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Epistolario
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L’Epistolario leopardiano raccoglie 940 lettere scritte dal 1810 al 1837 agli amici, agli editori, agli eruditi, alle donne: argute e spiritose, o tristi e dolorose, spedite da Recanati o dalle città dove lo portava la sua fuga dal «natio borgo selvaggio». Uno scrigno che contiene il tesoro dello spessore umano, degli affetti, pene, passioni e timori dello splendido poeta e geniale letterato.
Giacomo Leopardi
nacque a Recanati nel 1798. S’immerse con straordinaria precocità negli studi filologici e letterari, compromettendo per sempre la salute. Dal 1822 in poi la sua vita fu una continua fuga – con ritorni più o meno brevi – dal «natio borgo selvaggio»: a Roma nel ’22-23, quindi a Milano, Bologna, Firenze, Pisa, fino all’ultima dimora a Napoli, dove morì nel 1837. Oltre ai Canti, lasciò numerosi scritti, fra cui le Operette morali, lo Zibaldone e i Pensieri, tutti pubblicati dalla Newton Compton nel volume unico Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, curato da Lucio Felici e Emanuele Trevi.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2014
ISBN9788854174269
Epistolario
Autore

Giacomo Leopardi

Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (June 29, 1798 – June 14, 1837) was an Italian poet, philosopher, essayist and philologist. He is widely acknowledged to be one of the most radical and challenging thinkers of the 19th century

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    Epistolario - Giacomo Leopardi

    519

    Prima edizione ebook: ottobre 2014

    © 1997, 2001 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7426-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Giacomo Leopardi

    Epistolario

    Newton Compton editori

    Cronologia della vita e delle opere

    1798. 29 giugno: nasce a Recanati dal conte Monaldo e da Adelaide dei marchesi Antici, primogenito di dieci figli. Nel pomeriggio del 30 giugno viene battezzato nella parrocchia di Monte Morello (la contrada dove sorge il palazzo Leopardi), con i nomi di Giacomo Taldegardo, Francesco Salesio, Saverio, Pietro; il sacramento è amministrato dal padre filippino Luigi Leopardi, zio di Monaldo; il padrino è Filippo Antici, la madrina Virginia Mosca, rispettivamente suocero e madre di Monaldo.

    1799. 12 luglio: nascita del fratello Carlo.

    1800. 6 ottobre: nascita della sorella Paolina.

    1803. 19 febbraio: morte del fratello Luigi, di nove giorni. Monaldo, con la sua avventatezza, ha causato dissesti economici alla famiglia, la cui amministrazione passa nelle mani dell’«arciforastica consorte».

    1804. Nascita di un altro fratello, battezzato anch’egli Luigi.

    1805. Monaldo fonda nel suo palazzo un’Accademia poetica, con l’intento di rinnovare la tradizione della recanatese Accademia de’ Disuguali (attiva nel XV secolo).

    1806. Si stabilisce a Recanati il prete alsaziano, profugo, Giuseppe Antonio Vogel, che diverrà amico di Monaldo e, dal 1809, sarà canonico della cattedrale recanatese. Forse sarà lui a suggerire a Giacomo di tradurre Orazio e di raccogliere uno «zibaldone»; in una lettera a Monaldo parla di «zibaldoni» come di «caos scritti», «magazzeni, da cui escono alla giornata tante belle opere in ogni genere di letteratura». Comunque il termine, attestato già nel Duecento, si era largamente diffuso nel XVIII secolo.

    1807. Nasce il sesto fratello, Francesco Saverio, che morirà nel 1809. Negli anni successivi altri tre fratelli – Raimondo, Giuseppe e Ignazio – spireranno poco dopo la nascita. L’abate Sebastiano Sanchini prende il posto del primo pedagogo dei ragazzi Leopardi, don Giuseppe Torres. Aio è don Vincenzo Diotallevi.

    1808. 30 gennaio: primo saggio di studi di Giacomo, Carlo e Paolina.

    1809. Legge Omero, traduce Orazio, scrive la prima poesia, il sonetto La morte di Ettore, seguita da altre esercitazioni in prosa e in versi.

    1810. Compone, fra l’altro, gli idilli La spelonca e L’amicizia, i poemetti I Re Magi e il Balaamo, gli sciolti Il diluvio universale.

    1811. Prosegue intensamente gli studi filologici; traduce l’Arte poetica di Orazio e compone la tragedia in tre atti La virtù indiana.

    1812. Monaldo apre al pubblico la propria biblioteca. Giacomo compone Epigrammi e la tragedia Pompeo in Egitto. Sostiene con i fratelli il pubblico esame, presentando tesi di Teologia, Ontologia, Morale, Psicologia, Fisica e Scienze naturali: sono gli argomenti delle sue Dissertazioni filosofiche (1811-12).

    1813. Nasce l’ultimo fratello, Pierfrancesco. Scrive la Storia dell’astronomia.

    1814. Intraprende vari lavori filologici e traduce dal greco gli Scherzi epigrammatici.

    1815. Scrive il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Dopo la sconfitta di Murat a Tolentino, fra il maggio e il giugno, scrive Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno. Durante l’estate traduce gli Idilli di Mosco e la Batracomiomachia.

    1816. Gennaioaprile: Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone. Primavera: l’idillio funebre Le rimembranze, l’Inno a Nettuno e le due Odae adespotae (in greco, con traduzione latina). 30 giugno-15 luglio: pubblica sullo «Spettatore italiano e straniero» di Milano, in due puntate, la traduzione del I libro dell’Odissea. 18 luglio: interviene nella polemica tra classicisti e romantici con la Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca italiana in risposta a quella di Mad. la baronessa di Staël Holstein ai medesimi, che però non viene pubblicata. Sempre nel mese di luglio comincia a comporre la tragedia Maria Antonietta, che resterà incompiuta. Durante l’estate rielabora la canzonetta La dimenticanza, che risale forse al 1811; quindi traduce il II libro dell’Eneide. Alla fine d’agosto incontra, a Recanati, l’editore milanese Antonio Fortunato Stella. Novembredicembre: cantica Appressamento della morte. In quest’anno diviene consapevole di quella che chiamerà la sua «conversione letteraria» (dall’erudizione alla poesia).

    1817. Marzo: inizia la corrispondenza con Pietro Giordani. Giugno: pubblica sullo «Spettatore» la traduzione della Titanomachia di Esiodo. Luglioagosto: comincia a stendere le notazioni dello Zibaldone. Compone quindi i Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio. In una lettera al Giordani dell’8 agosto lamenta l’aggravarsi delle proprie condizioni di salute, causato da una vita insana, freneticamente dedicata allo studio. 27-28 novembre: sonetto Letta la vita dell’Alfieri scritta da esso. 11-14 dicembre: da Pesaro giunge a Recanati, ospite di casa Leopardi, la ventiseienne cugina di Monaldo, Geltrude Cassi Lazzari, della quale Giacomo s’innamora. Da quell’esperienza nascono i versi dell’Elegia I (poi Il primo amore) e il Diario del primo amore.

