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Quella solitudine immensa d’amarti solo io
Quella solitudine immensa d’amarti solo io
Quella solitudine immensa d’amarti solo io
E-book272 pagine4 ore

Quella solitudine immensa d’amarti solo io

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Info su questo ebook

Una famiglia, un neonato. Per i neogenitori, quella che dovrebbe essere un'avventura entusiasmante diventa poco alla volta un'esperienza terribile. A pesare su di loro sono i rapporti non risolti con i rispettivi genitori. La neomamma realizza che quello che avrebbe dovuto essere un rapporto d’amore (il suo con i genitori), e che in effetti è stato un legame di questo genere, in realtà si è sviluppato come una prova di forza e ha evidenziato inquietanti tratti di violenza psicologica. Ora la donna teme di far rivivere le stesse cose al proprio figlio e vorrebbe ribellarsi a questo destino.
LinguaItaliano
Data di uscita6 gen 2013
ISBN9788897268932
Quella solitudine immensa d’amarti solo io

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    Anteprima del libro

    Quella solitudine immensa d’amarti solo io - Paolo Pizzato

    io

    All that I know to be true

    Is the touch of your hand on my skin

    (Cowboy Junkies)

    Soft and low when the evening comes

    Holding you, spleeping in my arms,

    I remember there was a time

    When I used to sing for you

    (Tracy Chapman)

    romanzo

    di Paolo Pizzato

    Meligrana Editore - Priamo

    Copyright Meligrana Editore, 2013

    Copyright Priamo, 2013

    Copyright Paolo Pizzato, 2013

    Tutti i diritti riservati – All rights reserved

    ISBN: 9788897268932

    Il titolo di questo romanzo è una citazione dall’ultimo verso della poesia di Pedro Salinas La voce a te dovuta, traduzione di Emma Scoles, Einaudi, 1979

    L’immagine della copertina è un particolare tratto da Il compleanno di Marc Chagall del 1915 ed è stato vettorializzato con Photoshop da Marco Crestani.

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

    Priamo

    Centro Culturale Sant’Antonio delle Fontanelle

    Contrà Busa, 6

    36062 Conco fraz. Fontanelle (VI)

    Tel. (+39) 424 427098

    www.priamoedit.it

    info@priamoedit.it

    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Paolo Pizzato

    Quella solitudine immensa d’amarti solo io

    Il parto

    Da solo

    Insieme

    La vacanza

    Altro

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.

    Paolo Pizzato

    Paolo Pizzato, 43 anni, lavora da anni come redattore in un’agenzia di comunicazione di Milano. Alla scrittura si è avvicinato leggendo, con passione, convinzione, ostinazione. Molti gli autori che ama, su tutti Louis-Ferdinand Céline, Cormac McCarthy, Thomas Pynchon, William Gaddis, Leonardo Sciascia, Edith Wharton, Isaac B. Singer. È titolare di un blog di consigli libreschi che potete consultare all’indirizzo http://ilconsigliereletterario.blogspot.com. Ha scritto due romanzi e sta lavorando al terzo. La pubblicazione dell’ebook Quell’immensa solitudine d’amarti solo io, Priamo e Meligrana Editore, segna il suo esordio letterario.

