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Viaggi al centro del racconto
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E-book181 pagine2 ore

Viaggi al centro del racconto

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Info su questo ebook

Così la critica preventiva:
Un incontro agonistico in tre tempi tra il raccontare e il racconto”
Quello che è scritto potrebbe essere scritto in altro modo, e anche quello che è narrato potrebbe essere narrato in altro modo. Mentre ci si chiede quale sia l’altro modo, ci si rende conto che non c’è altro modo che questo”
Il racconto non è un racconto, un solo racconto, ogni frase è un racconto”
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2019
ISBN9788894151770
Viaggi al centro del racconto

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    Anteprima del libro

    Viaggi al centro del racconto - Silvano Panella

    LA GITA IMPORTANTE

    Vanno e vengono. Vanno in campagna, la campagna che delimita la periferia, poi tornano a casa. Partono e rientrano nello stesso giorno, per questo dico che vanno e vengono. La campagna dove sono diretti era un tempo vera campagna, ora è campagna di città, la terra brulla e provvisoria di quando ci si allontana dalla periferia, ossia dalla città. Si trova oltre i condomìni edificati pochi anni fa, oltre un prato verde, oltre un fossato, oltre il grano selvatico alto e la stazione radio trasmittente in disuso. Era la campagna romana degli acquedotti, dei casali, delle coltivazioni, degli allevatori, delle osterie, del cinema, è ora il luogo dove loro vanno in gita. Io li vedo passare, li conosco, sono stato persino invitato. Potrei andarci da solo o con Marlene, potremmo andarci assieme ai gitanti oppure solo noi. La stazione radio è un bell'edificio giallo in rovina che forse resterà a lungo, forse verrà abbattuto presto, rimosso per edificare altre case e altre strade, un altro quartiere, per altra gente che vuole vivere in città, altra gente che lascia la campagna ma ci torna con la città. Ironico. O inevitabile. Andare dalla città alla campagna è ormai solamente una gita. Una gita inutile.

    Siedo su una panca d'interno. Una squadra minore, una passione giovanile, lo sport, un tempo sarei stato più specifico, ora è soltanto uno svago. Le panche di ferro verde, gli attaccapanni avvitati, un tavolo, le lampade al neon, il soffitto di vernice screpolata, le finestre alte in vetro zigrinato, la porta di legno, la maniglia di ottone decorata. Perché la maniglia è decorata? Chi ha avvitato gli attaccapanni? E il pavimento? Perché il pavimento a mattonelle di graniglia? Vorrei che tutto questo mi distraesse, che distraesse i miei compagni, che distraesse l'allenatore, credo di essere il solo a volere lucidamente una distrazione. A breve disputeremo una partita tra noi. Ci prepariamo, parliamo, scherziamo. Piacevole come sempre, questa normalità che fa pensare ad altro. L'allenatore ci spiega la tattica, una tattica semplice, per non farci credere che sia solo uno svago, l'allenatore prende sul serio il suo mestiere, è questo il suo mestiere, è un attore caratterista. Entriamo in campo. La fatica, lo sfogo, lo svago, cerco perfino di concentrarmi, ma perché dovrei concentrarmi? Questo mi domando, e così penso ad altro.

    Che cos'è la fotografia? Non so, forse la fotografia è una suggestione, un suggerimento, una porzione, forse fotografare significa fingere che la realtà si possa fermare in una fotografia. Chissà cosa accadrebbe se si slegasse la fotografia dalla realtà, cosa accadrebbe e cosa vorrebbe dire. Possiedo una vecchia macchina fotografica col rullino, una macchina fotografica che forse mi piace, una macchina fotografica che utilizzo perché la fotografia, forse, si basa sulla pratica. Non dirò che voglio fare il fotografo ma che sono un fotografo, bisogna essere presuntuosi finché si è protetti dalla verità, anche la verità più piccola, anche la vendita più piccola, vendo le fotografie alle redazioni dei piccoli giornali, i giornalisti le comprano per stamparle accanto al loro articolo oppure per tenerle. Le mie fotografie, presumo, ispirano articoli.

