Milano la Verde
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In questi ultimi anni, Milano è riuscita a costruire alcune parti urbane e ad accrescere il suo patrimonio di parchi territoriali e giardini che, per qualità insediativa, possono senza dubbio essere paragonati agli esempi più significativi costruiti in ambito europeo. Milano inizia ora a essere considerata non solo una capitale economica e industriale, ma anche una città attrattiva per la qualità della vita che offre ad abitanti e visitatori.
Il libro, con il contributo di Sebastiano Brandolini, Alessandra Coppa, Edoardo Croci, Gian Arturo Ferrari, Alessandro Maggioni, Carlo Masera, Giovanni Maria Paviera, Paolo Pomodoro, si interroga anche sui destini futuri della città, in vista di configurare una nuova identità di “Milano Metropoli Verde”.
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Anteprima del libro
Milano la Verde - Giuseppe Marinoni
Giuseppe Marinoni
Milano la Verde
ISBN: 978-88-99165-40-6
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Prefazione - Gian Arturo Ferrari
Milano la Verde - Giuseppe Marinoni
FORUM
Sebastiano Brandolini - Tre scenari?
Infrastrutture verdi a Milano - Alessandra Coppa
Alessandro Maggioni - Monade o locomotiva?
Carlo Masera - Riserve urbane
Giovanni Maria Paviera - Esigenze abitative e sviluppo delle città
Paolo Pomodoro - Scale e Progetti
ATLANTE
Parco Nord Milano - fotografie di Carlo Masera
Grande Bicocca - fotografie di Giovanni Chiaramonte
Parco Media Valle Lambro - fotografie di Carlo Masera
Porta Nuova - fotografie di Marco Garofalo
Porta Vittoria - fotografie di Marco Garofalo
Parco Forlanini - fotografie di Marco Garofalo
Santa Giulia - fotografie di Marco Garofalo
Parco Agricolo Sud Milano - fotografie di Carlo Masera
Symbiosis - fotografie di Filippo Romano
CityLife - fotografie di Filippo Romano
Nuova Portello - fotografie di Giovanni Chiaramonte
Parco delle Cave - fotografie di Giovanni Chiaramonte
Boscoincittà - fotografie di Filippo Romano
Cascina Merlata - fotografie di Vilma Cernikyte
Postfazione - Edoardo Croci
Bibliografia
SMownPublishing
Corso Sempione 36, 20154 Milano
www.studiomarinoni.com
www.smownpublishing.com
studio@studiomarinoni.com
© Copyright 2019 StudioMarinoni, Milano Tutti i diritti riservati
Collana / EUROPEAN PRACTICE / 30
Direttore: Giuseppe Marinoni
Comitato scientifico: Annegret Burg, Giovanni Chiaramonte, Kurt W. Forster, Luigi Mazza, Giuseppe Marinoni, Luis Raúl Moysén Mason, João Nunes Ferreira, Santiago Quesada, Pierluigi Salvadeo Ideazione del libro: Giuseppe Marinoni
Testi: Sebastiano Brandolini, Alessandra Coppa, Edoardo Croci, Gian Arturo Ferrari, Alessandro Maggioni, Giuseppe Marinoni, Carlo Masera, Giovanni Maria Paviera, Paolo Pomodoro
Fotografie: Vilma Cernikyte, Giovanni Chiaramonte, Marco Garofalo, Carlo Masera, Filippo Romano
Progetto grafico e copertina: Vilma Cernikyte
Coordinamento scientifico elaborazione mappe: StudioMarinoni
ISBN 978-88-99165-40-6
Prefazione - Gian Arturo Ferrari
In Due di due, un bel romanzo del 1989, ambientato però più di dieci anni prima, Andrea De Carlo racconta che uno dei protagonisti decide a un certo punto di andarsene da Milano perché non sopporta più la sua bruttezza, l’aria polverosa dei suoi viali, lo squallore delle centinaia, migliaia di edifici anonimi tirati su alla bell’e meglio nel dopoguerra. Andrea De Carlo è figlio di Giancarlo De Carlo, l’architetto, sa di che cosa parla. Ed è vero che gli anni Sessanta-Settanta hanno rappresentato un punto decisamente non eccelso nell’immagine complessiva della città e soprattutto nella sua comune e largamente condivisa percezione. Così come oggi l’elogio anche estetico di Milano è talmente ripetuto da diventare uggioso, allo stesso modo allora si conveniva pressoché universalmente che Milano era brutta. Piena di virtù, per carità, ma brutta. Una ragionevole media tra questi due estremi porta a concludere che a differenza di tante altre città italiane Milano non ha, o non ha avuto, una preponderante vocazione alla bellezza.