    Seguilo su

    www.facebook.com/paolovitaliano.pizzato

    https://twitter.com/PPizzato

    Il parto

    Il pronto soccorso dell’ospedale era un semplice corridoio. Una striscia di marmo grigiastro chiusa da pareti di identico colore scrostate in più punti. Lungo i muri, file di sedie quasi tutte occupate e due piccole stanze, poste l’una di fronte all’altra, che senza sosta inghiottivano e rigurgitavano uomini e donne in camice bianco. Emma avanzò lenta, le gambe irrigidite dal dolore, gli occhi fissi sul semicerchio quasi perfetto del ventre, sul palpitare spasmodico del suo bimbo che stava per nascere. Accanto a lei, un ragazzo la reggeva tenendola per la vita. Fu lui a incrociare gli sguardi incuriositi delle persone in attesa del loro turno di visita; sembrava cercare qualcosa in quei volti sconosciuti, assenti, accesi di momentaneo interesse e un attimo dopo già lontani. Un sorriso, un cenno d’intesa, qualcosa, qualsiasi cosa riuscisse a non farlo sentire sperduto, ad allontanare la sua paura. Aveva occhi grandi e chiari il ragazzo, liquide macchie azzurre che incorniciavano un volto dai lineamenti regolari, quasi fanciulleschi. Lo si sarebbe detto giovanissimo, forse addirittura minorenne, non fosse stato per le rughe profonde agli angoli della bocca e la piega amara delle labbra.

    Quel ragazzo aveva conosciuto il dolore, non c’era dubbio. E il dolore aveva intriso di sé e corrotto il suo tempo, i suoi anni. Scostò con dolce cautela un ciuffo di capelli umidi di sudore dalla fronte di Emma e l’aiutò a sedersi, le sorrise e si chinò a sfiorarle le labbra con un bacio. Lei ricambiò il sorriso e un momento dopo si piegò, trafitta da uno spasmo.

    È il mio bambino, mio figlio, pensò lui guardandola, e sentì la paura crescergli dentro, intorpidirgli gli arti, paralizzarlo.

    Chiama un’infermiera, per favore, sussurrò Emma non appena riuscì a riprendere fiato, non resisto più.

    Assentì con il capo e le sfiorò una spalla prima di dirigersi verso una delle due stanze. Si fermò sulla soglia, bussò.

    Mi scusi, disse rivolto a un uomo seduto davanti a un computer, la mia compagna sta per partorire, deve essere ricoverata.

    L’uomo si alzò senza replicare, gli si fece accanto e guardò Emma. Era di nuovo piegata su se stessa, in preda a una contrazione, il respiro affannato che di tanto in tanto si faceva rantolo a stento trattenuto.

    Si accomodi pure accanto a sua moglie, disse in tono affabile, la chiameremo tra un momento.

    G-grazie, riuscì a balbettare il ragazzo prima di fare quanto gli era stato detto.

    Non appena fu accanto a Emma lei gli si strinse addosso. Era scossa dai brividi.

    Presto ci chiameranno, le disse nel tono più rassicurante che riuscì a modulare, non preoccuparti, andrà tutto bene.

    Abbandonata contro il suo corpo, Emma somigliava a un filo sul punto di spezzarsi.

    Quando l’infermiera venne a chiamare Emma, trovò i giovani ancora abbracciati.

    Venga con me, le disse cortese, la dottoressa deve visitarla.

    Emma la guardò smarrita per qualche secondo, come se non avesse compreso quel che le era stato detto, poi si alzò.

    Non si preoccupi, le disse ancora l’infermiera mentre aiutava Emma a stringersi al suo braccio, l’aiuto io. Cammini con calma, quando se la sente. Non si preoccupi, ripeté.

    Il ragazzo rimase seduto a guardare le due donne allontanarsi. Le fissò finché le forme dei loro corpi, fasciate dai vestiti, non divennero indistinte macchie di colore, finché gli occhi non iniziarono a lacrimare e a bruciare, poi si alzò di scatto, nascondendosi il volto tra le mani.

    A fior di labbra pregò per la donna che amava, per il loro bambino. Pregò che qualcuno ascoltasse le sue parole: Fa che vada tutto bene, tutto bene.

    Quasi non si accorse della sua mano che affondava nella tasca e afferrava il telefono cellulare. Le sue dita manovravano svelte il piccolo apparecchio; schiacciavano tasti e sul luminoso display rettangolare che fissava senza vedere si formavano parole: Siamo in ospedale, è cominciato il travaglio di Emma.