    Marlene si lascia fotografare, si lascia consigliare per la posa, mi aiuta, o sono io che la aiuto, ci sfruttiamo a vicenda. Non è che una bellezza particolare, non è che vanitosa, per appagare la sua vanità dice a tutti che l'ho scoperta io, uno strano tipo di vanità che potrebbe portarmi la fama quando riuscirà a diventare famosa lei prima di me. Ora mi attende in cima alla scala che raggiungiamo dal tetto del nostro condominio, la scala tra le nostre scale. Marlene siede sul secondo gradino della rampa. Arriva sempre prima di me, io le siedo accanto. Davanti a noi la finestra rettangolare. Oltre la finestra rettangolare un pezzo di chioma di pino, un pezzo di strada, un pezzo di cielo. Dipende da come ci mettiamo, dipende se ci spostiamo, dipende. Vediamo soprattutto pezzi di condomìni, i condomìni mattonati a tre piani del nostro quartiere. Condomìni così bassi non possono che mettere allegria grazie all'abbondanza di luce naturale, alla scarsa oppressione edile, alla giusta distanza, strade giuste, né troppo ampie né troppo strette, strade coperte da aghi di pino che attutiscono i rumori dei passi e delle ruote, che attutiscono le cadute dovute alle crepe e alle buche, strade allegramente sfasciate dalle radici dei pini, un rimando ai templi khmer, un rimando colto, una colta giustificazione. A noi piacciono le giustificazioni, sono le radici del nostro rancore, sarebbe uno scempio abbattere il nostro rancore.

    «La risposta non è ancora arrivata», Marlene mi dice. «Abbiamo spedito la mia foto, non ricordi? Sono passati nove giorni. Se interessava rispondevano subito», Marlene guarda in alto, una falsa posa meditabonda. «O si è persa. Come si fa a perdere, la posta? La mia posta. Si sarà infilata da qualche parte? Schiacciata da altre lettere? Cumuli di lettere che si appiccicano l'una all'altra a causa della pressione e del calore esercitati sulla carta, sulle colle, sull'inchiostro di buste e affrancature, e poi i timbri che... se la foto non è piaciuta?»

    «Se non sei piaciuta tu», le dico, e penso al suo volto dipinto e fotografato, un'altra fotografia. Non truccate i volti, né sui volti né sulla carta fotografica, appendete banconote alle pareti. Lo so, soltanto alcuni rubano i dipinti, tutti gli altri rubano le banconote, tutti gli altri sono una moltitudine, ma dobbiamo rischiare. Appendete le banconote alle pareti, queste banconote pendenti faranno crollare il mercato dell'arte e salire il mercato finanziario, che diventerà il nuovo mercato dell'arte.

    Marlene soffia come un gatto, si annoia. Il suo volto, pulito, struccato, non dipinto, in attesa della luce migliore per la fotografia, si muove però. Le banconote, l'arte che vale di per sé, ritratti in filigrana, ritratti multipli, da vendere all'asta se non fosse per il loro prezzo fisso, mutabile solo quando le banconote sono fuori corso, solo quando non si considerano più in quanto banconote. Ma questo non basta.

    «Ho in mente una scena», Marlene mi dice. «Una scena per una foto. Serve una palma»

    «Una palma?»

    «Io e la palma. La foto che mi farai»

    «Se voglio»

    «Ti piacerà come mi metterò accanto la palma. Io e la palma»

    «Te la scatto. La palma?»

    «È il problema»

    «Il tronco o la palma intera?»

    «La palma intera»

    «Ce ne sono, al parco»

    «Io e la palma. È sporco, il parco. C'è gente. Gente che sporca. Gente che guarda e sporca»

    «Anch'io preferisco fotografare al chiuso, ma se ti serve la palma...»

