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Breve storia di Milano
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E-book393 pagine4 ore

Breve storia di Milano

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La città meneghina come in un romanzo: eventi, curiosità e personaggi

Milano ha una storia sorprendente, che le permette di guardare al futuro con speranza e fiducia. Milano, però, ha anche scarsa memoria e raccontarne le vicende, evocare i grandi personag­gi e gli eventi che ne hanno determi­nato fortune o sfortune, riserva sempre qualcosa di inatteso. Questo libro è un viaggio che tocca con leggerezza ogni corda dell’anima cittadina. Non man­ca l’indispensabile – dall’impero ro­mano alle guerre mondiali, dal vescovo Ambrogio a Leonardo, da Napoleone a Bettino Craxi –, ma una città non è solo questo. Bisogna narrare le leggen­de, svelare le storie dei luoghi nascosti e amati, tornare alle bellezze dell’arte, della letteratura, della musica; si deve raccontare come a Milano, nei secoli, si abitava, si lavorava, come si faceva musica o si cucinava, cosa si sperava e perché ci si innamorava. Così queste pagine scoprono soprattutto – tra una cotoletta, un’aria di Giuseppe Verdi e una partita allo stadio Meazza – cos’è che ancora fa brillare gli occhi ai mila­nesi quando dicono «Milano».

La grandezza di Milano dalla fondazione a oggi

Tra gli argomenti trattati:
Le leggende della fondazione
Milano capitale dell’impero romano
Il grande vescovo Ambrogio
Sotto il regno longobardo
Ariberto: il papa del nord
Della Torre contro Visconti
Il ducato e il duomo
Alla corte degli Sforza
La dominazione spagnola
Maria Teresa rivoluziona la città
Una capitale per re Napoleone
Le cinque giornate
L’epoca delle esposizioni
Socialisti contro fascisti
La vita sotto le bombe
Il miracolo economico
Gli anni di piombo
Da Garofano city a Tangentopoli
La Milano che sale
Riccardo Ferrigato
È scrittore, traduttore, consulente edi­toriale e documentarista. È autore di Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro (2018), Ecco chi sei. Pio La Torre, nostro padre, scritto con Filippo e Franco La Torre (2017), e della biografia Sergio Mattarella. Il presi­dente degli italiani, scritto con Giovanni Grasso (2015).
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2020
ISBN9788822744845
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    Anteprima del libro

    Breve storia di Milano - Riccardo Ferrigato

    Introduzione

    Milano è un cuore

    Milano va veloce.

    La città che nel marzo 2008 si è aggiudicata l’Esposizione universale, da ospitare sette anni più tardi, sembra un verbo al passato remoto, di quelli che lì si usano con parsimonia. Il sindaco di allora, Letizia Moratti, aveva promesso e ottenuto il ritorno del capoluogo lombardo alla vetrina dei grandi eventi, ma amministrava una metropoli che aveva smarrito la «via maestra che l’ha resa grande», come scriveva «la Repubblica» nel 2005, «soprattutto perché non ha più un modello e sembra incapace di produrlo». Non mancavano denaro né competenze, si difettava di qualcosa che restituisse un significato più profondo al lavoro e al benessere. Milano, la più ricca d’Italia, «al di là di qualche cubetto di porfido rimesso, pilastro pitturato, cestino lucidato, resta quella di prima: disordinata, trafficata, invasa dalle ruspe e piena di cantieri non finiti». Così nel 2007. O, ancora peggio, quando ci affondava la penna Curzio Maltese: «Il grigiore e la noia delle periferie hanno invaso il centro: la città non è mai stata così anonima e invivibile».