    Inviò il messaggio ai genitori e al fratello di Emma e si rimise il telefono in tasca. Lo sentì vibrare dopo qualche minuto. Erano le risposte, con ogni probabilità qualcosa di simile a grazie, arriviamo subito, oppure Oddio, arriviamo, magari con qualche punto esclamativo, così, giusto per sottolineare l’eccitazione che stavano provando. Il pensiero gli diede il voltastomaco, sentì un sapore amaro in bocca e represse a fatica un conato.

    Immaginò i parenti di Emma. Li vide scambiarsi eccitati sguardi d’intesa, prepararsi in tutta fretta per uscire, ascoltò i loro commenti puerili, snocciolandoli a voce appena percettibile e modulando il tono a ogni cambio d’interlocutore. Li seguì in auto, i volti simili a neutre lavagne sulle quali si succedevano senza sosta lacrime di commozione, risa isteriche, preoccupati corrucci e sognanti abbandoni. Sentì di odiarli. Sentì di essere così solo da rischiare di morirne. In quel momento Emma e il suo bambino non erano niente per lui.

    Il ragazzo non aveva nessuno cui mandare messaggi.

    Era figlio unico, non aveva mai conosciuto il padre, e sua madre l’aveva perduta quattro anni prima. Aveva vissuto con lei fino al giorno della sua morte. L’aveva amata immensamente, e altrettanto immensamente era stato riamato, anche se il loro rapporto non era stato semplice, né indolore. C’erano giorni in cui lei gli mancava più di qualsiasi altra cosa, e in quei giorni sarebbe stato disposto a rinunciare a tutto pur di riaverla indietro, anche per un solo minuto. In quei giorni si sorprendeva a girare per le strade cercando in ogni viso il viso di sua madre. Aveva bisogno di credere che gli fosse possibile incontrarla, che uno scherzo del caso, un arabesco del destino, potesse riunirli dopo anni di lontananza, allo stesso modo in cui si ritrova un vecchio amico dimenticato da tempo. In quei giorni non voleva vivere in un mondo capace di accettare l’assenza di quella donna, di abituarcisi persino.

    Lei non tornerà mai più. Mai più, capisci?, urlava una voce dentro di lui. Ma l’eternità era qualcosa che il ragazzo non riusciva a immaginare.

    Non esistevano misure né confini per parole come sempre o mai; e il ragazzo riusciva a concepirle esclusivamente come vertiginose astrazioni che lo riempivano di terrore. Lui desiderava soltanto poter riavere sua madre, come da piccolo aveva desiderato un gioco o una carezza; così anche quella volta, in quel corridoio d’ospedale, fece ciò che faceva sempre quando il ricordo di sua madre lo assaliva, chiuse gli occhi e le parlò

    Vorrei che fossi qui, mamma. Mio figlio sta per nascere, disse tra sé.

    Fu allora che l’infermiera lo chiamò.

    La prima cosa che vide quando entrò nella stanza fu Emma. Era seduta su una sedia a rotelle. Di fronte a lei, accomodata a una scrivania, una dottoressa le chiedeva conto della gravidanza e registrava le sue risposte al computer.

    Il ragazzo le si fermò a fianco. Le prese la mano.

    Si muove, si muove in continuazione, disse. Aveva gli occhi colmi di lacrime, la bocca contratta.

    Adesso ti portano in sala parto, resisti, replicò lui.

    Lei gli sorrise e fece cenno di sì con la testa, poi si carezzò il ventre con entrambe le mani.

    Il ragazzo la guardò. Osservò il suo corpo, riandò con la memoria ai cambiamenti che aveva accolto, qualche volta sopportato, alla meraviglia che aveva colorato il viso della sua compagna la prima volta che aveva sentito il bambino muoversi dentro di lei, al suo sguardo fisso sul monitor dell’ecografo, quando il bambino, che a fatica s’indovinava nell’indistinzione delle immagini prodotte dagli ultrasuoni, non era altro che una promessa, una pietosa, umanissima donazione di senso al domani, una scintilla di luce nell’oscurità. E comprese che Emma e suo figlio, anche dopo quel giorno, anche dopo la loro separazione, avrebbero continuato a essere una cosa sola; un solo corpo, un solo sangue, un unico amore. Comprese che ciò che legava madre e figlio non poteva essere interrotto né spezzato; era qualcosa di totalizzante, di esclusivo. E lui non ne faceva parte, non ne avrebbe mai fatto parte. La vita delle persone che amava, che in quel momento erano lì con lui, che in qualche modo avevano bisogno di lui e che l’avrebbero cercato, voluto, desiderato ancora e ancora, l’avrebbe solo sfiorato. Si trattenne dal carezzare le mani di Emma. Le sue mani di donna, di madre, di amante. Come se non avesse il diritto di farlo.

