus per molte ore e adesso sono seduta su una panchina malferma lungo la costa. Qui non ci sono traghetti. Solo una chiatta che trasporta bestiame avanti e indietro da un’isola disabitata.

      Vivo in una casa a schiera con molte finestre che si affacciano sulla strada. Forse sarebbe stato d’aiuto pulirne qualcuna. D’altro canto è impossibile guardare fuori già solo a causa di tutti quei sempreverdi.È stata un’estate umida, i sempreverdisono cresciuti con vigore infernale. Adesso è inverno, e non devo più tornare a casa. A quest’ora di solito dormo sul divano. Bjørnvig brucia una verruca.

    Tira un forte vento. Il vento mi picchiava sul viso quando sono scesa dall’autobus con il mio trolley. Sul mare il cielo è grigio scuro. Un uomo in tuta da lavoro arriva pedalando a gran fatica e si immette da destra sul sentiero lungo la costa.Si incurva sul manubrio ogni volta che spinge a fondo i pedali. Pedalo anch’io così, per questo non vado in bicicletta. Si ferma e scende. Esplora l’orizzonte, posa le mani sui fianchi. Sa bene che sono seduta qui. Abbasso lo sguardo sulle mie mani nei guanti di cinghiale.

      È rimontato in sella e prosegue lungo il mare. È solo una questione di tempo e cambia direzione, lascia il sentiero, oltrepassa la piccola baracca nelle vicinanze e viene verso di me.Trascina la bicicletta perl’ultimo tratto. I suoi capelli sono scuri e sottili. Non è molto vecchio, però, è più giovane di me di qualche anno.

      «Stai bene lì» mi dice.

      «Sì».

      «Finirai per starci a lungo».

      «Lo so» dico io da dentro il mio scialle.

    Guardiamo entrambi il cartello con gli orari degli autobus e poi il trolley.

    «Allora buon divertimento» dice rimontando in sella. Dà la pedalata di avvio senza sollevarsi sui pedali, alza due dita in segno di saluto, su e giù. Ora ha il vento a favore, ed è presto lontano.

    Non so che idea mi ero fatta di questo cornetto farcito di insalata di pollo. Tengo i guanti mentre mangio, la sfoglia cade a piccole scaglie sulla falda del mio cappotto.Ho quarantadue anni e non sono ancora capace di essere di buon esempio. Mangio il cornetto partendo dal centro e non ho nemmeno un tovagliolino. Mi alzo e spazzolo via le briciole dal cappotto con le mani, mi sporco tutte e due le maniche di maionese. Ho le gambe rigide. Mi risiedo. Sta per diventare buio, il vento infierisce sul tetto della baracca.

    È di ritorno, questa volta con una donna, sono entrambi a piedi. Come lui anche lei è in tuta da lavoro. Si tengono per mano e si lasciano solo quando sono a un passo da me.

    «Ciao» dice lei. «Lo sai, vero, che non passerà un autobus prima di domani? Qui ne passa uno solo al giorno».

    «Sì. Ho visto».

    «Stai forse aspettando qualcuno?»

    «No, non proprio».

    «Hai bisogno di un telefono?»

    «No, grazie, non è necessario».

    «Io mi chiamo Putte, lui è John» dice lei. «Non puoi restare qui. È in arrivo un piccolo uragano».

    «Non possiamo permetterlo» dice lui.

    Mi prendono un braccio per uno e mi tirano su. Lui estrae la maniglia del trolley e lo trascina dietro di noi. Le ruote stridono contro l’asfalto. Abitano in una piccola casa senza giardino, sembra intonacata di fresco.Un’edera a ghirlandae una lanterna a petrolio su ogni finestra. Lei apre la porta d’ingresso. Il corridoio è stretto e con in fondo una scala di pino. Si tolgono le scarpe ed entriamo in salotto. La stufa a legna è accesa. Resto impalata al centro della stanza. Lei esce e ritorna poco dopo con un bicchiere d’acqua, me lo porge.