    La strada per Expo 2015 fu una rincorsa affannosa e accidentata. Al netto delle attenuanti – la crisi dei mutui Subprime o il terremoto dell’Aquila, per il quale si dirottarono altrove fondi destinati a Milano –, i ritardi nell’acquisizione delle aree, le accuse di corruzione, la pubblicazione del primo bando a tre anni e mezzo dall’assegnazione, l’inevitabile commissario straordinario che, a un passo dal baratro, dovette condurre a termine il progetto, quasi sfatarono il mito dell’efficienza meneghina. Quando nel 2015 il sindaco Giuliano Pisapia inaugurò i padiglioni con quella frase – «Ce l’abbiamo fatta!» – vi risuonavano in egual misura orgoglio e sollievo. E, benché difficilmente lo si ricordi, l’Expo non andò come previsto. Molti progetti restarono irrealizzati. La Biblioteca Europea – centro culturale di interesse internazionale – è ridotta a una raccolta digitale; il Cerba, polo per la ricerca e la cura, è archiviato – ora si aspetta lo Human Technopole, da inaugurare negli spazi che furono di Expo; il reticolo delle vie d’acqua e delle vie di terra è stato sfrondato; delle due nuove linee di metropolitana promesse ne è stata realizzata solo una, la M5. La M4 ora è quasi pronta, la M6 è un miraggio. Eppure, se chiedete a chi ci vive cosa abbia fatto di Milano «la più evoluta, ricca e brillante città d’Italia, una delle più desiderabili al mondo» (Antonio Scurati, «Corriere della Sera», 2020), vi risponderà quasi certamente «Expo 2015».

    Non importa che ci siano arrivati col fiato corto e i preventivi lievitati, o che si arrossisca a rispolverare i rendering del 2008, o che ancora non si sia chiusa la coda giudiziaria che l’organizzazione dell’evento ha generato: Milano e la Lombardia hanno avuto un’occasione irrinunciabile, subito elevata a fissazione collettiva. Per anni, che fosse una riunione o un aperitivo, la conversazione deviava sempre su Expo – per i francofili Expó – andando poi a squadernare mirabolanti progetti, idee, visioni. Le istituzioni hanno creato un orizzonte; i privati si sono lanciati all’assalto.

    Funzionò. Milano si dimostrò vivace, dinamica e persino – aggettivo che da tempo nessuno le attribuiva – bella.

    Uno degli edifici che rappresentano la nuova Milano: la Torre UniCredit (fonte: Wikipedia, su licenza CC BY-SA 2.0).

    Nel secondo decennio degli anni Duemila l’adagio che i romani mandavano a ripetizione – «La cosa più bella di Milano? Il treno per Roma» – è caduto in disuso. La città di Ambrogio, raccogliendo quanto seminato negli anni di «grigiore e noia», ha cambiato volto. Davvero. La Darsena, abbandonata dal trasporto fluviale dagli anni Settanta, ha riaperto nel 2015 dopo un anno e mezzo di ristrutturazione; il progetto di CityLife ha dato nuovo lustro all’area della Fiera; piazza Gae Aulenti attira i turisti con le Reflex e i milanesi per lo Sbagliato dopo l’ufficio – lo Sbagliato, copyright bar Basso, 1968 –; il Bosco Verticale è il nuovo simbolo di Milano nel mondo. E anche se l’Albero della Vita langue alla Fiera di Rho, nessuno sembra farsene un cruccio.

    Impressiona la lunga teoria di grattacieli per questa quasi inedita «città che sale». Per mezzo secolo il Pirellone è rimasto incontrastato, ma dal 2010 si è visto superare nell’ordine da Palazzo Lombardia, Torre UniCredit, Torre Diamante e Torre Solaria, cui si sono aggiunte le tre vette di CityLife, la Isozaki, la Hadid e la Libeskind, ribattezzate rispettivamente il Dritto, lo Storto e il Curvo. Una fuga verso l’alto, uno scatto proprio mentre il resto del Paese registrava difficoltà e sofferenze. E così, per questa città accogliente a modo suo, dove tutti possono dirsi milanesi perché quasi nessuno lo è, sono tornate in auge le eterne etichette: altezzosa e arrogante. Tra gli altri, il ministro per il Sud Beppe Provenzano: «Milano non restituisce nulla al Paese». Lo ha detto nel 2019, mentre la città si aggiudicava i Giochi olimpici invernali insieme a Cortina e rimetteva a nuovo l’aeroporto di Linate senza ritardarne la riapertura nemmeno di un giorno.