    Bene, signora, abbiamo finito, disse la dottoressa pigiando un’ultima volta sulla tastiera. Ora la portiamo in sala parto, continuò guardando l’infermiera al suo fianco, poi si rivolse al ragazzo.

    Lei prenda le cose di sua moglie, valigia e tutto il resto e salga al secondo piano, poi suoni alla sala parto, la faranno entrare. A proposito, intende assistere al parto?.

    Il ragazzo rispose di sì e la dottoressa si congedò da lui con una rapida stretta di mano.

    Rimase fermo qualche secondo davanti all’ampia porta colorata d’azzurro della sala parto, poi suonò il citofono. Rispose alla distorta voce metallica dell’infermiera di turno che gli chiedeva di cosa avesse bisogno dicendo il suo nome e quello della sua compagna e sentì lo scatto secco dell’apertura automatica. Spinse uno dei battenti e fu dentro, dinanzi a sé un ampio corridoio che dopo qualche metro svoltava a destra.

    Avanzò lentamente, senza sapere cosa fare.

    Prima di arrivare all’angolo si trovò faccia a faccia con un giovane ostetrico; aveva un viso bonario, dagli occhi grandi e puliti, parlava con voce pacata e i suoi movimenti, naturalmente aggraziati, tradivano una specie di innata eleganza. Il suo corpo era fasciato da un camice blu. Salutò il ragazzo stringendogli la mano, gli passò un camice identico al suo, spiegandogli che avrebbe dovuto tenerlo addosso per tutto il tempo in cui fosse rimasto lì, e infine dei soprascarpe di plastica.

    Qui non si può camminare senza queste, gli disse, mentre in tutto il resto dell’ospedale non si può circolare con queste. Perciò si ricordi di toglierle quando esce. Bene, ora venga con me.

    Il ragazzo lo ringraziò e si incamminò dietro di lui.

    Percorsero un corridoio in penombra, macchiato in qualche punto dalla luce che filtrava dalle finestre delle camere che si aprivano su di esso.

    Il ragazzo teneva lo sguardo fisso a terra. Intorno a lui, medici e infermieri erano al lavoro. Nessuno parlava.

    A tratti, l’innaturale silenzio di quel posto veniva lacerato dalle urla di chi stava partorendo. Differenti modulazioni di un’identica sofferenza.

    Urla, urla e ancora urla. Maledizioni, imprecazioni, incoraggiamenti, e infine il pianto sporco di sangue e umori della vita appena nata. Il segreto di quel che siamo rappreso in balbettanti soffi di fiato.

    L’ostetrico entrò in una stanza; il ragazzo registrò senza rendersene conto la presenza di due letti singoli, una poltrona e un tavolo.

    Sdraiata sul fianco sul letto più vicino alla finestra c’era Emma. Respirava a fatica e teneva le gambe rannicchiate nell’inutile tentativo di controllarne il tremore.

    Non appena vide il medico gli chiese aiuto.

    Non riesco a trattenere le contrazioni, disse, mi sembra che il bambino stia uscendo. Oddio, cosa devo fare?.

    L’ostetrico la guardò sorridendo e le palpò delicatamente la pancia.

    Quando sente arrivare la contrazione, disse, la assecondi. Spinga, ma senza esagerare. E si ricordi di respirare. Respiri, e vedrà che tutto andrà bene. Ora per favore si sdrai sulla schiena e allarghi le gambe, devo visitarla.

