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Basta Poco
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E-book290 pagine4 ore

Basta Poco

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Info su questo ebook

Chiara sta andando a cena da François, un suo amico Dj, ma ad aspettarla davanti al cancello della villa c’è Manuel uno sconosciuto che dice di essere stato anche lui invitato a quella cena. Da quel momento in poi la storia di Chiara si legherà indissolubilmente con quella di Christian che all’oscuro di ciò che gli sta per accadere si ritroverà a condividere con lei lo stesso incubo.
Basta poco è un thriller dai risvolti inaspettati e che sfugge a ogni categoria di genere. Vissuto da diversi punti di vista questo romanzo ci fa credere che la vita sia un percorso senza alternative per poi spiazzarci facendo luce sulle diverse scelte che ognuno di noi possiede dentro di se.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2015
ISBN9788869820144
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    Anteprima del libro

    Basta Poco - Homobruno

    poco

    L’ultima cena

    Non era la prima volta che andavo nella sua villa immersa nel verde; cene e feste mi avevano fatta diventare una di casa. Eppure mi perdevo sempre.

    Al momento di varcare il confine immaginario che delimitava la zona residenziale, cercavo sempre di individuare il cancello della sua villa, come se sapessi già che avrei fallito. Nessun punto di riferimento sulla strada, nessun negozio, solo vie parallele e incroci. Indicazioni che sparivano e riapparivano secondo le stagioni e secondo la crescita della vegetazione, sensi vietati che si trasformavano in sensi unici.

    «Sono tratti di strada strani, questi.»

    Era la sua frase preferita, mentre guardava fuori dalla finestra del suo soggiorno cercando d’imitare i modi di un marinaio esperto: la frase era di Joseph Conrad, e ancora non sono riuscita a capirne il senso.

    «Vado a cena a casa del DJ.»

    Mi ripetevo questa frase mentre guidavo verso la sua abitazione, ma quella sera non avrei voluto andare a cena a casa sua: c’era qualcosa di segretamente sinistro intorno a quell’appuntamento, un sensazione piccola, appena nata, cieca e malferma sulla gambe, ma che si era presentata al mio cospetto fin dalla mattina.

    L’invito era partito all’ultimo momento, tramite una chiamata da un telefono pubblico; il rumore di fondo di una linea disturbata copriva la voce, poi c’era stato il silenzio, nessuna chiamata, nessuna conferma. Non ci avevo fatto troppo caso ed ero partita fra le solite rosee speranze che, devo dirlo, venivano regolarmente messe a dura prova dalla sua apparente indifferenza, dai suoi colpi da musicista, colpi inferti con superficiale leggerezza, senza rendersene conto, ma che non arrestavano le mie spinte, neanche quando lui se ne stava per quasi tutta la sera ad ascoltare la musica, con le cuffie sulle orecchie.

    Gli interessi comuni non mancavano, a partire proprio dalla musica, ma poi la finestra si richiudeva e si passava ad altro.

    Alla fine, comunque, il bilancio era sempre in positivo: ogni volta che uscivo da quella villa non avrei chiesto più di quello che il DJ poteva concedermi, mi andava bene così, la sua presenza era più che sufficiente. La musica era un contorno, niente di più e niente di meno.

    Quando mi trovavo nei pressi di quell’intreccio di strade che costeggiavano le ville, senza navigatore, l’unica speranza per fare prima era chiedere informazioni a un passante; ma era raro imbattersi in qualcuno, specie di sera. Non incontravo mai nessuno a spasso con il cane, né di sera né di giorno e neanche quando me ne tornavo a casa all’alba, dopo una lunga notte trascorsa con il DJ e altre persone.