    Milano ha l’aria da prima della classe, non è una novità. Anche per questo, dopo un decennio da treno in corsa, la frenata è stata brusca. Nel febbraio 2020 la Lombardia, prima in Europa, ha scontato gli effetti del Covid-19, la malattia diffusa dal virus che ha causato la prima pandemia del terzo millennio. Tutto si è fermato. Milano non è stata la più colpita – più tragico il computo delle vittime nella bergamasca, nel bresciano e nel lodigiano –, ma qui si è temuto il peggio: se il virus si fosse diffuso massicciamente nella metropoli, il sistema sanitario – che nell’occasione ha fornito ampia dimostrazione delle sue pecche – sarebbe collassato in un amen. Il sindaco Beppe Sala, già commissario straordinario per Expo 2015, l’ha chiamata «la battaglia di Milano». Con la maggior parte della popolazione segregata in casa, si è consumata la ferma forzata di ogni attività.

    «Düra minga, düra no», cantava il personaggio di un carosello della China Martini, ma che Milano dovesse fermarsi così nessuno lo immaginava. Alla ripartenza sono rimaste cicatrici e paure; alla fiducia si è sostituita l’incertezza.

    La città che va veloce non si guarda alle spalle, non conosce il passato remoto. Per questo, anche quando le servirebbe, quasi non ricorda come da secoli superi ogni crisi ritrovando in sé e nella propria identità – aperta e concretissima – le forze per attraversare i tempi peggiori. Questo dice la sua storia: quando Milano ha guardato al futuro con mente aperta, non ha fallito.

    Roma è un grande museo (Alberto Sordi), Venezia è un pesce (Tiziano Scarpa) e Napoli è un paradiso abitato da diavoli (Benedetto Croce). Le etichette distorcono la realtà perché una città è un corpo complesso, vive di contraddizioni. «Milano è così difficile da dire» scrive Alberto Rollo, che poi mette in guardia da qualsiasi pretesa comprensione della sua anima nascosta. Tuttavia, se proprio ci si deve provare, perché anche la metafora tocca le sue corde di verità, allora quella ambrosiana è la seguente: Milano è un cuore.

    Nessuno in città la prenderebbe sul melodrammatico. Niente Milan col coeur in man, che di tempo per le smancerie ne abbiamo poco. Milano è un muscolo cardiaco, ma detta così nessuno ci avrebbe fatto un titolo.

    È un motore biologico dal battito incessante, collega i viventi e i loro luoghi, pompa come centro colossale e, pertanto, è il solo posto da cui si deve per forza transitare: lasci qualcosa e altro porti con te. Passare da Milano non è mai un semplice attraversamento. Qualcuno si ferma. Una, due o tre generazioni: raramente è per più tempo. Milano è un cuore che si alimenta delle speranze di donne e uomini, delle suole consumate per raggiungerla, del suono di voci arrochite senza averla saputa raccontare. Milano è quello che si muove fuori e dentro quando la chiamiamo; è una voglia strana, profonda, di cederle forza perché continui a battere anche per noi, anche con noi. Milano è uno sforzo collettivo.

    Finché resterà cuore di una rete, connessione imprescindibile per una comunità che oltrepassa la sola città, che si presenti al di là della tangenziale il nuovo Barbarossa, che marci compatta un’orda di Burgundi alla sua conquista: finché Milano sarà un cuore neppure a loro, questa volta, presenterà la resa.

    1

    La lavagna delle infinite storie

    Una città ha dei confini, una linea più o meno regolare che ne percorre la circonferenza; segni per burocrati che non distinguono il dentro dal fuori. Come contenere una città? È una medaglia a dieci facce, una bilancia dalle cento braccia, la tela di un ragno inappetente che ospita milioni di insetti. Una città è un mistero, ma per raccontarlo – non per comprenderlo, si badi bene, perché altrimenti non sarebbe un mistero – bisogna pur partire da qualche parte. Se c’è sempre la possibilità di sentirsi domandare: «Cosa è successo prima?», un racconto come il nostro può avere inizio quando non si può più rispondere. Non che la storia sia davvero cominciata lì, ma appena più in là il nostro sguardo si perde nelle tenebre.

    Di solito la si racconta così: una popolazione celtica, gli Insubri, tra il 600 e il 500 a.C. diede vita a un villaggio di cui quasi non resta traccia, un modesto agglomerato di persone, animali, abitazioni e masserizie, un paesello piuttosto misero fondato quando già in Asia Minore si filosofava su quale fosse l’origine del mondo. Di questa presenza celtica a Milano non restano case, templi o palazzi. Quegli uomini costruivano mura in legno, delimitavano i confini con fossati e filari di alberi: era tutto deperibile e, infatti, è tutto deperito. Abbiamo una vaga idea di quali riti funebri praticassero perché altrove gli archeologi hanno rinvenuto delle tombe; altrove, non a Milano. Di celtico in città non troverete quasi nulla, correndo il rischio di convincervi che tutto, qui, sia iniziato col trambusto di zoccoli e ferraglia che annunciò l’arrivo delle legioni della Repubblica romana.