    Emma si sforzò di fare quel che le era stato chiesto. Le gambe tremavano senza sosta, era come se vivessero di vita propria; lei se ne vergognava, si rimproverava di essere debole, di non riuscire a controllare le reazioni del suo corpo, e non faceva che scusarsi con l’uomo chino su di lei.

    Non si preoccupi, rispondeva calmo l’ostetrico, pensi solo a respirare. Si concentri sul respiro e sulle contrazioni.

    Immobile al centro della stanza, il ragazzo guardava la scena.

    Semicoperta dal medico che la stava visitando, squassata dal dolore e dalle contrazioni, la sua compagna somigliava a una bambola rotta.

    Terminata la visita l’ostetrico si avvicinò a Emma. La dilatazione è completa, disse, il suo bambino ha fretta di nascere. Ora la portiamo in sala parto.

    Emma lo ascoltava senza smettere di fissarlo. Restava aggrappata a lui con tutte le sue forze.

    L’uomo la rassicurò una volta ancora. Non si preoccupi, andrà tutto bene, disse. Poi si voltò verso il ragazzo e lo invitò ad avvicinarsi a Emma.

    Gli disse di prenderle la mano, di carezzarla, di parlarle.

    Io vado a prendere il letto per trasportare sua moglie, sarò subito di ritorno, concluse, e un momento dopo era già scomparso oltre la porta della stanza.

    Allora il ragazzo parlò. Parlò alla madre e al bambino, raccontò loro quel che avrebbero fatto assieme, ne dipinse il futuro comune fin dove glielo consentì la sua immaginazione eccitata dalla paura e dal desiderio, sorrise e pianse.

    Poi fu come se ogni cosa perdesse consistenza e d’improvviso lo spazio si rapprese attorno a lui e a Emma.

    Adesso erano loro i confini del mondo e tutto quel che era in esso. Erano le urla di Emma, l’affanno del suo respiro, le parole di lui; e le loro mani che si stringevano per poi rilasciarsi e cercarsi ancora; e l’incontrarsi e il subitaneo allontanarsi dei corpi; e il liquido scorrere del tempo, la luce che inondava la stanza. Quando l’involucro che li conteneva si ruppe fu soltanto pianto. Il pianto cieco del loro bambino appena nato.

    Intorno a loro, medici e infermieri lavoravano senza sosta. Restituivano ordine al caos primigenio della nascita.

    Emma venne pulita, poi un dottore le si sedette di fronte, esaminò la situazione e le spiegò quel che le avrebbe fatto. Il parto è andato bene, disse, è stato veloce. E questo da una parte l’ha favorita, dall’altra però ha impedito ai tessuti di assecondare i movimenti di suo figlio. Così si è prodotta qualche lacerazione. Ora le mettiamo dei punti. Ci vorrà qualche settimana prima che tutto torni a posto, ma non abbia paura, le cose sono perfettamente nella norma.

    Mentre Emma ascoltava, i suoi occhi correvano dal viso del dottore al corpicino nudo di suo figlio. In braccio a un’infermiera, il piccolo dimenava braccia e gambe, e la bocca spalancata pareva voler inghiottire tutta l’aria della stanza.

    Era sporco di sangue, gli occhi erano chiusi e gonfi e il disegno del suo volto talmente fragile da far pensare che sarebbe stato possibile modificarlo semplicemente sfiorandolo.

    La donna lo lavò, lo pesò, lo vestì e lo avvolse in una coperta.

    Fece tutto in una manciata di minuti, poi si voltò verso il ragazzo e gli porse il figlio.

    Tocca a lei, papà, gli disse sorridendo.

    Solo allora lui si accorse che il piccolo aveva smesso di piangere.

