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Non serve nascondersi
Non serve nascondersi
Non serve nascondersi
E-book108 pagine1 ora

Non serve nascondersi

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Info su questo ebook


«Non serve nascondersi, non esiste un posto per nascondersi in galera. Le voci viaggiano e s’infilano ovunque, superano la barriera delle mani che tieni premute sulle orecchie, come se fossero mosche che sono entrate dentro e continuano a volare con un ronzio che assorda.» Quattordici racconti in cui amore e morte si rincorrono, in cui la vita fluisce con forza e le emozioni travolgono i protagonisti, spesso regalando un finale sorprendente. Storie forti, che mostrano protagonisti nudi e soli di fronte al loro destino, perché non serve nascondersi… tanto la vita prima o poi ci trova.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2020
ISBN9788833860428
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    Anteprima del libro

    Non serve nascondersi - Marco Proietti Mancini

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Maledetti1

    La busta

    Figlio mio

    Insieme

    Risvegli

    Dondolo

    Ma non ci sentite?

    Al tramonto

    Ciao pa’

    Uomini di merda

    Check Out

    Il Natale di Antonio3

    Amanti a sorpresa

    Se Ulisse e Penelope fossero stati romani

    (Capriccio finale)

    Ringraziamenti

    golem / narrativa

    ©

    2019

    Miraggi Edizioni

    via Mazzini

    46

    ,

    10123

    Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Borgoricco (PD)

    nel mese di aprile

    2019

    da Logo srl per conto di Miraggi Edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream

    80

    gr

    Prima edizione digitale: maggio

    2019

    isbn

    978-88-3386-042-8

    Prima edizione cartacea: aprile

    2019

    isbn

    978-88-3386-040-4

    Se vuoi vedere le valli, sali in vetta a una montagna,

    se vuoi vedere la vetta di una montagna, sali su una nuvola,

    se invece aspiri a comprendere la nuvola, chiudi gli occhi e pensa.

    Kahlil Gibran

    Ai miei figli, che sono le mie nuvole più belle,

    anche quando portano le lacrime della pioggia.

    Questo libro è dedicato a tutti quelli che si sentono diversi.

    Siete diversi, siamo diversi, siamo unici. Siamo ricchi.

    Maledetti

    ¹

    Arrivano su barche vecchie e sporche, sono già sporche prima che ci salgano sopra, ma dopo che le hanno usate loro per arrivare fino a qui diventano peggio di porcili. Si ammassano come le bestie, ammucchiati, stipati dalle stive ai ponti, disposti a tutto pur di arrivare. È inconcepibile… bambini, vecchi, donne incinte… ma che cosa vengono a fare qui? Cosa si aspettano di trovare che non potrebbero avere a casa loro? A noi tocca lo stesso accoglierli e spendere soldi, curarli e nutrirli: fare tutto quello che serve per occuparci di loro.

    Scappano da casa loro perché si lamentano di starci male, ma poi quando arrivano qui e noi invece di cacciarli via ci occupiamo di loro, allora si lamentano perché facciamo loro domande, perché non li trattiamo bene, perché non capiscono la nostra lingua. Come se fossimo noi a doverci preoccupare di parlare la loro lingua! Come se fossimo noi ad averli invitati a venire!

    Si lamentano che devono aspettare troppo tempo sull’isola, che le stanze dove li accogliamo sono troppo piccole. Si lamentano che li disinfettiamo e li laviamo. Pretenderebbero che li facessimo camminare nelle nostre strade, in mezzo a noi, sporchi e puzzolenti, coperti delle loro cimici e pidocchi. Infetti delle loro malattie.

    Si lamentano che quel che diamo loro da mangiare non è abbastanza, che non è abbastanza cotto, che è quello che piace a noi e non quello che piace a loro. Come se dovessimo essere noi a preoccuparci dei loro gusti e dei loro gradimenti, come se fosse un nostro problema, una nostra responsabilità. Ma se stanno tanto male da noi, perché non sono rimasti a casa loro, a mangiarsi quel che vogliono?

    La cosa peggiore è quando si sentono i padroni. Quando entrano nella nostra terra e iniziano a vivere qui. Siete mai passati in un quartiere dove si sono stabiliti? È impossibile viverci per noi, diventa un inferno. L’inferno in casa nostra.

    Perfino l’aria diventa irrespirabile in quei quartieri e per quelle strade, puzza dell’odore delle loro case, della loro pelle, della loro cucina. Se non va bene quello che mangiamo noi e devono far arrivare quella roba da casa loro, potevano rimanerci, a casa loro.