    Ecco, i romani. Furono i loro storici, secoli dopo, a interrogarsi sulla presenza del popolo celtico in Italia – loro però li chiamavano galli – e, grazie a un’eredità ancora piuttosto fresca, formularono risposte attendibili anche se imprecise. Popolazioni celtiche, provenienti da territori transalpini compresi per la gran parte nell’odierna Francia, superarono le Alpi occidentali e calarono nella pianura padana. Arrivarono alla spicciolata: non erano un gruppo coeso, ma una serie di clan che in tempi diversi passarono le alte montagne. Quando divennero minacciosi, si scontrarono con chi già popolava le piane ai piedi dei monti – liguri ed etruschi. Tra il

    VI

    e il

    V

    secolo a.C. si stabilirono tra il Ticino e l’Adda, in corrispondenza delle vie di comunicazione che univano pianura e montagne. Si dice che il villaggio di Milano sorse circa un secolo e mezzo dopo la fondazione di Roma, ma è probabile che vi fosse qui un insediamento precedente. Forse un tempio, attorno al quale poi si riunì una comunità.

    Inquadriamo il villaggio che ci interessa: si snodava qualche metro sotto i piedi dei turisti che nel

    XXI

    secolo visitano il centro di Milano. Nei pressi di Palazzo Reale gli archeologi hanno riportato alla luce resti di una fornace risalente al

    V

    secolo a.C.; osservando il tracciato di alcune strade che indicano un’ellisse attorno a piazza della Scala, c’è chi ha ipotizzato lì la presenza di un grande santuario. Certo è che il villaggio non si chiamava Milano. Il suo nome era Medhelan, poi latinizzato in Mediolanum. Med- corrispondeva al medio- latino; -helan a -planum: era quindi il centro della pianura, la terra di mezzo rispetto al territorio occupato dagli Insubri. Una seconda ipotesi traduce Medhelan con santuario centrale, ma questa versione è meno attestata.

    Medhelan era un nome banale: i millenni hanno risparmiato altre due località battezzate allo stesso modo, le odierne Melano nel Canton Ticino e Miolans, in Francia, poco distante da Chambéry. Tuttavia quel nome mette a fuoco le fortune della città. Chiunque abbia posato la prima pietra di Milano elesse un privilegiato angolo di mondo: centrale, né troppo distante né troppo vicino alle montagne, in una pianura fertile e ricca di corsi d’acqua, nel cuore di un’area densa di insediamenti urbani. Immaginiamo quella pianura: niente cemento, capannoni, campi coltivati a riso, granturco, frumento e soia. Vi si spalancavano invece ampie zone paludose alternate alla foresta planiziale: querce, frassini, carpini, pioppi, salici, olmi e ontani regalavano frescura ai rari viaggiatori e nascondigli agli animali selvatici. Le merci viaggiavano per svariati chilometri su strade e per le vie d’acqua: era un mondo di lentezza inesorabile.

    Un popolo ha bisogno di alberi, di acqua e di una storia, della propria storia. Anche i milanesi, perse le proprie origini tra le nebbie del tempo – e i pioppi, gli ontani ecc. – presero a ricostruirne i contorni per raccontare come fosse nata la loro città. «La pianura del Po è una lavagna su cui sono state scritte infinite storie», scandisce Sebastiano Vassalli in Terre selvagge. «Storie che poi il tempo si è incaricato di cancellare per scriverne delle altre». E così, dissolta la storia della fondazione di Milano, non restava che ridisegnarla nelle tinte indelebili della leggenda.