    «Perché indossate la tuta da lavoro?» domando io.

    «Arriviamo adesso dai cani» risponde lei.

    Lui ha acceso la televisione e ora è seduto sul divano. Ci sono le previsioni del tempo, si sporge tutto in avanti.

    «Pensi che lo steccato terrà?» chiede lei.

    «Altrimenti ci inventeremo qualcosa» risponde lui. E a me: «Dai, siediti».

    Mentre chiacchierano bevo la mia acqua. Non sento bene cosa dicono. Putte si alza per prendere un giornale locale. Lo sfoglia tenendo le gambe sul divano piegate sotto di sé, è un po’ robusta sulle cosce. John lo legge da dietro le sue spalle e intanto brontola.

    «Avrebbero dovuto farlo già lo scorso anno» dice Putte scuotendo il capo.

    «Sai bene come vanno queste cose» ribatte John.

    «Eppure…»

    Leggono tutto il giornale in questo modo. Poi lei lo ripiega e glielo dà sul ginocchio a mo’ di scappellotto:

    «Cosa c’è nel menu?» chiede.

    «Chili con carne».

    John trita la cipolla e tira su col naso dalla cucina a vista. Putte si sbottona la tuta e la getta su una sedia. Sotto indossa le ghette e una morbida camicia a quadretti. Sopra le ghette i calzettoni da sci. Prende una sigaretta da un pacchetto sullo scaffale componibile, la accende, va verso John e gliela infila in bocca.

    «Come evitare le lacrimucce» dice rivolta a me.

    Si siede a guardare la televisione. Sbadiglia un po’. Si mette semisdraiata sul divano, allunga la mano per prendere un plaid e se lo butta addosso. Guardiamo le notizie regionali. Si addormenta. Osservo il suo viso, forse ha solo la metà dei miei anni.

    Mi addormento anch’io, sulla sedia. Quando mi sveglio John sta apparecchiando. Mette in tavola sale e pepe e piega accuratamente i tovaglioli a metà. Sveglia Putte picchiettando due dita contro la sua fronte.

    «Perché non ti togli il cappotto e tutto il resto?Questo scialle, per esempio» dice a me.

    «Sì».

    Mi guardo: il mio cappotto ha sia i bottoni che la cerniera. Qualche frangia dello scialle è rimasta incastrata nella lampo.

    «Posso usare la toilette?» dico io.

    «Fa’ pure».

    Indica oltre la propria spalla dietro la cucina e produce un sibilo con i denti:

    «Tsc. Da quella parte».

    Mentre mangiamo Putte racconta una lunga storia su suo padre che a quanto pare abita a Næstved. È stato dalla dottoressa a farsi prescrivere delle medicine per il fratello di Putte a sua insaputa, la dottoressa naturalmente non ha accettato di scrivere una ricetta in quelle circostanzee così al padre sono venuti un attacco di dispnea e il formicolioalle dita e hanno dovuto dargli un bicchiere d’acqua fredda, ma anche quando la dottoressa è arrivata con una borsa di plastica di Lidl attraverso la quale il padre avrebbe dovuto respirare, lui ha respinto la sua mano dicendo:

    «Portati via questa merda».

    Putte si vergogna di suo padre, pensa che si comporti come un bambino. John lo difende:

    «La dottoressa conosce bene Eskild».

    «Sì, ma comunque… è imbarazzante per Ibber».

    Ibber è il fratello, da quanto capisco. Putte scuote la testa e prende un sorso di latte. John beve acqua, e io anche.

    «Ti piace? Non sei obbligata a finirlo» mi dice Putte un momento dopo. «John è il nostro miglior cuoco. Non c’è nessuno nel raggio di miglia che sappia cucinare l’arrosto di maiale come lui».

    «Ah, non so» dice lui.