    1818. Durante i primi mesi compone l’Elegia II. Il 2 marzo scrive al Giordani: «io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile» (secondo gli studi antropometrici effettuati da Angelo Zuccarelli nel 1900, Giacomo aveva una statura compresa fra 1 metro e 40 e 1 metro e 45 centimetri, e aveva una doppia gobba, anteriore e posteriore). 27 marzo: spedisce all’editore Stella di Milano la prima parte del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (ma il testo sarà pubblicato soltanto nel 1906). 16-21 settembre: il Giordani si ferma a Recanati per conoscere il giovane poeta. Settembre: All’Italia. Settembreottobre: Sopra il monumento di Dante. 30 settembre: muore di tisi, a ventun anni, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi (forse la «Silvia» del celebre canto).

    1819. All’inizio dell’anno, ma con la data 1818, presso lo stampatore Bourlié, a Roma, escono le prime due canzoni, con i titoli Sull’Italia e Sul Monumento di Dante che si prepara in Firenze. Primi mesi: Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo (canzoni pubblicate postume). Marzomaggio: scrive i Ricordi d’infanzia e di adolescenza, appunti per un romanzo autobiografico sul modello del Werther di Goethe e dell’Ortis foscoliano. Comincia a soffrire di una grave malattia agli occhi. Nel luglio progetta di fuggire da Recanati; ma il padre scopre i preparativi segreti, e il piano fallisce. Settembre: L’infinito, iniziato nella primavera. Allo stesso periodo risalgono la Telesilla (abbozzo di un dramma pastorale) e l’idillio Alla luna, il frammento di Alceta e Melisso intitolato prima Il sogno, poi Lo spavento notturno (infine sarà collocato, senza titolo, tra i Frammenti, col numero XXXVII nell’ordinamento definitivo dei Canti). In quest’anno matura la sua cosiddetta «conversione filosofica», ossia il passaggio dalla condizione «antica» – caratterizzata dal dominio della fantasia generatrice di poesia – alla condizione «moderna», caratterizzata dalla dolorosa scoperta dell’«arido vero».

    1820. Gennaio: Ad Angelo Mai, che il poeta pubblicherà a proprie spese in un opuscolo a sé, presso l’editore Marsigli di Bologna (primi di luglio dello stesso anno). 4 settembre: scrive al Giordani di «aver immaginato e abbozzato certe prosette satiriche», primo accenno alle Operette morali. Nella primavera o nell’estateautunno compone La sera del dì di festa (dapprima intitolato La sera del giorno festivo), cui segue, verso la fine dell’anno, Il sogno.

    1821. Estateautunno: La vita solitaria. Ottobrenovembre: Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone (completato il 30 novembre). Dicembre: Bruto minore.

    1822. Gennaio: Alla Primavera. Marzo: Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. 13-19 maggio: Ultimo canto di Saffo. Luglio: Inno ai Patriarchi. 17 novembre: parte per Roma, dove è ospite dello zio materno Carlo Antici.

    1823. A Roma conosce, fra gli altri, il Mai e alcuni studiosi stranieri, come il Niebuhr, il Bunsen, lo Jacopssen. Deluso dall’ambiente, riuscito vano il tentativo di ottenere un impiego nell’amministrazione pontificia, il 3 maggio torna a Recanati. Settembre: Alla sua Donna.

    1824. Gennaionovembre: scrive le prime venti Operette morali. Forse nel mese di marzo scrive il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. In agosto, a Bologna, per i tipi del Nobili, esce un opuscolo che contiene le dieci Canzoni.

    1825. 12 o 13 luglio: parte per Milano, invitato dall’editore Stella. Vi giunge il 30, dopo una sosta a Bologna (18-27 luglio), dove rivede il Giordani e conosce l’editore Pietro Brighenti. 13 agosto: sul bolognese «Caffè di Petronio», diretto dal Brighenti, appare anonimo Il sogno. A Bologna torna il 29 settembre, cercando invano un’occupazione. È forse di questo periodo il Frammento apocrifo di Strabone di Lampsaco. 9 dicembre: porta a termine la traduzione del Manuale di Epitteto.

    1826. A Bologna stringe nuove amicizie, con Carlo Pepoli, Antonio Papadopoli, il medico Giacomo Tommasini e altri. S’innamora di Teresa Carniani Malvezzi, gentildonna dilettante di letteratura. Marzo: Al conte Carlo Pepoli. Lavora per lo Stella, con un accordo che gli assicura un assegno mensile; presso questo editore compaiono, nel giugno, le Rime del Petrarca con «l’interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi». Nell’estate appare l’edizione bolognese dei Versi, presso la Stamperia delle Muse. 12 novembre: rientra a Recanati.

    1827. 26 aprile: è di nuovo a Bologna. Forse in primavera, durante una sosta a Recanati, compone Imitazione (che potrebbe essere stata scritta anche nell’anno successivo o, addirittura, nel ’29-30). Giugno: prima edizione delle Operette morali, sempre presso lo Stella. 21 giugno: si stabilisce a Firenze, dove frequenta l’ambiente del Gabinetto Vieusseux; entra in contatto con Gino Capponi, Giuseppe Montani, Giovanni Battista Niccolini, Niccolò Tommaseo, Pietro Colletta, Alessandro Poerio, Gabriele Pepe; conosce il giovane esule napoletano Antonio Ranieri, suo futuro sodale. 3 settembre: incontra Alessandro Manzoni al ricevimento offerto dal Vieusseux in onore dello scrittore milanese. Nel mese di settembre scrive il Dialogo di Plotino e di Porfirio e Il Copernico. Primo novembre: si trasferisce a Pisa. Nel corso dell’autunno escono, presso lo Stella, i due volumi della Crestomazia italiana della prosa.

    1828. Gennaio: esce, presso lo Stella, la Crestomazia italiana poetica. 15 febbraio: compone lo Scherzo. 7-13 aprile: Il risorgimento. 19-20 aprile: A Silvia. Il 2 maggio scriverà alla sorella Paolina: «Dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta». 4 maggio: muore per tisi il fratello Luigi. 7 giugno: torna a Firenze, dove si trattiene fino all’ultimo scorcio di novembre, quando gli verrà sospeso l’assegno dello Stella. 28 novembre: torna a Recanati in compagnia del Gioberti, che ha conosciuto, nell’ottobre, al Gabinetto Vieusseux.