    Lo storico romano Tito Livio, vissuto a cavallo dell’anno zero, ha trasmesso questo mito di fondazione. «Mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco», i celti erano guidati dal popolo dei Biturigi e dal loro re Ambigato, un sovrano saggio che rese la Gallia ricca e prospera. Troppo prospera, a ben vedere, tanto da «far pensare che la popolazione si potesse a stento dominare». Così Ambigato, ormai anziano, ordinò ai suoi due nipoti di partire in cerca di nuove terre. Il primo, Segoveso, si diresse verso la «Serva Ercinia», ovvero la Boemia; il secondo, Belloveso, prese la via della più assolata Italia, ma si fermò all’alta barriera delle Alpi che, dice Livio in tono ben poco convincente, nessuno aveva mai valicato. Il condottiero – con al seguito non solo Biturigi, ma anche Edui, Averni e altre popolazioni celtiche – attendeva un segno divino; gli piombò tra capo e collo nella forma di una minaccia: gli abitanti di Massalia, ovvero Marsiglia, erano attaccati dal popolo dei Salluvi e Belloveso temette che alla sua nutrita carovana potesse accadere altrettanto. Intervenne allora in soccorso dei Marsigliesi, poi valicò le Alpi attraverso i monti Taurini e la valle della Dora. Sceso in pianura, sconfisse gli Etruschi non lontano dal Ticino e, «saputo che il punto in cui si erano accampati si chiamava territorio degli insubri (nome identico a quello del cantone abitato dagli Edui), considerarono questa coincidenza un segno beneaugurale e fondarono in quel luogo una città che chiamarono Mediolanum».

    Quanta storia sopravvive nella leggenda? Non sappiamo se Belloveso sia mai esistito, se guidò i suoi oltre le Alpi, se fondò mai una città. I riferimenti a Marsiglia e al regno di Tarquinio Prisco, però, collocano la vicenda intorno al 600 a.C. e sono abbastanza coerenti con i ritrovamenti archeologici. Inoltre, studi glottologici recenti indicano che, prima di questa migrazione, nel luogo dove nacque Milano vi erano celti che parlavano una lingua differenziata rispetto a quella dei transalpini. Erano probabilmente gli eredi di una migrazione precedente: ecco perché quell’area si chiamava già territorio degli insubri. Nel racconto di Livio c’è del vero. Colpisce soprattutto che i milanesi abbiano voluto tramandare la discesa di Belloveso non come una conquista, ma come l’arrivo di un popolo pacifico, fraternamente ricevuto. Per il mito, Milano è il luogo che accoglie: già all’epoca – al tempo dei romani, si intende, quando la leggenda venne a crearsi – la città voleva riconoscersi come uno spazio ospitale, capace di contenere, gestire ed esaltare la diversità.

    La ricerca storica conferma questa lettura: per questo parlare di fondazione celtica è riduttivo. Più corretto dire che Milano si sviluppò quando nel territorio dei golasecchiani – che si erano affermati nell’alta pianura a partire dal

    IX

    secolo a.C. e che formavano un gruppo eterogeneo di liguri, transalpini ed elementi provenienti dalle steppe russe, i quali qui avevano diffuso tra l’altro la cultura del cavallo da guerra – giunsero in ondate successive popolazioni provenienti da oltre le montagne. Si trattava di giovani guerrieri, non di intere popolazioni: questi costituirono nuove élite di potere e diedero nuova forma al già diffuso sistema di centri urbani costituito su modello etrusco. Sì, in questo calderone di culture non mancano neanche gli etruschi. I golasecchiani vi conducevano fiorenti commerci; avevano appreso da loro l’alfabeto e la coltivazione della vite. Nel periodo della mitica invasione di Belloveso si formarono quindi realtà culturali, politiche e sociali innovative e profondamente stratificate, dove gli elementi transalpini si fecero preponderanti, ma si integrarono alle strutture presenti.

    La scrofa mediolanuta. Stampa da De praeclaris Mediolani aedificiis quae Aenobarbi cladem antecesserunt, 1735.

    Tornando invece alle leggende, esiste un mito di fondazione più tardo, documentato a partire dal

    IV

    secolo d.C., quando si volle fornire a una Mediolanum latinizzata e potentissima un evidente legame con la capitale dell’impero. Enea aveva fondato Lavinio – da cui Alba Longa, da cui Roma – nel luogo in cui una scrofa bianca inviata dagli dèi aveva partorito trenta maialini. Ecco allora un’etimologia fantasiosa per il nome Mediolanum: verrebbe da una scrofa semilanuta (mediolanata) che Belloveso scorse in una radura. Un cinghiale, in questo caso, un animale sacro che decorava le armi degli insubri ed elargiva ottimi auspici, un esemplare tanto bizzarro da rivelare al giovane combattente l’ennesimo segno divino: nel luogo dell’avvistamento sarebbe dunque sorta la città. Questa seconda leggenda porta con sé ben poca storia, ma fornì alla città il più antico tra i suoi simboli: la scrofa dal dorso ricoperto di lana, che poi sarebbe stata soppiantata dalla croce di san Giorgio – probabilmente all’inizio del

    XII

    secolo – e successivamente dal biscione visconteo.