Perché? Una ragione elementare è senza dubbio il fatto di non essere mai stata sede - in età moderna s’intende - di un potere politico pieno, forte, autonomo. E del suo conseguente bisogno di rappresentarsi, di rendersi visibile. Milano non è mai stata una capitale. Torino, Venezia, Firenze, Napoli, per non dire Roma, lo sono state e prima anche Mantova, Ferrara, Genova e via dicendo. Da qui la loro impronta univoca, il carattere compatto, lo stile inconfondibile. La bellezza. L’unico potere politico che ha cercato di dare un volto e un senso a Milano è stato quello napoleonico, che l’ha concepita come un tentacolo di Parigi, esteso dai passi alpini fino al proseguimento degli Champs-Élysées (l’attuale Corso Sempione) e poi sotto l’Arco della Vittoria (dagli austriaci ribattezzato Arco della Pace) fino a terminare, appropriatamente, nel Foro Bonaparte. Ma la tendenza all’understatement architettonico propria di Milano ha investito anche la borghesia nel momento della sua maggior gloria e prosperità, ossia nel periodo postunitario. In una città come Barcellona, per molti versi simile a Milano - origine commerciale, sviluppo industriale e finanziario - l’impeto ascensionale della borghesia in pochi decenni cambiò completamente il volto e il disegno della città. Sia dal punto di vista urbanistico, sia da quello architettonico, fino a creare un’identità unica. Al contrario, la grande borghesia milanese, mentre rinunciava di fatto all’egemonia politica sul neonato stato nazionale, rinunciava anche a costruirsi la propria città, a sua immagine e somiglianza. Non seguiva i catalani, si accodava con mezzo secolo di ritardo a Viollet-le-Duc per quanto riguardava la dimensione pubblica e per quanto riguardava quella privata cercava di far passare per virtuosa modestia la propria angustia mentale.
La più grave conseguenza di questa pochezza strategica è l’assenza di un tessuto urbano non diremo omogeneo, ma perlomeno riconoscibile. A sua volta la mancanza di identità, di regole identificative, mentre favoriva le soluzioni ad hoc, la progettualità puntiforme, induceva una trascuratezza in primo luogo psicologica che si è poi man mano tradotta in una sorta di disprezzo per la manutenzione. Siccome il tessuto non veniva sentito come nostro, che andasse pure in malora. Per lungo tempo, si parla di decenni, Milano è stata una città tenuta male, tenuta molto male. In questo generalizzato tener male quel che è stato tenuto peggio, anche qui per decenni, è senza dubbio alcuno il verde. Non è affatto vero che a Milano non ci sia verde o ce ne sia troppo poco. Il punto è che in passato è stato tenuto malissimo e che ancor oggi siamo abbastanza lontani da uno standard accettabile, quello delle città europee con noi confrontabili. Certo, il tema di questo volume è di ben altro livello e si pone un obiettivo ben più ambizioso, non solo quello di trasformare Milano in una città verde, ma di fare di questo tratto la caratteristica fondamentale e identificativa della nuova città. Non una
città verde, ma la verde
. Tuttavia perché un simile progetto si realizzi occorre qualcosa di più, o forse di meno. Occorre partire dal basso, dal minimo, dai sentimenti elementari. Milano non diventerà la verde
per decreto, per un’ordinanza comunale, per le scelte di un pool di investitori. Lo diventerà se i milanesi si ri-affezzioneranno alla loro città, al loro verde, se se ne occuperanno, se porranno attenzione a come viene tenuto, se lo sentiranno come proprio, se lo cureranno. Il primo concreto passo verso la verde
e insieme il primo segno di una sensibilità cambiata lo si vedrà nella cura degli alberi con le radici seppellite nell’asfalto, nell’insistere perché aiuole e prati vengano irrigati e non lasciati desertificarsi, nel far sì che il giusto uso del verde non si trasformi nella sua distruzione.
Siamo alle isole. La prima impressione, scorrendo gli interventi descritti e illustrati in questo volume, i progetti realizzati, le trasformazioni attuate, è che vi siano cose molto interessanti e molto belle, ma ognuna per proprio conto. Ognuna è un’isola. Ora, nessuno rimpiange i piani quinquennali e nessuno pensa a un iperprogetto articolato e declinato localmente. Ma la meta dovrebbe essere una lingua comune, nella quale ci si possa sì esprimere in tutta libertà, ma con la quale ci si possa anche parlare, intendersi. Milano la verde non ha ancora questa lingua comune, ognuno si esprime con orgoglio in un proprio idioma, molto concentrato su se stesso, cercando forse più una diversità che una sintonia sentita come costrittiva e alla fine falsa. Tutto questo è comprensibile e probabilmente inevitabile, siamo ancora all’inizio, grandi scelte devono ancora essere compiute. Ma è bene evitare di riprodurre errori già commessi in passato. Il modello a macchie di leopardo, ciascuna chiusa in sé, con una logica tutta interna, è già stato perseguito con scarso successo. Oggi che le macchie sono maggiori di numero e di dimensione rischiamo che non si veda più