    1829. Già nel gennaio inizia forse Il passero solitario. 26 agosto-12 settembre: Le ricordanze. 17-20 settembre: La quiete dopo la tempesta. Il 29 settembre porta a temine Il sabato del villaggio. Il 5 settembre ha scritto al Bunsen: «Non solo i miei occhi, ma tutto il mio fisico, sono in stato peggiore che fosse mai. Non posso né scrivere né leggere, né dettare, né pensare». 22 ottobre: inizia il Canto notturno, che completerà il 9 aprile dell’anno successivo.

    1830. 9 febbraio: adunanza dell’Accademia della Crusca, per l’assegnazione di un premio di mille scudi destinato a un’opera che congiunga «purità ed eleganza di stile [...] all’importanza della materia». Tredici voti vanno alla Storia d’Italia dal 1789 al 1814 di Carlo Botta; un voto alla Sacra Scrittura illustrata con monumenti assiri ed egiziani di Michelangelo Lanci; un voto (forse di Gino Capponi o, più probabilmente, del Niccolini) alle Operette morali. 21 marzo: scrive al Vieusseux: «Son risoluto, con quei pochi danari che mi avanzarono quando io potea lavorare, di pormi in viaggio per cercar salute o morire, e a Recanati non ritornare mai più». 23 marzo: riceve una lettera di Pietro Colletta che gli comunica l’invito degli «amici di Toscana» a trasferirsi a Firenze, come loro ospite, con un prestito, per un anno, di «18 francesconi al mese». 2 aprile: risponde al Colletta, accettando l’offerta che gli è arrivata «come un raggio di luce». 29 aprile: lascia Recanati, e non vi farà più ritorno. 3-9 maggio: sosta a Bologna. 10 maggio: giunge a Firenze e si ferma nella Locanda della Fontana. Il 10 giugno va ad abitare in Borgo degli Albizi; quindi, alla fine dell’estate, in via del Fosso. In primavera Alessandro Poerio lo ha presentato alla venticinquenne Fanny Targioni Tozzetti; per lei concepisce una passione violenta, che gli ispirerà i cinque canti del cosiddetto ciclo di Aspasia (Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia). Nel settembre inizia il sodalizio col Ranieri; nell’ottobre conosce il filologo svizzero Louis de Sinner (Georg Rudolf Ludwig von Sinner, 1801-1860).

    1831. 20 marzo: il Pubblico Consiglio di Recanati lo nomina Deputato rappresentante nell’Assemblea Nazionale di Bologna. Ma il ritorno degli austriaci a Bologna annulla il mandato. Aprile: esce l’edizione fiorentina dei Canti, per i tipi di Guglielmo Piatti, con la celebre dedica Agli amici suoi di Toscana. Forse nella tarda primavera compone Il pensiero dominante. Primo ottobre: parte per Roma col Ranieri, che segue l’amante Maria Maddalena Pelzet, attrice della compagnia Mascherpa. Giunge in città la sera del 5 e si stabilisce, con l’amico, in una casa di via delle Carrozze. Novembre: si trasferisce in via Condotti.

    1832. 22 marzo: i due amici tornano a Firenze, sempre al seguito della compagnia Mascherpa. Maggio: Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere, Dialogo di Tristano e di un amico. Durante l’estate compone forse Amore e Morte; rivede Stendhal che ha conosciuto presso il Vieusseux. Probabilmente in autunno compone Consalvo. Il 4 dicembre scrive l’ultimo pensiero dello Zibaldone. Si suppone che in questo periodo cominci a ordinare i centoundici Pensieri ricavati dallo Zibaldone (pubblicati postumi, nel 1845).

    1833. Forse tra primavera ed estate abbozza Ad Arimane; in estate compone A se stesso. 2 settembre: parte col Ranieri da Firenze e, dopo una sosta a Roma, giunge a Napoli il 2 ottobre.

    1834. Presso l’editore fiorentino Guglielmo Piatti esce la seconda edizione delle Operette morali. Abbandonato l’appartamento vicino a piazza San Ferdinando (perché la proprietaria lo credeva tisico), va ad abitare nel palazzo Cammarota, nella Strada Nuova Santa Maria Ognibene, sotto la Certosa di San Martino. Tramite l’esule tedesco Heinrich Wilhelm Schulz, poeta e archeologo, entra in contatto con August von Platen. Tra la primavera e l’estate compone Aspasia; e tra la fine del ’34 e l’inizio del ’35 scrive la Palinodia al marchese Gino Capponi. Forse in questo periodo lavora ai Paralipomeni della Batracomiomachia, iniziati nel 1831 e continuati fino agli ultimi giorni di vita.

    1835. Il 9 maggio si trasferisce col Ranieri in una casa del rione Sanità, al n. 2 di vico Pero. In estate, a Napoli, esce presso Saverio Starita una nuova edizione dei Canti, che sarà sequestrata nel 1836 per ordine del governo borbonico. Forse in settembre porta a termine le due sepolcrali, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna (secondo alcuni, invece, composte e completate nell’inverno 1834-35). In autunno compone I nuovi credenti, satira contro lo spiritualismo degli intellettuali napoletani.

    1836. Gennaio: presso lo Starita esce la terza edizione delle Operette morali, anch’essa sequestrata. Aprile: per sfuggire al colera va ad abitare con Ranieri e con la sorella di lui, Paolina, nella Villa Ferrigni (proprietà dell’avvocato Giuseppe Ferrigni, cognato del Ranieri), presso Torre del Greco. Compone forse in questo periodo La ginestra e Il tramonto della luna.

    1837. Il 16 febbraio rientra a Napoli, nell’appartamento di vico Pero. Il 27 maggio così scrive al padre: «Se scamperò al cholèra e subito che la mia salute lo permetterà, io farò ogni possibile per rivederla in qualunque stagione, perché ancor io mi do fretta, persuaso ormai dai fatti di quello che sempre ho preveduto che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo».

    Si spegne il 14 giugno, mentre il cocchiere lo attende in strada per riportarlo a Villa Ferrigni. Ad assisterlo negli ultimi istanti c’è il Ranieri con la sorella Paolina e altri suoi parenti. Racconta l’amico: «la Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli da quell’ampissima fronte [...]; aperti più dell’usato gli occhi, mi guardò più fisso che mai. Poscia: – Io non ti veggo più – mi disse come sospirando. E cessò di respirare; e il polso né il cuore non battevano più».