    2

    Nel fiore d’Italia

    Nei suoi primi secoli Milano fu osservatrice di nuove incursioni dei popoli del Nord in Italia, che talvolta andarono a cozzare con gli interessi dei latini. Nel 390 a.C. Brenno, capo della tribù dei senoni che occupava le terre tra la Romagna e il Piceno, mise a ferro e fuoco Roma. La vendetta arrivò, ma con oltre un secolo e mezzo di ritardo: solo a quel punto i legionari romani, ampliati i propri confini, minacciarono le terre delle popolazioni celtiche, anche a nord del fiume Po. Intanto, come per un movimento centripeto, Medhelan era diventata più di un villaggio, aveva assunto un ruolo politico e religioso adeguato al suo status di crocevia, qualcosa di simile a un’odierna capitale.

    Il primo scontro tra insubri e romani risale al 225 a.C., quando i primi, insieme a boi e i taurini, oltre ai mercenari richiamati dai gesati, costituirono un’armata che, pur superiore di numero, venne sconfitta dai latini nella battaglia di Talamone (oggi Orbetello). Fu l’inizio della fine. I romani si convinsero di poter strappare ai galli la pianura del Po e in pochi anni dimostrarono di aver fatto bene i conti. Nel 222 a.C., sotto il consolato di Marco Claudio Marcello e Gneo Cornelio Scipione, la guerra agli insubri si risolse a favore di Roma: la vittoria fu decisa dalla battaglia di Clastidium (Casteggio), nella quale Marcello uccise il condottiero nemico Viridomaro. A quel punto la capitale degli insubri – dove Polibio, nelle sue Storie, rivela che erano custodite le «inammovibili» insegne d’oro – cadde in mano romana. Non per questo si cessò di combattere. Quando Annibale varcò le Alpi nel 218 a.C. gli insubri colsero l’occasione per un’alleanza coi cartaginesi che gli permise l’ultima apparizione da protagonisti sul palcoscenico della storia, la partecipazione alla Seconda guerra punica.

    Un guerriero celtico in un’incisione dei primi del Novecento.

    Scrisse Pietro Verri che la conquista dell’Insubria da parte dei consoli Marcello e Scipione è «il più antico fatto da cui può cominciare la storia di Milano». E continuò: «Poco è quello che sappiamo della città di Milano durante la repubblica di Roma; e poco è pure quello che ne sappiamo durante i primi tre secoli dell’èra volgare». Qualcosa di più, però, oggi la possiamo raccontare.

    Dopo la conquista definitiva, a differenza di quanto accadde nel territorio a sud del Po, sottratto ai boi, le terre degli insubri non vennero occupate direttamente: Roma preferì stringere con le popolazioni locali patti di alleanza, foedera equa (trattati equi), che riconoscevano agli insubri una larga autonomia. I vincitori non imposero il proprio modello di organizzazione territoriale, ma rispettarono quello dei vinti. Gli insubri si romanizzarono, cioè assunsero usi e costumi latini, ma in modo pacifico: lo fecero attraverso un processo spontaneo, non per le armi ma grazie agli scambi con imprenditori, agricoltori e commercianti. Dopo circa un secolo, a seguito della guerra sociale scoppiata del 91 a.C., i centri della Gallia Cisalpina si videro concedere lo status di colonia latina: questo prevedeva un’ampia autonomia amministrativa, importanti privilegi commerciali – in particolare il diritto di commercio detassato con il resto d’Italia, cui si era nello stesso periodo concessa la cittadinanza romana – e lo ius connubii – la possibilità per i membri delle élite locali di sposare membri delle classi senatorie romane. Vi erano anche obblighi: quello di fornire un contingente militare – famosa era la cavalleria insubre, erede di una tradizione antichissima – e di adeguarsi alla politica estera romana.