    Tese le braccia per accoglierlo e il bimbo fu contro il suo corpo. E in quell’istante dubbi e paure scomparvero. Giornate, settimane trascorse a pensare a come sarebbe stato prendere in braccio il proprio figlio, a cosa avrebbe dovuto fare per non sbagliare, per essere un buon padre fin da quel primissimo passo, a quel che avrebbe dovuto dire in quell’occasione, si sciolsero nel loro primo abbraccio. Era padre; di nient’altro abbisognava in quel momento a parte di quel che era appena successo.

    Sentì le lacrime salirgli alla gola e chiese di potersi sedere. L’infermiera gli indicò una poltrona di pelle nera alle sue spalle.

    Benvenuto, sussurrò al bambino semisdraiato sulle sue gambe, la testa abbandonata tra il petto e la spalla, benvenuto amore mio.

    Nella tasca dei calzoni il telefono continuava a vibrare.

    Il mondo al di là della stanza, al di là di loro tre, era avido di notizie. Strinse ancora di più a sé il bambino, si abbandonò contro lo schienale della poltrona e chiuse gli occhi.

    Un’infermiera gli si avvicinò. Mi scusi, disse.

    Il ragazzo aprì gli occhi. Sì?, rispose.

    Hanno citofonato i suoi genitori, vorrebbero avere qualche notizia.

    Sono i miei genitori, interloquì Emma sdraiata alle spalle della donna. I miei, ripeté dopo un momento con voce stanca. L’infermiera si voltò verso di lei e la guardò senza replicare. Poi guardò di nuovo il ragazzo.

    A quel punto fu il medico che si stava occupando di Emma a intervenire. Io ho quasi finito con lei, disse, poi la porteremo all’ingresso, così i suoi genitori potranno vederla, e fare la conoscenza del loro nipotino. D’accordo?.

    Emma rispose di sì e lo ringraziò, e il dottore allora si rivolse all’infermiera. Sia gentile, le disse, vada a dire ai signori di pazientare ancora un momento. La donna annuì e scomparve.

    Emma, il viso rivolto al ragazzo e al piccolo che teneva in braccio, abbozzò un sorriso, poi il suo petto venne scosso dai singhiozzi e cominciò a piangere. Voltò la testa dall’altra parte nell’inutile tentativo di ritrovare la calma, poi si arrese.

    Il ragazzo accolse in silenzio il suo pianto sommesso, come di rugiada estiva.

    Osservò l’irregolare disegno lasciato sulla guancia dallo scorrere di una lacrima. La seguì fino alla fine del suo viaggio, finché non stillò da lei, dal suo corpo, finché non fu più Emma ma solo un’umida ombra su un lenzuolo.

    Posso accogliere il tuo dolore, pensò, posso contenerlo, sopportarlo, liberartene. Posso amarti. Sono pronto.

    Si alzò, avvicinò il viso a quello di suo figlio e ne ascoltò il respiro, poi si mise di fronte ad Emma.

    Ciao, le disse, siamo venuti a salutarti.

    Lei guardò il ragazzo e il figlio che aveva appena partorito spalancando i suoi occhi chiari lucidi di pianto, li guardò come mai prima di allora aveva guardato, e per un ultimo istante al mondo non furono che loro tre. Loro tre che bastavano a se stessi.

    Il medico terminò il suo lavoro ed Emma venne messa sullo stesso letto che era servito a trasportarla in sala parto. Un paio di infermiere l’aiutarono a sistemarsi e le rimboccarono le lenzuola, mentre una terza, alle sue spalle, sprimacciava tre cuscini.

    Se per cortesia alza la testa, le disse, le sistemo questi cuscini in modo che possa stare semisdraiata e tenere il suo bambino in braccio, se lo desidera.

    Emma fece quello che le era stato detto, e non appena fu pronta il ragazzo le porse il neonato. Aveva ancora gli occhi chiusi e le manine serrate a pugno abbandonate sul petto. Lei se lo mise vicino e ascoltò il suo respiro.

    Allora, le disse una delle infermiere, pronta a vedere i suoi genitori?.

    Emma assentì e la donna si mise a un capo del letto e cominciò a spingere.

    Il ragazzo si incamminò dietro di

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