    Marlene scende di un gradino. Poi scende di un altro gradino. Poi scende di un altro gradino. Cosa vuole? Cerca la luce? Cerca l'illuminazione per farsi fotografare? Vuole essere la Madonna? Modelli, ritrattisti, artisti, ingenuità blasfema, il Diluvio Universale non si è più riproposto, siamo ancora troppo buoni. Chi erano mai quei malvagi nel Diluvio Universale? No, Marlene non è la Madonna, è solo Europa che attende di essere rapita da Zeus un'altra volta, la blasfemia non è più tale se riguarda la mitologia, ossia la religione che si è liberata dei valori religiosi per trasformarsi definitivamente in cultura.

    «Una palma», Marlene muove le mani simulando lunghe foglie ricadenti. «Un tronco magro», avvicina, dritte, le sue mani per comprimere, è impossibile, l'aria avanti a sé. «Tre o quattro foglie. Se ti va di tagliare le foglie al parco, se no lo faccio io»

    «Al parco», ripeto.

    «Hai paura?»

    «Sono pigro»

    «Ne varrà la pena»

    «Il tronco ce l'ho, ma non è di palma»

    «È vero, il tronco ce l'abbiamo»

    «Non è di palma»

    «Va bene lo stesso. Ci vai, a tagliare le foglie?»

    «Più tardi»

    «Non hai paura?»

    «Farò presto. Basteranno tre foglie»

    «Quattro»

    «E allora quattro»

    «No, cinque. Cosa cambia, se sono quattro oppure cinque?»

    «E allora cinque»

    «Io e la palma», Marlene dice ancora, mi siede accanto, mette un braccio intorno al mio collo, lo stringe, quasi mi strozza, svenevole, sta recitando. Per chi? Per noi. Sono le prove.

    Al tramonto taglio le cinque foglie di palma. In camera mia c'è tutto l'occorrente per allestire piccole scenografie, monto la finta palma. Marlene porta un borsone, dentro c'è un lungo abito rosso, lo indossa. Dice che lo ha confezionato da sé. Le sta bene. La posso fotografare. Una finzione scenica irreale, forse ironica, forse stupida, bella. Portiamo all'ottico il rullino da sviluppare. L'edificio basso di una azienda di inscatolamenti mi fa pensare a una storiella.

    Racconto a Marlene: «alla festa c'erano tutti. Un fattorino, contento perché sapeva che lo avrebbero promosso a direttore della sezione consegne, beveva spumante assieme a un dirigente e diceva che tra le sue prime decisioni ci sarebbe stata quella di un brindisi a ogni fine giornata per sollevare il morale degli impiegati. Li salutò l'amministratore delegato, un signore preciso che tra i convenevoli ricordò ai due il suo nome, Ermenegildo. Il fattorino, confusa l'ebbrezza alcolica con l'acume, comparò quel nome alla corporatura robusta e all'importante mansione dell'uomo e fece notare che quel nome era inciso sul fermacravatte. Ermenegildo, un nome così opulento che se non sottaciuto rischia l'ostentazione. Ermenegildo, un nome così barocco nel suo corsivo che sembra la marca di una bella automobile d'epoca impressa sulla calandra, una cravatta che sembra una calandra anche se è una cravatta rossa, o blu, o verde, a pallini, o a rombi, o a righe. Il fattorino non ha ancora avuto la sua promozione e sta cercando di smerciare lo spumante ordinato in anticipo»

    Ridendo per la storiella inciampiamo con leggerezza e ci lasciamo andare insieme sul marciapiede. Nulla di grave, ma ci nota la vigilessa all'incrocio. La vigilessa ci chiede cosa sia successo, io rispondo che va tutto bene, la vigilessa si rivolge a Marlene, che conferma. Proseguiamo, Marlene si poggia al muro di un palazzo, si tocca il ginocchio, tutto bene, passiamo per la strada della sede abbandonata del partito. C'è una buca delle lettere nella saracinesca arrugginita. Marlene infila nella buca una sua foto con dedica. Le dico che è una piazzista, che vuol piazzare se stessa da qualche parte solo grazie alla sua immagine. Non la scoraggio, non sono sincero, anch'io vivo di immagini, non c'è nulla di male, la sede è abbandonata da anni, il suo è un gesto nostalgico, costeggiamo il prato in salita.

