Una musica, e nient'altro
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La notte tra il 31 dicembre 1899 e il primo di gennaio del 1900 una cittadina della contea di Frederiksborg, nel Regno di Danimarca, scivolò via dal mondo e scomparve per sempre. La cittadina si chiamava Dlischen. Conteneva molte storie, e ognuna di queste aveva un nome. Ma si dissolse portandosele dietro tutte. Nell’aria, sotto il cielo che era stato di Dlischen ma che ora non era più il cielo di niente, si sentì per molto tempo come una musica, soffice e morbida. Sembrava una carezza. Una carezza a lambire il nulla.
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Anteprima del libro
Una musica, e nient'altro - Matteo Rizzardo
UNA MUSICA, E NIENT’ALTRO
Matteo Rizzardo
Abel Books
Proprietà letteraria riservata
© 2011 Abel Books
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Abel Books
via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
ISBN 978-88-97513-14-8
a mio fratello,
ai miei genitori
e a Marco D. (1991-2009)
"Ciecamente, sto camminando
Non condurmi a casa
Lascia che la notte mi guidi
Sempre più lontano"
ULVER, Utreise
Questa è una storia che comincia dalla fine. È il modo migliore di iniziare, a volte.
La notte tra il 31 dicembre 1899 e il primo di gennaio del 1900 una cittadina della contea di Frederiksborg, nel Regno di Danimarca, scivolò via dal mondo e scomparve per sempre. La cittadina si chiamava Dlischen. Conteneva molte storie, e ognuna di queste aveva un nome. Ma si dissolse portandosele dietro tutte. Nell’aria, sotto il cielo che era stato di Dlischen ma che ora non era più il cielo di niente, si sentì per molto tempo come una musica, soffice e morbida. Sembrava una carezza. Una carezza a lambire il nulla.
- Luk!
- Da non credere.
- Che c’è?
- Come una tovaglia stesa su una tavola imbandita…
- Ma che diavolo?
- È svanita.
- È sparita, cazzo!
- …presa per i lembi…
- Vieni qui, George…
- …infagottata…
- No, no, è pericoloso, dove cazzo
- …e portata via…
- Che roba è quella?
- E questa musica…
- Eh?
- …è come un canto…
- Laggiù.
- …un’eco…
- Santoddio che accidenti è successo?
- Un’eco.
- Io me ne vado.
- Quando si muore.
- Venite, stronzi!
- L’eco della morte.
- Cacasotto!
- È così bella la morte?
- Col cazzo. Io me ne vado.
- È l’armonia del mondo.
- Non c’è più niente qua…
- Si sta scrostando dalla terra per alzarsi al cielo.
- Shhh, la sentite?
- Al cielo.
- Eh?
- Dlischen.
- Ehi, venite a vedere, vieni a vedere, Luk, guarda cosa ho trov
- Scomparsa.
- Sta zitto Albert!
- Per sempre.
- La sentite questa musica?
Prologo
Dunque. È sera.
E come ogni sera sembra che il mondo si stia preparando a morire, anche questa volta. Muoiono le case, e gli uomini che ci dormono dentro, muoiono i bambini e i sogni che entrano nelle loro teste, e muoiono il cielo e la terra e gli animali, e muore questo vento che non ne vuole sapere di smetterla di fischiare e muoiono i pochi alberi a fare da cornice e muore infine la luce del giorno, che anche oggi ha fatto il suo.
Domani. Domani tutto rinascerà. Ancora.
Ma c’è un uomo che non muore, questa notte.
È seduto in mezzo al nulla, sotto quella sera che scende come un velo pietoso, tra le mani tiene un violino, come se fosse una spada. Sta sfidando la notte a portarsi via anche lui. Sembra una stella che ha sbagliato sfondo, che è scivolata giù, non più incastonata nel cielo insieme alle altre ma finita chissà perché lì sotto, in mezzo al mondo che muore.
Quell’uomo.
Quell’uomo che non muore.
Quell’uomo che ha iniziato a suonare, sotto la sera.