    La cosa mi aveva sempre turbato; lui all’inizio usava liquidare la cosa come una coincidenza, ma con il tempo mi accompagnò nelle ipotesi più fantasiose. Quando portavano fuori i cani che vivevano nelle case lì intorno? Nelle ville forse facevano i bisogni in giardino, certo, ma chi abitava in una casa senza giardino? In che momento della giornata s’incamminavano con i loro padroni in quelle strade vuote e isolate? Forse non facevano i bisogni? Erano cani senza scorie? Quante volte ci siamo divertiti a fantasticare su che tipo di animali avessero in casa, fino ad arrivare alla conclusione che la mia presenza in quella zona li teneva alla larga dalla strada. Come se io avessi potuto fargli del male, che assurdità.

    Le rarissime volte che ero riuscita a fermare qualcuno dei residenti per farmi spiegare dove fosse la casa del DJ, chi mi aveva parlato si era sempre comportato con immenso garbo; anche su questo avevamo creato ipotesi da quarta dimensione, io avevo sempre detto che era l’acqua che scorre nei rubinetti di casa a renderli così gentili e il DJ si era subito dimostrato d’accordo, visto che anche lui ne beveva e non ci era mai capitato di innescare discussioni o fraintendimenti di alcun genere.

    Rimaneva però sempre il problema del labirinto infernale. Ogni volta era una perdita tempo, tuttavia non mi metteva mai a disagio: ormai mi ci ero così abituata che la ricerca stessa della via era diventata una sorta di dolcissimo aperitivo.

    Sapevo che le ore che avrei trascorso con lui sarebbero state vera vita, una vita che si scopre essere la migliore proprio quando la si sta vivendo, a costo di arrivare sempre al buio, a un’ora in cui avrei voluto già da tempo essere seduta davanti a una tavola apparecchiata.

    Quando andavo a casa del DJ era come se qualcosa mi costringesse a cambiamenti improvvisi di direzione. Durante il viaggio di ritorno, un misto di progetti e intenzioni si palesava nel silenzio ovattato dell’abitacolo, finestrini chiusi e tappezzeria così soffice da sembrare perfino rassicurante.

    Parcheggiai vicino alla villa, raccolsi le mie cose e scesi. C’era un vento forte che sembrava essersi concentrato proprio sulla via dove abitava il DJ. Mi scombinò i capelli che con tanta cura avevo sistemato prima di uscire, in una folata come se mi fosse passato accanto un treno ad alta velocità; mi voltai in direzione della pineta, seccata da quel mancato riconoscimento, ero una di casa, parlavo la stessa lingua dei residenti, perché il vento fingeva di non conoscermi? Mi incamminai verso casa; fu allora che il vento calò come se non ci fosse mai stato.

    Cercai di sistemarmi i capelli con una mano, mentre infilavo l’altra nella borsa per afferrare il telefonino. Di fianco all’entrata, appoggiato a una macchina c’era un uomo mai visto prima; non mi era sembrato di averlo notato neanche quando gli ero passata davanti prima di parcheggiare. Era occupato anche lui con il telefonino e quando si accorse che mi stavo dirigendo nella sua direzione chiuse la chiamata che stava facendo e mi sorrise.

    «Stai cercando François? Non c’è, ho già provato io. Tu devi essere Chiara, io sono Manuel.»

    «Sì, sono Chiara, piacere.»

    «Sono un amico del nostro DJ, sono venuto a cena, mi ha invitato lui.»

    «Non… non mi aveva detto che c’era un altro ospite a cena. Il cancello è aperto?»

    Mentre mi riprendevo dalla sorpresa suonai il campanello. Nessuno rispose. La villetta era avvolta nell’oscurità.

    «Ho provato anch’io tante volte, ma non c’è nessuno. Il telefono di casa suona libero, lo stavo chiamando proprio adesso al cellulare ma è irraggiungibile. È tutto spento. Adesso ci riprovo.»

    «Ho dimenticato il telefono a casa. Non risponde?»

    Quell’uomo che non conoscevo e che mi stava sorridendo amabilmente si avvicinò e accostò il suo cellulare all’orecchio in modo che potessi sentire il solito messaggio di irreperibilità.