    Il Ranieri riesce a stento a sottrarre il corpo dell’amico alla fossa comune (destinazione imposta dalle autorità a causa dell’epidemia) e a farlo seppellire nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Sulla tomba viene posta una lapide con questa epigrafe dettata da Pietro Giordani:

    AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE

    FILOLOGO AMMIRATO FUORI D’ITALIA

    SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE ALTISSIMO

    DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI

    CHE FINÌ DI XXXIX ANNI LA VITA

    PER CONTINUE MALATTIE MISERISSIMA

    FECE ANTONIO RANIERI

    PER SETTE ANNI FINO ALLA ESTREMA ORA CONGIUNTO

    ALL’AMICO ADORATO. MDCCCXXXVII

    Nel 1939, per una «improvvida iniziativa retorica» (Contini), i resti del poeta saranno traslati presso la cosiddetta «tomba di Virgilio», nel parco dietro Piedigrotta.

    Lucio Felici

    Epistolario

    1. ALLA SIGNORA MARCHESA ROBERTI.

    (a mano) [s. d., ma Recanati, Epifania del 1810?].

    Carissima Signora. Giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Conversazione, ma la Neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro Portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli, acciocché siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro Anno gli porterò un po’ di Merda. Veramente io volevo destinare a ognuno il suo regalo, per esempio a chi un corno, a chi un altro, ma ho temuto di dimostrare parzialità, e che quello il quale avesse li corni curti invidiasse li corni lunghi. Ho pensato dunque di rimettere le cose alla ventura, e farete così. Dentro l’anessa cartina trovarete tanti biglietti con altrettanti Numeri. Mettete tutti questi biglietti dentro un Orinale, e mischiateli bene bene con le vostre mani. Poi ognuno pigli il suo biglietto, e veda il suo numero. Poi con l’anessa chiave aprite il Baulle. Prima di tutto ci trovarete certa cosetta da godere in comune e credo che cotesti Signori la gradiranno perché sono un branco di ghiotti. Poi ci trovarete tutti li corni segnati col rispettivo numero. Ognuno pigli il suo, e vada in pace. Chi non è contento del corno che gli tocca faccia a baratto con li corni delli Compagni. Se avvanza qualche corno lo riprenderò al mio ritomo. Un altr’Anno poi si vedrà di far meglio.

    Voi poi Signora Carissima avvertite in tutto quest’Anno di trattare bene cotesti Signori, non solo col Caffè ché già si intende, ma ancora con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdoni, ed altri regali, e non siate stitica, e non vi fate pregare, perché chi vuole la conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per sera sarete meglio lodata, e la vostra Conversazione si chiamarà la Conversazione del Pasticcio. Fra tanto state allegri, e andate tutti dove io vi mando, e restateci finché non torno ghiotti, indiscreti, somari scrocconi dal primo fino all’ultimo.

    La Befana.

    2. A MONALDO LEOPARDI - RECANATI.

    [Recanati] Di casa ai 24 Decembre 1810.

    Carissimo e Stimatissimo Signor Padre. Il ritrovarmi in quest’anno colle mani vuote non m’impedisce di venire a testificarle la mia gratitudine augurandogli ogni bene dal Cielo nelle prossime festive ricorrenze. Certo, che ella saprà compatirmi per la mia sventura lo faccio colla stessa animosità, colla quale solea farlo negli anni trascorsi. Crescendo la età crebbe l’audacia, ma non crebbe il tempo dell’applicazione. Ardii intraprendere opere più vaste, ma il breve spazio, che mi è dato di occupare nello studio fece, che laddove altra volta compiva i miei libercoli nella estensione di un mese, ora per condurli a termine ho d’uopo di anni. Quindi è che malgrado le mie speranze, e ad onta del mio desiderio, non mi fu possibile di terminare veruno di quelli, che mi ritrovo avere cominciati. Tuttoché però mi vedessi inabile ad adempire all’atto di dovere, che la costumanza fra noi da qualche tempo addottata ha congiunto alla Sacra vicina festività; fece nondimeno la viva gratitudine ai di lei benefici da me gelosamente serbata nell’animo, che osassi anche in quest’anno di presentarmi a lei per augurarle a viva voce quella prosperità che di continuo le auguro nel mio cuore. I vantaggi da lei proccuratimi in ogni genere, ma specialmente in riguardo a quella occupazione, che forma l’oggetto del mio trastullo, mi ha riempito l’animo di una giusta gratitudine, che non posso non affrettarmi a testimoniarle. Conosco la cura grande, che ella compiacesi di avere pei miei vantaggi, e dietro alla chiara cognizione, viene come indivisibile compagna la riconoscenza. Se ella non conobbe fin qui questo reale sentimento del mio cuore, a me certo se ne deve il rimprovero, sì come a quello, che non seppe verso la sua persona mostrarsi così ossequioso come ad un figlio sì beneficato era convenevole di fare con un Padre sì benefico. Amerei, che ella illustrato da un lume negato dalla natura a tutti gli uomini potesse nel mio cuore leggere a chiare note quei sentimenti, che cerco di esprimerle colle parole. Non v’ha in esse, né esagerazione, né menzogna. Non potendo ella penetrare nel mio intemo può sicuramente riposare sulla testimonianza della mia penna.

    Rinnuovati i voti sinceri per la sua perpetua felicità mi dichiaro col più vivo sentimento Suo umilissimo obbligatissimo figlio Giacomo.

    3. A MONSIEUR LE COMTE MONALDE LEOPARDI. A LA MAISON

    [Recanati] De la Maison 24 Decembre 1811.

    Trecher Pere. Encouragé par vôtre éxemple je ai entrepris d’ecrire une Tragedie. Elle est cette, que je vous present. Je ne ai pas moins profité des vôtres oeuvres que du vôtre exemple. En effet il paroît dans la premiere des vôtres Tragedies un Monarque des Indies occidentelles, et un Monarque des Indies orientelles paroît dans la mienne. Un Prince Roïal est le principal auteur du second entre les vôtres Tragedies, et un Prince Roial soutient de le même la partie plus intéressant de la mienne. Une Trahison est particulièrement l’objet de la troisième, et elle est pareillement le but de ma Tragedie. Si je sois bien, ou mal réussi en ce genre de poesie, ceci est cet, que vous devez juger. Contraire, ou favorable que soit le jugement, je serais toujours Votre trehumble fils Jacques.

    4. A DON PAOLO [PAOLINA] LEOPARDI - CASA.

    [Recanati] 28 Gennaio 1812.