In un istante, dalle corde del violino che tiene tra le mani si srotola via una musica bellissima, sale piano fino in cielo, fragile e vaporosa e leggera, sottile che sembra quasi spezzarsi. Fate piano che non deve rompersi – ti vien da dire, ma ovvio che ti trattieni, perché lì, sotto la sera che scende, ci deve essere solo quella musica, e se proprio devi parlare, che sia un bisbiglio, e che finisca presto.
Come in un viluppo che si disfa, le note di quella musica si alzano l’una dopo l’altra su fino in paradiso, decise di ripercorrere a ritroso la rotta della dannazione, e posarsi lassù, nel cielo buio, in mezzo alle stelle di un novembre immobile, in un punto immenso, che è dovunque. Hanno dentro la lentezza giusta delle cose che sanno arrivare lontano, quelle note, come i ricordi che si affidano al vento, perché la memoria dell’uomo non basta, a volte.
Musica come un mistero, in questa notte.
Staresti ore a guardarla, quella melodia, sbalorditiva come un ricamo nel nulla, lusinga colorata d’argento, perfetta come un cerchio che ha mille centri, mentre si incunea veloce tra le nuvole diaboliche e scivola lontana. Pare un filo di seta, che blocca cuciti insieme pezzi di cielo e li tiene attaccati al mondo.
Jeremiah T. Blondahl è il nome dell’uomo che non muore.
Sopra di lui, e tutt’attorno, la magia di una notte quasi iniziata.
E, a risuonare in eterno, musica, musica leggera e morbida, che inonda la mente neanche fosse acqua.
Come una carezza. Una carezza a lambire il nulla.
PARTE PRIMA
I.
Come dire. Sembrava una partita di scacchi. Una di quelle in cui tutti i pezzi sono stati catturati, e rimane solo il re, come un deficiente, a guardarsi attorno e a chiedersi contro chi cavolo combatto adesso? Se lo si fosse visto, Jesper J. Holkssom, mentre camminava alla sua solita maniera, in quell’immensa scacchiera di mattonelle bianche e nere, lungo il corridoio di un palazzo dimenticato dal mondo, non si sarebbe potuto che pensare a questo.
È l’unico superstite di una partita di scacchi sfociata in una carneficina.
Jesper J. Holkssom si muoveva con lo stesso ragionato meccanismo di una pedina. Magari non proprio come il re. Più che altro come il cavallo, con quei tipici movimenti a L, c’avete presente?, che ogni tanto alternava a rapidissimi cambi di direzione, neanche si ricordasse improvvisamente di essere un alfiere, o una torre.
Una solitaria pedina impazzita in una scacchiera sconfinata. Una luce fioca a illuminare il suo anonimo trionfo.
Robe da matti.
Vederlo camminare con quell’andatura a singulto, nel bel mezzo del corridoio di un palazzo reale, ti dava una sensazione strana.
Quello è un deficiente.
Jesper J. Holkssom aveva trentaquattro anni, portati malissimo, peggio di quella ventina di capelli impiastricciati che aveva in testa, era decisamente soprappeso e a volte sembrava fluttuare in un mondo tutto suo, ma non era un deficiente. Si dà anzi il caso che sia pure uno dei protagonisti di questa storia – ogni storia ha i protagonisti che si merita – e proprio perciò è abbastanza importante essere chiari a riguardo, insomma, essere sicuri che non fosse un deficiente, appunto. Perché se uno si mette a camminare in quel modo, magari semplicemente non ci sta più con la testa, capita, voglio dire.
Capita.
Ma non era il caso di Jesper J. Holkssom. Ecco, lui non era stupido, o matto, o strano. Se camminava a quel modo, un motivo c’era. Bastava capirlo.