    «Devi telefonare?»

    «Sì.»

    «Prendi il mio, non ti preoccupare, fai tutte le telefonate che vuoi.»

    «Grazie, come hai detto che ti chiami?» Le parole, lentamente, stavano tornando al loro posto.

    «Manuel. Se devi chiamare lui è il tasto verde, altrimenti devi fare da sola.»

    «No, volevo solo vedere se il mio cellulare è caduto fra i sedili, grazie, te lo ridò subito.»

    Composi il mio numero ed entrambi ci avvicinammo alla macchina. Una volta entrata con la testa nell’abitacolo e con il telefono che suonava libero, non percependo nessun rumore mi rassegnai a una serata senza cellulare.

    «Tieni, grazie, sei molto gentile. Sei di queste parti? Bevi molta acqua?»

    «Come, prego?»

    «No, scusa stavo pensando a una cosa mia.»

    Ci guardammo senza sapere bene cosa fare e prima che l’imbarazzo potesse afferrarmi, tornammo al cancello e suonammo ancora il citofono.

    Nessuna risposta.

    Lui si allontanò per chiamare a voce alta nella direzione delle finestre chiuse. Niente.

    Mi piaceva il suono potente della sua voce e stavo quasi per chiedergli di gridare ancora, solo per vedere se avremmo dato una scossa al silenzio che gravava sulla via, ma non lo feci; mi voltai verso la pineta e rimasi a guardare come se la risposta potesse arrivare da quella parte, poi ebbi un’idea.

    «Io so come entrare, vieni con me.»

    Entrai nel cancelletto che era sempre aperto e salii le scale che portavano alla porta. Lui, con le mani in tasca, mi guardò allontanarmi come se aspettasse una mia autorizzazione. Lo vidi però meglio, sotto la luce. Era un bell’uomo dai capelli neri, fisico asciutto ben messo, vestiti eleganti: anche se faceva caldo indossava una giacca e dei pantaloni scuri. Alla luce dei lampioni, notai i lineamenti morbidi e la barba appena accennata.

    «Mentre aspettavi hai visto qualcuno? Avvicinati, non aver paura.»

    «No, da quando sono arrivato non ho visto anima viva, né in strada né all’interno della casa. Perché me lo chiedi?»

    «Solo pensieri.»

    «Dove stai andando?»

    Non risposi, perché mi impressionò la casa vista da vicino: sembrava abbandonata, con tutte le finestre chiuse. Il lampione di fianco all’entrata diffondeva la sua luminosità principalmente sulla strada, e sotto la veranda non si vedeva niente.

    Quando arrivavo in quella zona ero sempre sorretta da un’idea, un’emozione che riguardava i cancelli delle ville che incontravo sulla strada. L’effetto che mi provocava quella sequenza di forme artistiche fatte di ferro era una particolare forma d’immobilità, una visione ferma e appariscente come un manifesto affisso sulla parete della memoria e che sotto il suo inchiostro colorato rappresentava le ville dei residenti come se fossero realmente abbandonate. Non era la luce spenta delle stanze, la mancanza di rumori o latrati di cani ad annunciarlo, solo un’impressione che grazie ai colori che man mano divenivano più sfumati passavano dalla realtà all’immaginazione. Ho sempre creduto, affermandolo quando necessario con una sicurezza che prendeva in giro sia me che l’intero vicinato, che quelle oscure abitazioni godessero di una sorta di mimetizzazione supplementare oltre alla vegetazione, che dal canto suo svolgeva il compito assegnatole in maniera fin troppo zelante. Un travestimento a più livelli, sovrapposti e indipendenti l’uno dall’altro, simile a una campana che con il suo peso e la struttura massiccia copre risolutivamente ciò che è nascosto sotto di lei. Una villa sopra un’altra villa, e coloro che abitavano sotto la campana potevano così fare tutto il chiasso che volevano. All’interno il caos, all’esterno silenzio assoluto. Costruzioni silenziose ricoperte di rami e foglie, simili a bunker, un mimetismo che le discostava temporaneamente dal resto del mondo, ville ricoperte da altre ville.