    Il piatto è vuoto. Putte ci passa l’indice tutt’intorno e se lo infila in bocca. Non sembra che vogliano fumare dopo mangiato. John si alza e mette su il caffè. Putte guarda la sua schiena e si accarezza la treccia. Io osservo le mie mani, non so cosa c’è che non va in queste mani.

    «Noi andiamo a dormire presto» dice Putte. «Tu sistemati pure sul divano. Si sta comodi».

    «Prendiamo il piumone in soffitta» dice John dalla cucina. «Basta solo stenderlo un po’ vicino alla stufa».

    «Sembrerebbe proprio arrivato il momento di dire che non dovete darvi troppo disturbo» faccio io.

    Putte rimane impassibile:

    «Oh, ma tanto non abbiamo un cavolo da fare. Se non portare a spasso il nostro colpo della frusta».

    «Vorremmo avere qualcos’altro a cui appassionarci un po’» dice John, poi ridono di cuore tutti e due. John mi mette una tazza davanti, posa una ciambella alla vaniglia sulla tovaglietta all’americana e un’altra sopra, e poi un’altra e un’altra ancora. Putte lo prende in giro:

    «Ancora una, John. Così possiamo giocare a chi costruisce la torre di biscotti più alta e si aggiudica il titolo di imbranato pasticcione per averla fatta crollare».

    «Vorrei andare sull’isola» dico io.

    «Quale?» dice Putte prendendo l’ultima ciambella.

    «Quella qui di fronte».

    «È l’isola delle vitelle» dice John.

    «Adesso?» dice Putte.

    «La usano per il pascolo. È di Pilegård».

    «C’è una capanna dietro gli alberi».

    John prende una ciambella e un’altra ancora, e parla con i biscotti in bocca:

    «È un bel posticino».

    «Non quando le vitelle pascolano» dice Putte.

    «Forse la capanna si può affittare?» domando io.

    John ride spruzzando un po’ di briciole dalla bocca:

    «Pilegård affitterebbe anche la sua vecchia madre, se potesse».

    «Il portamonete di Pilegård è in pura pelle di talpa» dice Putte, ora anche lei spruzza briciole dalla bocca.

    «Non lo vuoi un biscotto? Tu sei una signora» fa John.

    «Vado di sopra a cercare un piumone» dice Putte alzandosi, la treccia sventola nell’aria.

    «No. Purtroppo non lo sono. No, grazie» ribatto io.

    «Se lo dici tu» replica John grattandosi il petto sotto la tuta.

    2

    Sono sdraiata sul loro divano ad angolo con i piedi nell’angolo. Tira un forte vento, il vento sibila intorno alla casa. La luce proveniente dal lampione si muove in modo irregolare per tutto il salotto. Il copripiumone profuma di ammorbidente. Da sopra non arriva più alcun suono. Prima sentivo le loro voci come due diverse tonalità senza riuscire a distinguere le parole. Hanno parlato molto. A un certo punto hanno riso. Poi, a poco a poco, il tempo tra una frase e l’altra è diventato sempre più lungo. Una frase e una risposta e una risposta breve. Pausa. Una frase breve. Pausa. Risposta.

    Accendo la piccola applique sul divano e mi metto seduta. Allungo la mano per prendere il trolley, lo tiro verso di me e lo apro. Mi sono portata la biancheria intima di lana, proprio come pensavo. Ho anche preso qualche foulard. Non ricordavo di aver messo in valigia cinque spazzole di scotch, ma dev’essere stato un pensiero recondito. Indugio sui miei gambaletti. Quattro paia. C’è anche un paio di calze al ginocchio di Bjørnvig, sono un po’ sporche. Le usa negli stivali di gomma, altrimenti indossa perlopiù un paio di zoccoli bianchi.

    Si sentono dei passi in camera da letto. E subito dopo sulla scala, poi la porta che dà sul salotto viene aperta con cautela. È Putte in camicia da notte e con i capelli sciolti.

    «Giochiamo a fante prende tutto?» dice. «Non si può certo dormire con questo baccano».

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