    Grazie a questo riconoscimento, il settentrione italiano – allora noto come Gallia Cisalpina – rifiorì; con esso il suo centro principale, Milano. Il tessuto economico venne razionalizzato, prevalentemente a scopo fiscale, ovvero per far affluire più merci e più denari ai centri amministrativi: ecco allora opere di disboscamento, disciplina delle acque, migliore sfruttamento delle risorse naturali. Le reti stradali furono potenziate, così come quelle fluviali. Mentre si diffondeva sempre più l’uso della lingua latina, tutta l’Italia settentrionale visse il grande sviluppo della propria economia: divenne il flos Italiae (il «fiore dell’Italia»), come scrisse Cicerone.

    Nella guerra civile fra Mario e Silla, Mediolanum parteggiò per il perdente Mario, mentre tra il 58 a.C. e il 50 a.C., come maggior centro della Gallia Cisalpina, la città fu un punto strategico per il proconsole di quella regione, il nipote di Mario, Gaio Giulio Cesare. Egli non citò mai Mediolanum nel suo De bello gallico, preso com’era dalle conquiste oltre confine, ma nel 49 a.C. si fece portavoce dei Cisalpini ottenendo poi il loro riconoscimento della piena cittadinanza romana.

    Mediolanum, sotto il dominio latino, cambiò volto. Tuttavia la forma dell’urbis restò quella precedente, con il perimetro circolare tipico dell’insediamento insubrico. Era segno di una forte impronta identitaria che Roma continuò a valorizzare. I reperti archeologici dell’epoca sono scarsi – celati da costruzioni successive o andati distrutti per recuperarne i materiali – ma sappiamo molto della città a cavallo dell’anno zero. Se confrontata con la capitale dei latini, Mediolanum era poca cosa, con una cinta muraria che la comprimeva in un’area ristretta. Qui non sono stati ritrovati resti delle insulae, le grandi costruzioni di cinque piani o più in cui le famiglie romane meno abbienti vivevano ammassate. Gli edifici privati di Mediolanum erano domus signorili, cioè case occupate da una sola famiglia, e non solo nei quartieri centrali, persino fuori dalle mura, dove si andavano bonificando aree paludose e mettendo a coltura terreni prima boschivi. Se Roma somigliava a una moderna metropoli, Milano non era altro che una vivace cittadina. Si calcola che in età augustea abitassero a Mediolanum circa 20.000 persone mentre a Roma… be’, generalmente le si considera vicine al milione.

    Mediolanum aveva un perimetro circolare, come detto, con tre chilometri e mezzo di cinta muraria. Questo sistema, che venne poi ampliato in età imperiale, si apriva in corrispondenza di sei porte a doppio arco – per non parlar delle pusterle, costituite di un solo arco. Soffermarsi ora sui loro nomi e sulle loro posizioni servirà a definire una prima mappa della città, ma chiariamoci subito: le porte romane non corrispondono a quelle che oggi si possono visitare, né sorgevano nella medesima posizione.

    Di Porta Comasina, Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina è facile dire: i loro nomi richiamavano la direzione verso cui ci si incamminava uscendo per quei varchi. Como, oriente, Roma, Ticinum (l’antico nome di Pavia) e Vercelli. In realtà quest’ultima porta fu detta Novarese fino a quando Vercelli non superò in potenza la più vicina Novara. Per farsi un’idea di quanto fosse estesa Mediolanum da est a ovest, possiamo considerare che Porta Orientale si trovava all’odierno imbocco di via Vittorio Emanuele su piazza del Duomo, mentre la Vercellina si innalzava all’incrocio tra via Magenta e via Santa Maria alla Porta. Il diametro delle mura, quindi, superava di poco il chilometro: quindici minuti di cammino erano sufficienti per attraversare l’intero abitato.

    Non si è detto di Porta Giovia e Tosa. La prima si apriva tra la Vercellina e la Comasina; forse era stata battezzata così in onore dell’imperatore Diocleziano, detto Giovio, o più probabilmente sorgeva in prossimità di un tempio dedicato al padre degli dèi. Incamminandosi da questo luogo e seguendo la via Quintana fin oltre il foro, si raggiungeva invece Porta Tosa, che prendeva il nome dalla parola latina tonsa, cioè remo. Il passaggio

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