    Amico carissimo. Ricevo in questo momento il plico che voi m’inviate accompagnato da una obbligantissima lettera. Essa è ben degna per la sua brevità di esser commendata da’ Lacedemoni, e dagli altri popoli della Grecia, i quali dovendo rispondere in lettera ad alcuna inchiesta non iscrivevano talvolta, che la semplice parola «no». Il piacere che voi mi avete fatto col torre a copiare il mio picciol Compendio di logica non vi sembrerà forse sì grande quanto lo è in realtà. Un buon copista è assai raro, ed io non reputo lieve vantaggio l’averne ritrovato uno che sia conforme al mio desiderio. Il restauratore dell’ Italiana Poesia Francesco Petrarca lamentavasi che avendo egli in poche settimane condotto a fine il suo libro latino De Fortuna etc. non potea dopo più anni averne copia, che pienamente il soddisfacesse poiché di mille errori eran ripiene tutte quelle, che egli avea avute da’ vari copisti. Se io fossi vissuto al tempo di Petrarca, e l’avessi udito lamentarsi meco in tal modo avrei facilmente appacificate, ed acquietate le sue querele coll’insinuargli di darvi a copiar la sua opera, e son certo, che malgrado la sua delicatezza in questa materia egli ne sarebbe rimasto soddisfatto. Né crediate, che il mestier del copista sia da disprezzarsi. Teodosio uno de’ più grandi Imperatori d’Oriente s’impiegava ancor egli nel copiare gli altrui scritti, e non vivea che del danaro ricavato da questa non ignobil fatica. Voi potrete dirmi, che Teodosio non operava in tal modo perché di se degno riputasse un tal genere di lavoro, ma solamente per un effetto della sua profonda umiltà, e virtù Cristiana, ma io per convincervi di quanto ho preso a dimostrarvi vi apporterò un altro esempio. Non ci dipartiam dal Petrarca. Egli avendo intrapreso di fare un viaggio, non ben mi rammento per qual fine, e ritrovata cammin facendo un’opera di Cicerone, di cui non avea per anche contezza, non istimò cosa vile il copiarlo da capo a fondo. Ma è ornai tempo di finirla poiché mi avvedo che avendo fatto l’elogio dello stile laconico sto per cadere nei difetti dello stile Asiatico. Sono affezionatissimo per servirvi di cuore, Giacomo Leopardi.

    5. A FRANCESCO CANCELLIERI - ROMA.

    Recanati 15 Aprile 1815.

    Stimatissimo Signore. Avendo inteso ch’ella si era compiaciuta di destinarmi in dono una sua nuovissima opera, io mi disponeva a renderle somme grazie di questo inaspettato favore, ed attendea con impazienza il libro, per gustare il piacere della sua lettura. Io non avrei mai osato d’imaginarmi di vedere in esso parola di me. Di gratissima sorpresa mi fu il ricevere la desiderata opera, ma nel trovarla accompagnata da una obbligantissima lettera, e nel ravvisarvi entro il mio nome io fui confuso e sopraffatto di riconoscenza. Un uomo affatto sconosciuto, e che non può attendere una miglior sorte, vedendosi onorevolmente rammemorato in un’egregia opera, non può non concepire sentimenti di gratitudine verso il benevolo autore. Egli ha diritto di sperare che il suo nome giunga alla posterità con quello dell’insigne scrittore che ne ha fatta menzione. Noi non conosceremmo Achille, se Omero non ne avesse parlato; ma la immortalità del poeta garantisce quella dell’eroe. Io mi veggo così assicurato di vivere alla posterità nei suoi scritti, come i grandi uomini vivono nei propri. Ma io nomino Achille, e dovrei piuttosto rammentare Tersite. Non altro in fatti che il luogo di questo infimo Greco mi conviene nella sua opera, in cui infiniti esempi di prodigiosa dottrina ricercati con ammirabile diligenza e verificati con esattezza geometrica s’incontrano ad ogni tratto. Io mi anniento nel vedermi innanzi a quei grandi personaggi, che abbracciavano tutto lo scibile coll’estensione del loro sapere, e che la natura suol lasciare nel loro secolo senza competitore, in quella guisa che tolse Lucrezio dal mondo nel giorno, in cui Virgilio depose la pretesta, e Galilei nell’ anno della nascita di Newton. Io ho divorato il suo libro, che non può essere letto altrimenti, come il librorum helluo, di cui ella parla. Ogni linea mi è sembrata preziosa, ad eccezione di quelle in cui è fatta menzione di me. Non altri che il suo buon cuore potè farle dar qualche prezzo alle mie tenui fatiche, che non poteano attendere se non di esser sepolte nell’obblivione, e non altri che un insensato potrebbe dimenticare la gratitudine che le debbo. Frattanto, poiché si è compiaciuta già di farmene l’apertura, desidero che ella mi accordi il diritto d’incomodarla ancora qualche volta. Il commercio co’ dotti non mi è solamente utile, ma necessario, ed io cercherò con ogni studio di profittare delle istruzioni che ne riceverò. Sommo favore mi farà ella, se vorrà significare all’illustre sig. cav. Akerblad i miei più vivi ringraziamenti per l’esame che ha preso cura di fare del mio libro, e per il giudizio veramente giusto e sensato, che non ha sdegnato di pronunciarne. Ella mi creda, che conserverò verso di lui, egualmente che verso la sua persona, una gratitudine immortale, e desidero che la mia età possa garantirmi dal sospetto di simulato. Spero che ella, e l’egregio sig. cav. non avranno a noia di esaminare similmente qualche altra debole produzione, che sarei in grado d’inviar loro. Il mio signor Padre, ch’ ella m’impose di salutare nella sua compitissima, le ritorna i suoi più distinti ossequi, e si unisce meco a renderle grazie di ciò che ella ha voluto fare in mio favore. Se vorrà onorarmi dei suoi comandi, io profitterò con trasporto della occasione per accertarla della verità delle mie espressioni, e della profonda stima, con cui mi dichiaro di lei, stimatissimo Signore, devotissimo obbligatissimo servitore Giacomo Leopardi.

    6. A FRANCESCO CANCELLIERI - ROMA.

    Recanati 15 Luglio 1815.

    Stimatissimo Signore. Era gran tempo che cercava l’occasione di richiamarmi in qualche modo alla sua memoria, giacché ella non era partito mai dalla mia. Il timore di incomodarla, e di turbare indiscretamente i suoi troppo gravi studi, fece che io dilazionassi sino al momento, in cui giudicai di dovermi far superiore ad ogni scrupolo, pensando che avea finalmente a fare con un uomo, il quale fra tante aveva anche imparato a sopportare le molestie senza impazienza.