    «Non mi dire che stai cercando le chiavi. Come fai a sapere dove sono? Non vorrei fare qualcosa di sbagliato, sei sicura che sia una buona idea entrare? Io, è la prima volta che vengo in questa casa.»

    «L’ho fatto un sacco di volte. Mi ha detto lui dove sono le chiavi, proprio perché spesso si presenta alle sue stesse cene in ritardo. Eccole qua.»

    Entrai e accesi le luci, aprii le finestre e m’incamminai verso la cucina. Lui invece si spostò nella grande stanza come se fosse un contadino che sta controllando il suo terreno dopo la semina. Gli offrii dell’acqua e gli feci segno con le mani di stare tranquillo, di mettersi comodo, la casa era a nostra disposizione.

    «Sei molto gentile anche tu, grazie. Proprio strani questi bicchieri, però sono simpatici, mettono di buon umore, mi piacciono così grandi.»

    «Lui li usa per bere il tè, gli piace solo il tè. Scommetto che invece tu sei un tipo da caffè, lungo, all’americana, o sbaglio?»

    «Come hai fatto a capirlo?»

    «Tiro a indovinare e a volte ci prendo.»

    «Io invece sono una frana a capire le persone. Credo di conoscere qualcuno, e invece quando ci sono a contatto tutti i giorni mi accorgo di aver sbagliato. Dovresti aiutarmi a capire come si fa visto che sei così brava.»

    «Non sono la persona giusta, mi dispiace. Anch’io ho i miei problemi in merito.»

    Iniziai a cercare, qualcosa doveva esserci, un biglietto, un messaggio; salii anche al piano di sopra, rovistai in bagno e in camera da letto, ma non c’era niente.

    «Che si fa?»

    Non seppi rispondere. Continuai a guardarlo come ipnotizzata dai suoi occhi neri; in realtà stavo pensando e mentre continuavo a farlo distolsi lo sguardo dal suo e cercai qualcosa da bere. Con me non avevo niente, ma lui, come se avesse interpretato i miei pensieri, tirò fuori non so da dove una bottiglia.

    «Complimenti, ottima scelta. Sai, quando ti ho visto con la tua cartella poggiata sulla spalla, lì fuori del cancello, ho immaginato che lì dentro potessi avere una bottiglia di champagne.»

    «Sei sicura di non volermi aiutare a capire meglio le persone? Sembri brava.»

    «È solo intuito da principiante» dissi. «Ho portato del vino rosso. Non stasera, l’ho lasciato qui pochi giorni fa, dovevamo cenare, ma poi io e François siamo andati a mangiare una pizza in centro. Cosa più unica che rara, fattelo dire, non so quanto lo conosca tu, ma in quell’occasione mi ha veramente stupita; pensavo non uscisse mai di sera e invece mi ha portata fuori.»

    «Era la prima volta?»

    «Sì, ma dove può essere?»

    «Chi?»

    «Il vino, dico, dovrebbe essere sotto, nella credenza.»

    «Vuoi una mano?»

    «No grazie, non ti preoccupare, sono brava a cercare le cose. Se vuoi posso insegnarti, quello lo so fare bene. Eccolo, che ti avevo detto?»

    «Da quanto tempo state insieme?»

    «Da circa un anno. Non è vero. È da circa un anno che lo conosco, che lo frequento. È una storia lunga, forse più tardi te la racconterà lui, se vorrà.»

    «Non c’è problema, non sono un tipo curioso, ascolto quello che mi dicono di ascoltare e chiedo quello che posso chiedere, almeno all’inizio.»

    Sono sicura che allora volesse dirmi qualcosa, ma io ero ancora in movimento.