E il fatto è proprio che non lo capisci, se non te lo spiegano, che ogni pavimento porta con sé un principio, detta un passo, un’armonia da seguire, basta saperle leggere, le mattonelle, e loro ti parlano, c’hanno come una regola scritta dentro, e tu a quel punto non devi fare altro che interpretarlo, il pavimento, e la camminata viene da sé, così, senza tanti preamboli.
passo lungo in avanti – passo lunghissimo in avanti – leggero passo indietro – passo lunghissimo a sinistra
Lui, Holkssom, che non era un deficiente, era uno che capiva. Era uno di quelli che prima di partire magari stanno pure dieci minuti fermi a guardare il pavimento che hanno di fronte. Fermi in piedi a leggere le mattonelle. E poi, quando hanno capito, partono. E così, Holkssom partiva, infilando un passo dopo l’altro, senza mai staccare lo sguardo dai suoi piedi, attento che non lo tradissero violando l’invisibile tracciato morale che solo lui sapeva vedere.
Eh no, le cose del genere, mica le capisci, se non te le spiegano prima.
Comunque eccolo lì, Jesper J. Holkssom, lungo il corridoio del palazzo ministeriale di Copenaghen, i pantaloni un po’ troppo corti, la camicia un po’ troppo stretta abbottonata alla bell’e meglio e la giacca un po’ troppo sgualcita, mentre camminava alla sua maniera. Un po’ cavallo, un po’ torre, un po’ alfiere.
Era come un gioco – sì, ma un gioco che avesse come una saggezza nel cuore, sottile e lieve, poetica, perfino –un uomo che si impegnava come un bambino, a misurare con implacabile gentilezza la lunghezza di ogni falcata,
passo lungo in avanti – leggero passo corto a sinistra – passo più corto a sinistra – passo lunghissimo a destra
tanto che, a vederlo – pedina impazzita sola nella sua scacchiera immensa, mentre calcolava la propria andatura come se fosse in mezzo a dei carboni ardenti, esitando, scattando, fremendo, tremando, saltando – ti veniva da pensare che forse la vita intera non è poi così incomprensibile, ti veniva da pensare che – forse – da qualche parte la si può anche iniziare a leggere, la vita, magari partendo proprio da lì, dal pavimento, che se ne sta fermo ad aspettare che qualcuno sappia leggerlo e
educatamente
calpestarlo.
Certo che poi, a volte, il mondo non si lascia mica leggere, anzi ti frega pure, e lì non c’è saggezza, non c’è gioco che tenga, si è persi, dannati, confusi, insomma, se tu glielo chiedevi, a Holkssom, lui magari ti diceva
- Ecco, il dilemma sbuca quando si cammina dove non ci sono piastrelle ma solo sassi, sassi, lì, mi capite, si va in crisi, i sassi, mica uno ce li ha messi là con un’idea precisa in testa, no? sono buttati per terra a caso, i sassi, come una manciata di grano data in pasto ai becchi delle galline, i sassi, mi capite, sono un problema, non descrivono nulla, i sassi, niente, né armonia, né trame ordinate, né principi da seguire, niente. I sassi sono solo disordine e imprevisto e contingenza.
I sassi non ce l’hanno mica, la saggezza nel cuore.
Fortuna che quella era un’altra storia. Senza sassi, imprevisti o contingenze. Solo un corridoio, un uomo, una partita di scacchi finita in eccidio e una lunga distesa di quadrati bianchi e neri.
passo lungo a destra – passo lunghissimo a destra – passo corto indietro – passo lungo a destra – stop
Una porta.
Rettangolare e marrone.
La partita era finita veramente, ora.
Holkssom entrò.
- Mi avete chiamato, Ammiraglio Sorensen?
- Holkssom.
- Ammiraglio.
- L’ho fatta chiamare, in effetti.
- Sono qui.
- Holkssom.
- Dite.
- Avete mai sentito parlare di Dlischen?
- Dlischen?
- Sì, Dlischen.
- Mi sembra sia una cittadina della contea di Frederiksborg.
- Lo è in effetti.
- …
- E cos’altro sapete di Dlischen, Holkssom?
- Io…so che è un posto bizzarro.
- Voi dite?
- Non l’ho mai visto.
- E come fate a sapere che è bizzarro?
- L’ho sentito dire.
- Ah, l’avete sentito dire?
- Sì, Ammiraglio.
- E che cosa avete sentito dire di preciso?
- Beh, so di aver sentito che la gente del posto arriva a vivere fino a duecento anni.
- Duecento anni?
- Duecento, sì.
- Non le sembra un pochino esagerato?