    Marlene mi chiede delle palme, ancora, la annoio con una breve digressione sulle palme, da quelle di Schifano ai premi del Festival di Cannes, da quelle morenti sul lungomare a quelle rigogliose della Croisette, che è sempre un lungomare solo che viene annaffiato. Excusatio non petita, Marlene dice in latino. Se vuoi ti parlo in greco, dice ancora. Conosci il greco e il latino? Questo le domando. In realtà poco, lei dice, stavo solo interpretando Eudora, la prima della classe, so che questo ti piace. Ogni lingua va pensata, ogni pensiero è proprio di una personalità, quindi possiedi molteplici personalità, le dico anche se non è Eudora perché so che le piacerà.

    A volte andiamo a trovare una signora in rovina come fosse una casa in rovina, la sua casa. Era un'attrice, ora non interpreta che la sua parte in rovina. Suoniamo il campanello, Daniela Binotti ci apre. Ha un volto rassegnato che si ravviva pian piano, nascondendo tra le rughe la rassegnazione, che continua in lei. Ha da offrirci il tè, ha solo tè, cerca disperatamente di ubriacarsi col tè. Magra e tremolante, indossa gli abiti che piacciono a Marlene, abiti lunghi di un solo colore, di ottima stoffa, residui scenici. Ricca di anticaglie curiose ma senza valore la sua casa in rovina, finestre socchiuse e scorticate, carta da parati rosa graffiata da gatti antichi, che graffiavano con modi diversi da quelli d'oggi, con piccoli tocchi fugaci e ricurvi, lampade floreali déco, gambi d'ottone, petali di vetro colorato, fili elettrici al posto delle vene, la natura che continua nella tecnologia. La signora Binotti racconta brevi storie del suo passato. È leggera, disillusa, preoccupante, dice frasi del tipo come si fa a non suicidarsi per appagare l'abnorme curiosità di scoprire cosa c'è dopo la morte?, la dittatura è il maggior accanimento terapeutico verso una singola persona, l'abito non fa il monaco, il monastero sì, Dio è onnipotente per definizione, oppure Dio stesso è una definizione?, i disoccupati sono i maggiori nemici del socialismo. Ci dispiace lasciarla, l'ho appena descritta, ma non possiamo fare altrimenti, anche noi dobbiamo vivere e si può vivere solo uno o due alla volta.

    Marlene cataloga i mucchi di fotografie conservati nei miei cassetti. Sono mucchi già impilati, impilati proprio da lei, ma scopre errori nelle sequenze. È cresciuta, ha dimenticato il vecchio ordine, ne ha scoperto uno nuovo che deve assolutamente applicare. Riesce a farsi regalare una o due fotografie mentre le commenta. È bello parlare tra intenditori, ci si capisce così velocemente che il tempo viene ingannato, c'è una tale concordanza che è come parlare da soli, privati di quei contraddittori così fastidiosi nella loro prevedibile contraddittorietà.

    Marlene vuole essere fotografata ma non sa come. Sfrutto la sua indecisione per portarla dietro una scenografia di carta, tra il chiarore della carta e la luce di metà mattina della finestra.

    «Un rapimento. No, non preoccuparti, sarà solo una messinscena priva di richiesta di riscatto. Scatteremo poco prima dell'ora di pranzo, dovrai sembrare spaventata e patita. Ora avvicinati, voglio vedere come possiamo fare»

    «Affamata, esausta, prigioniera...», Marlene riflette nel chiarore, tra la carta e il vetro, tra il bianco e il trasparente, una aspirante fantasma.

    Nell'armadio ci sono alcuni suoi bei vestiti, stavolta serve qualcosa di poco appariscente, le presto un pantalone e una camicia. Contro

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