    Riceverà dal mio sig. Zio Cav. Carlo Antici, in mio nome, il disegno in abbozzo di una lapide con iscrizione mutilata. L’originale in marmo è qui presso di noi. La parola «Iustinian.» che vi si legge, e la seguente semiparola «... eratore» che significherà, se non erro, «Imperatore», mostra-’ no che abbiamo in essa un’iscrizione del medioevo. Come tale infatti essa manca totalmente di quello che il Card. Garampi chiamava legittimo sapore di sasso, e di bronzo. Nondimeno avrebbe potuto esser grata al raccoglitore delle iscrizioni di quel tempo il Sig. du Fresne. Tre lettere basteranno per racconciare la parola di cui nell’iscrizione si legge solamente «... oria». Leggeremo dunque «Memoria»; poiché alla prima parola della linea seguente mancano pure tre lettere cioè «Imp». Se volessimo prendere la parola «Dificatus» in significato di «Deificatus» non ci mancherebbero argomenti per appoggiare la nostra congettura. Nella lapide stessa avremmo l’Aquila, il famoso segno della Consecrazione. Potremmo osservare, ciò che è già molto noto, che si continuò a divinizzare anche sotto gl’imperatori Cristiani. Se gli esempi di questo costume che il Panvini ha raccolti non vanno più oltre dell’impero di Graziano, ciò non mostra che dopo il tempo di questo Imperatore la consuetudine rimanesse abolita, ma solo che il Panvini non ebbe monumenti per continuar la sua serie. Curioso sarebbe il rimarcare, che il furbo Giurisconsulto Triboniano dava ad intendere appunto a Giustiniano, che egli non morrebbe, ma in carne, ed ossa sarebbe trasportato in cielo a guida degli antichi semidei; il che equivale ad una specie di Divinizzazione. La cosa è riferita da Esichio Milesio, che vivea al tempo dello stesso Giustiniano, e da lui l’ha appresa Suida. Ma forse tutte queste prove poco varrebbono, poiché probabilmente «dificatus» non è che una semiparola, e deve leggersi «edificatus» prendendo la e dalla precedente semiparola «... eratore». Ella deciderà con un’occhiata, e scioglierà in un momento que’ dubbi che io non potrei porre in chiaro con un mese di studio. La lapide non mostra segni di contraffazione. Essa ci fu portata da un uomo di campagna, e il prezzo che questi ne richiese fece vedere che né egli, né alcun suo corrispondente l’avea contraffatta. È coperta di quel leggiero strato o patina come vogliam dire, che caratterizza i monumenti antichi, e manda odore disgustoso, il quale sembra mostrare che essa è stata dissotterrata.

    Ella farà della copia di questa lapide quell’uso che più le piacerà. Forse essa non avrà nessun pregio e sarà solamente atta a far inarcare le ciglia alle genti di provincia. In ogni caso io gli sarò sempre tenuto per avermi data occasione di trattenermi qualche momento colla sua persona benché di lontano Io apprenderò da lei a giudicar meglio delle cose, e in cambio di un’insulsa iscrizione, riceverò dei solidi ammaestramenti e delle utili istruzioni. La prego dei miei distintissimi ossequi al sig. Akerblad, di cui non conosco che il nome, la fama e la bontà che ha usata verso di me. Ella può credere che non dimenticherò mai i sentimenti giustissimi che per lei ho concepiti, e che non a parole, ma in realtà sarò sempre di lei Stimatissimo Signore, devotissimo obbligatissimo servo Giacomo Leopardi.

    7. A MONALDO LEOPARDI - MACERATA.

    Recanati 12 Agosto [1815].

    Signor Padre mio carissimo. Non avendo l’altra volta potuto risponderle come desiderava, voglio farlo adesso, per non defraudarmi di una soddisfazione che mi dispiacque di non aver potuto proccurarmi.

    Il piacere che suo figlio prova nel trattenersi con lei può esser compreso solamente da un padre com’ella.

    La sua assenza che lascia un gran vuoto nella mia vita ordinaria mi affliggerebbe sensibilmente, e dopo qualche tempo mi riuscirebbe intollerabile, se non conoscessi ciò, che la cagiona. Vedendo che essa ha per oggetto di produrre dei veri, e sodi vantaggi per i nostri amatissimi simili, che esiggono dal nostro cuore, e dalla nostra buona volontà i più grandi sacrifizi, mi consolo di una cosa, che mi amareggerebbe, mentre rifletto ancora che tutti quelli che hanno voluto travagliare per il bene dello stato, o per farsi un nome che viva onorato, e caro nella memoria dei posteri, hanno dovuto far sacrifici molto maggiori. L’interesse vivissimo che io prendo per tutto ciò che riguarda il bene della sua persona non le può essere ignoto. Io dubito se ella stessa ne abbia tanto per se medesima. Ella conoscerà che io non esagero quando le dico, che ciò che le avviene di dispiacevole, e che giunge a mia cognizione mi rende inquietissimo, e mi turba grandissimamente. Sarei bene afflitto se potessi sospettare che ella dubitasse della mia corrispondenza alla tenerezza, che ella ha per noi. Il solo ricordarmi questo mio dovere è un rimprovero per me, mentre mi fa credere di aver dato luogo a qualche sospetto sopra materia troppo gelosa. Ciò mi avverte però ad esser più cauto nell’avvenire.

    La posso assicurare che i sentimenti che le ho espressi sono communi a tutti i miei fratelli, in ispecie a quello che io conosco più intimamente, né infatti si può aspirare a divenir saggio senza pensare in questa guisa. Essi m’impongono di salutarla da parte loro, e di baciarle la mano, ciò

    che io faccio in loro e in mio nome, pregandola a credermi immutabilmente suo affezionatissimo figlio Giacomo.

    8. AL CARDINALE [MATTEI] - ROMA.

    Recanati 28 Decembre 1815.

    Eminentissimo Principe. Il fregiare le opere proprie col nome di personaggio illustre fu spesso orgoglio, interesse, costume. L’umiliare all’Em.za v.ra R.ma questo mio componimento è rispetto amore riconoscenza. Rispetto l’augusto e sacro carattere che la veste, amo le virtù somme che ne la rendono degna, e professo devota gratitudine alla parzialità con cui le è sempre piaciuto di riguardare me stesso, e la mia Famiglia. A compatire la piccola opera mia la ecciterà il riflesso alla mia età poco più che trilustre, e a perdonarmi il coraggio di dedicargliela le sarà scorta quella abituale bontà che la rende amabile a tutti. Io chiamerò compensate le primizie dei miei travagli, e fausti gli esordii della mia letteraria carriera, avendone potuta desumere l’opportunità di umiliarmi al bacio della Sacra Porpora, e segnarmi con profonda venerazione. Dell’Eminenza vostra Reverendissima umilissimo devotissimo obbligatissimo servitore Giacomo Leopardi.

    9. A FRANCESCO CANCELLIERI - ROMA.

    Recanati 6 Aprile 1816.