- Io…
- Voglio dire, diamine, duecento anni sono tanti.
- Già.
- Per un uomo solo, intendo.
- Decisamente.
- Crede sia possibile che un uomo possa vivere fino a duecento anni?
- Io, no, l’ho solo sentito dire.
- Lei lo vorrebbe?
- Che cosa, mi perdoni?
- Vivere fino a duecento anni.
- Beh, non ci ho mai pensato.
- Ci pensi.
- …
- …
- …
- Presumo sarebbe leggermente stancante, Ammiraglio.
- Presume bene, Holkssom.
- …
- Perché lo trovereste stancante? Spiegatemi, Holkssom.
- …
- …
- Voglio dire, già intorno ai sessanta iniziano i problemi.
- Esattamente.
- E arrivati agli ottanta non si è neanche più in grado di camminare o di fare ragionamenti lucidi.
- Appunto.
- Che poi, le cose peggiorano progressivamente.
- Progressivamente, già.
- Insomma, a ottant’anni ne avrei altri centoventi davanti.
- Vedo che lei mi capisce, Holkssom.
- Centovent’anni di ulteriori aggravamenti.
- Già.
- Cioè, uno arriva a duecento anni che è così rincoglionito che neanche si ricorda di averceli, duecento anni, e poi le sue gambe, e le braccia e la schiena si accartoccerebbero da far paura, insomma, non sarebbe mica una bella cosa, questa eh…
- Sono perfettamente d’accordo con lei, Holkssom.
- …
- E dunque, secondo lei, perché il buon Dio dovrebbe permettere all’uomo di soffrire un tale supplizio?
- Non saprei.
- Appunto, lei non lo sa. E nemmeno io. Nessuno.
- Nessuno.
- Neanche Dio.
- Neanche.
- Immagini di chiederglielo, a Dio.
- …
- Dio, perché ci fai vivere fino a duecento anni?
- …
- Se lo chieda. Lo chieda a Dio.
- Sì.
- Lui risponderebbe e chi DIAVOLO è che vi fa vivere fino a duecento anni?
- Presumibile.
- Non rientra nei piani di Dio, la vita fino a duecento anni, mi capisce Holkssom?
- Certo, Ammiraglio.
- Per cui, ‘sta storia della gente di Dlischen che vive duecento anni è una sciocchezza.
- Una sciocchezza, sì.
- Comunque è innegabile che siano molte le voci che giungono da quella cittadina.
- Già.
- Ed è mio compito tracciare il confine, no?, tra vero e falso, voglio dire.
- Certo signore.
- Magari tra tutte le cose false che si dicono qualcosa di vero ci sarà, no?
- Magari.
- Nella fattispecie, tra le miriadi di stronzate che si dicono di Dlischen ce n’è una che sembra meno stronzata delle altre.
- …
- Socialisti, Holkssom. Socialisti nascosti nell’ombra che tramano contro Sua Maestà Cristiano IX.
- A Dlischen?
- Sì. Io non so se sia vero o meno. È il mio compito, e dunque il suo, Holkssom, scoprirlo.
- Il mio compito, signore?
- Scoprire se è un’altra sciocchezza, tipo quella dei duecento anni, oppure se è dannatamente vero.
- …
- Vada a Dlischen, Holkssom. Parta subito. Ci resti tutto il tempo necessario. Mi dica che cazzo succede in quella cittadina. Mi dica se è vera ‘sta storia.
- Non mancherò, Ammiraglio Sorensen.
Saluto militare. Schiena dritta. Holkssom girò i tacchi, fece per lasciare la stanza.
- Ah, Holkssom.
Fermo.
- Sì, Ammiraglio?
- Stia attento.
- Certo signore.
- Un’altra cosa, Holkssom.
- …
- Mi serve una puttana.
Ecco. Sorensen. Due cose faceva nella vita. C’è chi non ne fa nemmeno mezza. Lui ne faceva due. Stava con le puttane e tracciava confini tra il vero e il falso. Una cosa la faceva per conto suo, l’altra per conto di Re Cristiano IX, chiaro. Di anni, Sorensen, ne aveva