    Solo a vederli fanno senso, con la pelle più scura nella nostra, i capelli neri, sempre unti e lustri. Come si può pensare di farli vivere accanto a noi? Di lasciare che mandino i loro figli nelle scuole con i nostri figli? Di lasciare che frequentino i nostri posti? Non vogliono accettare di cambiare le loro usanze, i loro rituali e pretendono che noi li accettiamo, che noi li rispettiamo.

    Non si fidano delle nostre leggi, rifiutano di imparare la nostra lingua. Si fanno giustizia da soli e si sono portati dietro le loro mafie, le loro protezioni, che adesso vengono a fare legge anche alle nostre persone, ai nostri negozianti, alle nostre aziende.

    Avete mai provato a entrare in una delle strade dove vivono? Ti fissano come se quelli strani fossimo noi. Ti seguono con lo sguardo e quando passi vicino a un gruppo di loro che sta parlando si zittiscono e non ricominciano a parlare fino a quando non ti sei allontanato.

    Le nostre strade, la nostra città: ne diventano loro i padroni. Aprono negozi, pagando in contanti per cacciare via i vecchi proprietari. Iniziano a vendere a dei prezzi che non si sa come possano farli. Come possono reggere gli altri negozianti onesti? Dopo un po’ devono chiudere e in quella strada, in quella zona, i negozi diventano tutti i loro, con le insegne scritte nelle loro lingue, con la roba che chissà che robaccia è, da dove viene, come la producono. Sono sporchi, sono infetti, puzzano, sono pieni di chissà quali malattie.

    Ci rubano il lavoro perché sono disposti a lavorare per meno di quanto non sia giusto guadagnare; ci rubano le strade, le case; si fanno ricchi con la nostra immondizia e noi li ripaghiamo a peso d’oro.

    Ci costano in sicurezza, in Polizia, in assistenza, in ospedali per assisterli, in tasse che noi paghiamo e loro non pagano, anche se usano i nostri servizi. Ci costano nella paura che dobbiamo avere di uscire di casa, soprattutto la notte. Se una delle nostre figlie incontra qualcuno di loro, non si sa cosa può succederle.

    Adesso stanno iniziando a pretendere di avere le loro Chiese, i loro preti, di fare festa nei giorni che sono di festa per loro e lavorare nei giorni che sono di festa per noi. Non riconoscono i nostri Santi, ma vogliono che onoriamo i loro.

    Non siamo più i padroni. I padroni stanno diventando loro. Dobbiamo fermarli adesso, subito. Non lo capite che è un’invasione? Non capite che se non li fermiamo subito, poi sarà troppo tardi? Finirà che comanderanno loro, che avremo governanti con la pelle del loro colore, con i loro nomi impronunciabili. Finirà che i nostri figli sposeranno le loro figlie e che nascerà una razza bastarda e meticcia.

    Maledetti italiani, spero che affoghino tutti prima di arrivare qui.

    New York City, 1912

    La busta

    Sta scritto lì. Dentro quella busta bianca con la chiusura a strappo. Con un sigillo incollato sui lembi, per essere sicuri che nessuno prima di te legga quello che c’è scritto su quel foglio nascosto dentro. Un foglio bianco come la busta. Sporcato dall’inchiostro nero. La chiamano «privacy», ma a me pare più un sublime e mostruoso atto di egoismo e di vigliaccheria.

    Lasciare una persona sola, di fronte alla possibilità di scoprire che la sua vita è travolta, distrutta. Senza neanche il conforto di poter condividere la tragedia o la felicità.

    Il mio nome fuori. Il mio nome sarà anche dentro. Lo sguardo opaco e ottuso della donna che mi porge la busta, tendendo la mano verso di me, infilandola dentro la fessura che sta alla base del vetro che ci separa. Separa la sua indifferenza dalla mia ansia. Per lei non cambia nulla, per me potrebbe cambiare tutto, solo un vetro a separare la speranza dalla disperazione.

    Per un istante sfioro con i miei occhi i suoi, poi li distolgo, per non rischiare di vedere riflesso il mio volto e sapere qual è la mia espressione. Per la paura di riconoscere la mia paura. Giro lo sguardo, fingo di essere forte, anche se non riesco a fermare il tremito delle dita mentre afferro la busta, la tiro verso di me mentre lei la lascia andare.

    Concentro tutta la mia attenzione su particolari senza senso, inutili da notare in questo momento. Forse

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