    Pregiatissimo Signore. Il mio signor Zio mi ha communicata la di lei lettera che in parte riguarda me. Da essa ho appreso che ella soffre ancora molti incomodi di salute. L’accerto che io sento di ciò un vivissimo dispiacere, e con ribrezzo m’induco a molestarla, sperando però che ella non vorrà prendersi per l’incommodo che le do maggior briga di quella che richiede l’affare, per se stesso molto poco interessante. Ella dice che non può determinarsi nulla intorno ai Codici Vaticani se non se ne sa la qualità, ciò ch’ è evidente, e molto più, se non si sa in qual lingua siano. I Codici dunque dei quali desidero la collazione, sono Greci, come ella aveva preveduto, e contengono i così detti Cesti di Giulio Africano, quell’opera guasta e corrotta in modo, che il Boivin, il Puchard, lo svezzese Norrel e il Lami, avendo anche messe le mani all’opera, giudicarono impossibile di tradurre, e d’intendere: opera nondimeno, che, come i dotti hanno osservato, contiene cose affatto singolari, e quasi ignote non essendosene potuto far uso per la somma difficoltà che si trova nel leggerne un solo periodo. Io avendo raccolte tutte le opere e i frammenti di quell’Autore, se non erro, poco conosciuto, avendole emendate, e fomite di note perpetue, avendo scritto, colla esattezza che mi è stato possibile d’impiegare, un commentario latino sulla vita e gli scritti di Africano, ho preso ad esaminare i così detti suoi Cesti, e coll’aiuto di cinque o sei Codici, dei quali il Lami ha poste le varianti nella edizione greca che ne ha data, ho tradotti ed emendati quasi intieramente i primi capi 27 dell’opera, che sono i più corrotti, e i più difficili.

    So che le biblioteche di Europa possono somministrarmi grandi aiuti; che i Cesti esistono a Milano, in Inghilterra, in Irlanda, in Baviera; e, forse con buona suppellettile di varianti e d’illustrazioni, in Amburgo. Ma io riserbo a far tutto per procacciarmene la collazione in un tempo in cui questo mi sia possibile. Mi rivolgo ora solo alla biblioteca Vaticana, dove, se non m’inganno, i Cesti di Africano si trovano in due Codici: l’uno, come credo, Vaticano propriamente detto, l’altro della fu biblioteca di Cristina di Svezia. Non posso darle alcuna notizia più precisa intorno ad essi, perché nuli’ altro ne so io medesimo. Ella, ed i Bibliotecari della Vaticana saranno assai meglio informati. Potrebbe darsi che io prendessi qualche grosso abbaglio, perché gli autori, che mi han data notizia di quei Codici non sono molto esatti. Ella corregga i miei errori, e mi accordi perdono. La collazione dei Codici, qualora esistano, come ho detto, potrà esser fatta sopra il tomo VII delle opere del Meursio stampate in Firenze, che contiene i Cesti di Africano; ovvero sopra l’edizione dei Matematici antichi di The’ venot, fatta in Parigi nel 1693 in foglio. Benché l’opera sia appena leggibile, la collazione non dovrebbe esserne molto diffìcile, poiché io non bramo sapere se non la pura lezione del Codice, tuttoché viziosa anche più di quella dell’edizione. Ad ogni modo, o la collazione abbia ad essere facile o difficile, la prego ad informarmi esattamente di tutto quello che è necessario per averla senza danno o incomodo di alcuno.

    Sopra tutto la scongiuro a fare ogni cosa come e quando le piacerà con tutto il suo commodo, e a lasciare anche da banda l’affare che le ho raccomandato, quando avesse a riuscirle troppo molesto. La sua salute è preziosa. Ella ne abbia tutta la cura possibile, e rifletta che una persona di gran corporatura è malata insieme con lei, vale a dire la Repubblica letteraria. Ardisco lusingarmi che ella non avrà a farsi violenza per persuadersi che io sono e sarò sempre di lei, pregiatissimo Signore, devotissimo obbligatissimo servo Giacomo Leopardi.

    10. AD ANGELO MAI - MILANO.

    Recanati [s.d., ma Maggio 1816]

    Altri donano dedicando; io vi dedico un dono, che voi mi avete fatto. Frontone è vostro, e ovunque si ragionerà di lui, si parlerà anche di voi. La vostra fama non morrà, ove non muoia quella del secondo fra gli Oratori Romani. È pur bella cosa aver reso il suo nome inseparabile da quello di uno dei più grandi uomini, che i secoli abbiano ammirati! Rallegratevene; avete bastantemente provveduto alla vostra gloria. Io, nella età in cui mi trovo, non posso averlo fatto, e con un ingegno sì piccolo non posso sperare di farlo. Tuttavolta ho cercato di servire la mia patria come ho potuto, e di fare, se a me tanto è possibile, che l’Italia conosca il prezzo del dono, che ha ricevuto da voi; l’Italia; poiché, ne son certo, le altre nazioni l’hanno già conosciuto, o lo conosceranno di corto. Il vostro dono è caro a me in singolar guisa, di che saprete la cagione se non vi recherete a noia il leggere la Vita di Frontone, che ho ardito scrivere dopo di voi. Altri potrà fare della vostra scoperta miglior uso di quello che io ne ho fatto, ma sentirne gioia più grande che non io, nessuno.

    Ricevete questo piccolo presente, e siate certo che non potrò mai rendervi giusto cambio del piacere che mi avete dato.

    11. A FRANCESCO CANCELLIERI - ROMA.

    Recanati 19 Maggio 1816.

    Pregiatissimo Signore. Per mezzo del mio Sig. Zio Antici le inviai, sono già molti ordinari, una mia lunga lettera, in cui ardiva pregarla di qualche favore. Supponendo che essa si sia smarrita, e vedendomi sul punto di spedire a Milano il mio Frontone, la supplico a darmi le notizie che può, sopra il Programma di M. Cor. Frontone di Freytag, che Ella mi accennò in una lettera indirizzata al mio Sig. Zio. Mai non ne ha fatta parola nella sua edizione latina: ed io però le sarò sommamente tenuto, se potrò per suo mezzo venire in cognizione di questo qualunque siasi opuscolo, dal cui titolo non mi è possibile rilevarne il contenuto. Ella cominci a comandarmi, e continui ad avermi per suo devotissimo obbligatissimo servo Giacomo Leopardi.

    12. AD ANGELO MAI - MILANO.

    Recanati 31 Agosto 1816.