    «Ho visto François una sola volta. Abbiamo parlato, ma di lui so molto poco, anzi, quasi nulla.»

    «È un tipo originale, merita veramente. Com’è che hai portato lo champagne? Se l’avessi saputo ne avrei portato una bottiglia anch’io.»

    «Non ti dispiace, vedo.»

    «Io ci vado matta. Ho sempre avuto un approccio particolare con le bollicine alcoliche, ma non ne compro mai una bottiglia. Non è per il prezzo, mi è capitato spesso di spendere più soldi per il vino; con lo stesso prezzo potrei comprarne una bottiglia anch’io, invece no, chissà perché.»

    «Forse temi che ti possa far girare la testa.»

    «A volte fa questo effetto, sì.»

    «A me non piace particolarmente, preferisco il vino rosso.»

    «Il vino tinto…»

    «Sì, quello così scuro che se metti il bicchiere controluce il colore all’interno rimane inalterato.»

    «Allora perché hai portato lo champagne?»

    «Non lo so perché, forse sapevo che venivi tu, forse inconsciamente volevo festeggiare qualcosa. Festeggiamo?»

    «Sei proprio un tipo galante, ma da quale epoca vieni? Sei spagnolo? Hai un’aria da vecchia Madrid.»

    «In che senso?»

    «Oh, scusa, non volevo dire questo, intendevo distinta. Alta borghesia spagnola. Sei nobile?»

    «Non sei la prima a dirmi che somiglio a uno spagnolo, ma alta borghesia di Madrid è la prima volta che lo sento.»

    «Che ne dici di iniziare a cucinare? Anche se François non si è fatto ancora vivo, che male c’è se ci portiamo avanti col lavoro?»

    «Già, se non smuoviamo qualcosa c’è il rischio, anzi la certezza, di mangiare alle dieci.»

    «Per un motivo o per l’altro succede spesso anche quando lui è presente. La spesa, almeno quella, credo sia da qualche parte. Ci penso io, tu mettiti comodo. Ti chiamo se ho bisogno.»

    Si allontanò con il passo di chi parte all’esplorazione. La casa del DJ non era grande, anche se poteva essere considerata una villa a tutti gli effetti, giardino incluso; il piano inferiore, oltre alla cucina con un modesto tavolo per mangiare, era composto dal salone e dal bagno ed era proprio il salone che l’aveva magnetizzato. Io lo chiamo il salone della musica, una sorta di museo-biblioteca a cielo aperto.

    Nella dispensa c’era pochissima roba da mangiare; eppure anche quando eravamo in due il cibo non mancava mai. Vorrà dire che ce la faremo bastare, pensai, l’importante è stare insieme, «A saperlo prima avrei portato qualcosa io.»

    «Mi hai chiamato?»

    Scoppiai a ridere. «Sei proprio simpatico, ma quanti anni hai?»

    «Tu quanti me ne dai?»

    Scossi la testa e continuai a guardarlo. Poteva averne quaranta come cinquanta; di sicuro era più grande di me di almeno dieci anni, ma i suoi capelli non avevano neanche l’ombra del bianco e le linee del suo viso sembravano guardarmi più dei suoi occhi.

    «Senti, dicevo, da mangiare non c’è tantissimo, ma farò qualche intruglio dei miei. Metti su un po’ di musica mentre preparo.»

    «Certo fra tutti questi CD e dischi c’è da impazzire, la console poi è mostruosa.»

    «È un collezionista, un uomo pieno di sorprese. Tu che lavoro fai?»

    «Ho un laboratorio dove lavoro la pelle, artigianato diciamo, mercatini fuori città, quelle cose lì. La cartella che ho portato con me l’ho fatta io. Ti piace?»

    «C’è uno stereo portatile lì in basso vicino alla sedia di François. Accetta i CD e anche se sembra impossibile perfino le cassette, ma non ti fidare di lui. Lo stereo stesso è consapevole di essere solo un contrabbandiere: da quando sono state inventate le nuove tecnologie è vietato quel tipo di lavoro» dissi cercando di sbirciare cosa stava combinando. «Sì, mi piace la tua ventiquattrore anche se preferisco articoli più moderni, materiale sintetico a poco prezzo.»

    «Ti capisco, ma questi lavori in cuoio, soprattutto le borse, richiedono molto tempo, un impegno esclusivo: è fatta a mano, anche le cuciture, quando sei impegnato in un’attività del genere non puoi fare altro, richiede concentrazione. Ma questo, tu scommetto che lo sai.»

    «La concentrazione la conosco bene e anche da queste parti la conoscono bene: ce ne sono librerie intere dietro di te.»

    «Che intendi?»

    «Ma non avevi detto, com’è che avevi detto? Chiedo quando posso chiedere, non sono un tipo curioso.»

    «Scusa, mi ero fatto prendere dalla conversazione.»

    «Niente, stavo scherzando. Rilassati però, sembri un militare a un posto di guardia, togliti la giacca, non senti caldo? Che dicevi a proposito della cartella?»

    «Ne ho portata una con me perché François mi ha chiesto di fargliela vedere con calma.»

    Interruppe la ricerca della musica rimanendo sempre a una certa distanza da me, determinato a mostrarmi la sua cartella di cuoio presa dal tavolo e illustrata in tutte le possibili funzioni. «Intende comprare una borsa tipo questa, vuole metterci contratti, liberatorie, fogli per la richiesta dei diritti d’autore. Ha detto anche che è stufo di mettere tutto nel solito zainetto. Ecco lo stereo del contrabbandiere, sto mettendo un CD preso a caso, i Dominic. Li conosci?»

    Lo stereo partì.

    «Sono un ottimo gruppo, sono norvegesi» dissi. Mentre l’acqua del lavello scorreva sulle mani cercai di ricordare la prima volta che avevo ascoltato quel gruppo; ero stata io a farli conoscere a François, ero stata io a regalargli Nord, il loro secondo album. Red Light era la mia traccia preferita. «Allora sei un artigiano? Lavori anche con altri materiali?»

    Parlavamo io dalla cucina e lui dal salone; le due camere erano divise da un muro senza porta e io sentivo le sue parole e addirittura i suoi movimenti, anche con le chitarre dei Dominic in sottofondo. Avevo spento la luce centrale e lasciato accesa solo la lucina sopra i fornelli, stavo lavando l’insalata e mentre ero concentrata sull’acqua che bagnava le mie mani, lo sguardo cominciò ad allontanarsi da dove mi trovavo, i miei occhi e poi tutto il corpo. Mi accadeva spesso quando ero lì, in quella specifica posizione, era la finestra che si trovava di fronte a ispirare quel viaggio, la luce che mi illuminava il viso. Mi voltai verso di lui e notai che mi stava guardando, fermo nell’altra stanza; non abbassò lo sguardo, sembrava stesse scrutando qualcosa che non capiva fino in fondo. Ero sicura avesse capito che mi ero allontanata e che con lo sguardo cercasse di farmi tornare nella stanza. Gli sorrisi senza dire nulla, i miei occhi rientrarono in cucina. Fui io a distogliere lo sguardo, le mani sotto l’acqua che scorreva silenziosa, i colori ammorbiditi, tonalità che si sforzavano di sembrare naturali e che in fondo lo erano, se non fosse che da quando ero rientrata li vedevo differenti, diversi da me, dalla mia pelle, non potevano cambiare e invece l’avevano appena fatto. Anche loro erano usciti con me e con me erano rientrati.

    «Non mi hai ancora detto con che tipo di materiali lavori.»

    «Mi occupo anche di feltro, mi aiuta la mia ex moglie.»

    «Allora sei stato…? Lo dicevo io.»

    «Per quindici anni, poi ci siamo separati, a proposito delle mie difficoltà che accennavamo prima. Una brutta storia, ma adesso sono a posto, almeno credo.»

    «Non ti sei ancora ripreso?»

    «Diciamo al novantacinque per cento. Sono bravi davvero i Dominic, hai detto che sono norvegesi?»

    «Sembrano un gruppo gotico new wave, ma se li ascolti bene puoi sentirci qualcosa di Seattle anni Novanta.»

    Aveva cambiato subito discorso, con una velocità che giudicai innocua, visto il momento, e quindi mi scusai con lui e passai a condire l’insalata; l’acqua per la pasta era sul fornello anche se ancora spento, mentre su una padella soffriggevo dei cubetti di pancetta. Lui aveva aperto il vino, ma non l’aveva versato in nessun bicchiere.

    «Ti piace quello che vedi? La cena intendo, sei vegetariano? Sei sicuro che non hai parenti in Spagna?»

    «Seguro.» Rise.

    «Come puoi vedere ho attivato la base della cena, poi quando arriva il padrone di casa accendiamo l’acqua e cominciamo a preparare sul serio.»

    «Hai fatto bene, ho una fame! Dove sono i bicchieri? Però almeno mettiamo lo champagne in frigo.»

    «Mi dispiace, volevi aprirlo subito? Va bene, scusa, apriamolo, beviamo lo champagne, il vino può attendere.»

    «Sembra un film, ti pare? Il vino può attendere. Un film anni Quaranta americano, sulla scia di Via col vento. Va bene, beviamo lo champagne. Ma ti va? Sembri contraria.»

    «Se mi piace? Sono una fan dello champagne, pensavo solo che volessi stapparlo più tardi, quando arriverà François.»

    «È vero! Non ci avevo pensato, hai ragione. Allora beviamo il vino, prendo i bicchieri.»

    Si avvicinò al lavabo, prese due bicchieri e me ne porse uno.

    «È colpa tua, mi confondi. Questo lo metto in frigo, per dopo. Tu, Chiara, che lavoro fai?»

    «Commercio plutonio, ma non posso dirlo a nessuno. Scherzo. Sono una veterinaria. Oltre al lavoro conduco delle ricerche per conto mio, mi piacerebbe fare la ricercatrice.»

    «Che tipo di ricerche?»

    «Comportamento degli animali. Lo so, è molto generico, ma non vorrei annoiarti. Lo hai detto tu, dobbiamo festeggiare.» In realtà quella che non voleva annoiarsi ero proprio io. Anche se il mio lavoro mi appassionava al punto di dimenticare la vita sociale, in quel momento non avevo nessuna intenzione di condividerlo. «Diciamo che devo essere ispirata per raccontarti delle mie ricerche. Sono cose molto personali e poi sono solo bozze di pensiero, almeno per ora.»

    Versò il vino e con un brindisi itinerante ci spostammo nel salotto, per chiacchierare più comodi.

    «Che ne pensi di questa zona? Ci eri mai stato?»

    «No, come ti dicevo è la prima volta.»

    «Non ti sembra strana? Tutte queste ville in cui non si vede mai nessuno, le strade poi, meglio che non ne parliamo, mi perdo in continuazione. La pineta invece l’hai vista?»

    «Certo, ero arrivato in anticipo e prima che facesse buio ci ho fatto un giro.»

    «Veramente? Io amo questa pineta.»

    «Parlamene, vediamo se sono le stesse cose che ho pensato io.»

    «Non credo, ma te lo dico lo stesso. Per prima cosa la pineta la notte riposa, ma quando soffia il vento forte nella sua direzione sembra di essere vicini al mare, si sentono le onde.»

    «Le onde?»

    «Sì, che s’infrangano sulla spiaggia e la risacca che torna indietro.»

    «Ma siamo a più di quaranta chilometri dal mare.»

    «Lo so, ma

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