    Pregiatissimo Signore. Non prima del 27 spirante ho ricevuto dalle mani del Sig. Stella la sua cortesissima lettera, colla quale, se quanto si fa per lo sapere potesse chiamarsi fatica, e se ciò che ho fatto io per la gloria di Frontone potesse servire ad altro che ad oscurarla, ella me ne avrebbe ricompensato abbondantemente. Ma pur troppo e nella traduzione e nelle illustrazioni e nei preliminari avrà ella ravvisato il lavoro precipitoso e compito due mesi prima di venirle nelle mani. Tutto abbisognerà di emendamento, ma quanto alla Dedica, non rimproverandomi la mia coscenza se non di aver detto troppo poco, la supplico a permettere che la si rimanga qual è, e l’assicuro che non ho ancora appreso ad adulare; e già vi vorrebbe molto, perché le lodi date alla sua insigne e veramente esemplare φιλοπονία, ed alla sua, per nostra mala ventura, straordinaria dottrina, fossero adulazioni.

    Ben graditissime ed utili sopra modo sonomi riuscite le osservazioni che ella non ha sdegnato di fare sopra il mio lavoro* e se io ne abbia cavato profitto ella ne giudicherà, esaminato il foglio che le acchiudo. Assai mi duole che le siano troppo poche, e più mi dorrebbe se oltre il desiderio grandissimo che ho io di riceverne delle altre dalle quali possa ugualmente trar vantaggio, vedessi defraudata la speranza datamene dal Sig. Stella, il quale mi ha detto, che ella andava disaminando più minutamente il mio scritto. Giudice assoluto io la costituisco dell’opera mia, e se ella vorrà compiacersi di continuare e condurre a fine le sue savissime osservazioni, e pigliarsi la briga di porre ai loro luoghi i cambiamenti che le invio, fatti dietro i suoi avvisi, io reputerò che l’opera non abbia mestieri d’altro esame, e che quanto è emendabile, sia già emendata. Veggo bene che io usurpo momenti che dovrebbono esser sacri a tutta la Repubblica delle lettere, svolgendola da occupazioni utili alla universale letteratura, e ne ho rimorso; ma che debbo io dirle? L’amor proprio è assai potente, e fa che si desideri per sé solo quello che dovrebbe impiegarsi pel bene di tutti. Tanto io mi lusingo del favore, che le ne riferisco anticipatamente grazie senza numero; e se la lusinga è vana, ella le accetterà per quello che già mi ha fatto e per le gentilissime espressioni che le è piaciuto di usar meco, e ad un tempo mi riconoscerà pel di Lei, Chiarissimo e pregiatissimo Signore, devotissimo obbedientissimo servo Giacomo Leopardi.

    Edizione milanese.

    p. 48. v. 10. - Il Traduttore credendo nuovo il proverbio e però ignoto il suo significato per non aver consultati i dizionari né atteso alla nota dell’Autore, ha tradotte alla lettera le parole che dovranno ora voltarsi così: «Guarda in chi mai ti fidi a chius’occhi».

    p. 50. v. 13. - Il Traduttore ha creduto che hospitantur avesse qui un significato particolare, e dovesse ridursi al suo primo valore derivato da hospes, e però valesse il medesimo che trovarsi come ospiti non come abitanti presso Matidia, sembrandogli rilevarsi questo dal rimanente della lettera e specialmente dalla parola nunc premessa.

    p. 55 v. 5 .-Et si ad aquas ec. Tutta la traduzione del luogo è falsa non solamente nella unione del cito col precedente membro del periodo, ripreso dall’ Editore, e cagionata in parte dalla mancanza d’interpunzione dopo agas, ma anche nel rimanente. Bisogna porre: Scrivimi, di grazia, senza indugio, se e quando vai a prender le acque e come ora ti senta perché torni etc.

    p. 109. v. 9. - Non intendo la osservazione del Ch. Editore. Ex litteris a me scriptis, die’egli, dalle lettere a me scritte. A me latino, non vale a me italiano, ma son certo che a me, nella Edizione, sia errore di stampa per adme,Q però tradussi : dalle lettere che mi scrissero i generali ec. né credo che questa traduzione abbisogni di emenda.

    p. 121. v. 10. - Convien tradurre: Già Gracco dava l’Asia a fitto e partiva Cartagine per teste, secondo l’ottima osservazione dell’Editore.

    p. 133. v. 9. - Piace al traduttore di scrivere tale è la sua indole, giusta il parere dell’Editore, sebbene trattandosi nel fine della lettera di una malattia di Montano, avesse dapprima creduto che le parole ita generatus est appartenessero al fisico piuttosto che al morale.

    p. 143. v. 6 - Senza dubbio secondo l’osservazione del Ch. Editore dee tradursi: Anche a me essendo venuto a trovarmi nella mia villa suburbana, in tempo che mi sentia men bene, frase del Boccaccio, non la finì mai ec.

    p. 200. v. 5. - Il traduttore riconosce il suo errore nato principalmente dall’aver egli considerata la parola vesperi piuttosto come genitivo che come ablativo, e però cancella la nota, e ripone: perché dopo il bagno della sera la si trovava malferma.

    p. 212. v. 4. - Conviene emendare la inavvertenza che ha fatto porre lusingato per lusingare, quasi blandiir fosse verbo attivo.

    p. 224. lin. 15. Piace al traduttore come al Ch. Editore di emendare il luogo in tal guisa: Sì sì anche lo stesso Platone sino al fine estremo della vita si cuoprirà del mantello ec. Il Traduttore avea creduto che Platone si prendesse per la setta, come spessissimo avviene presso gli Scrittori Greci e Latini, ma quel doppio ipsi ben considerato gli persuade che qui si parli del solo Platone.

    p. 250. v. 11.- Fatica dee veramente porsi in vece di sventura.

    p. 252. v. 5. - Si accorda il traduttore col Ch. Editore in credere che sia bene porre: della loro affettatamente armoniosa disposizione.

    ivi v. 8. - Il traduttore non ha mai posta la preposizione o il segnacaso alle parole che nel testo si trovano tra lagune, in ablativo o dativo simile, perché era impossibile sapere il loro vero significato. Qui però egli conosce come l’esimio Editore che clipeo vale collo scudo e però rifabbrica il luogo così: questo genere di eloquenza. T’è mestieri combattere nelle orazioni... «molto»... collo scudo di Achille, non agitar la piccola targa etc.

    p. 253 v. 7. - Il Traduttore dubita anch’egli col Ch. Editore della retta traduzione del passo: An maiorem tragaediam ec.; ma trovandolo molto oscuro e non sapendo rinvenire altra traduzione che soddisfacciagli prega moltissimo e supplica il Ch. Editore a manifestargli la sua opinione o congettura sopra quel luogo, o almeno fargli vedere, ove ciò sia vero, che egli non è il solo che non l’intenda.

    p. 314. 315. - Il traduttore non ha creduto che molto importasse il trasportare questi frammenti, e loro ha lasciato il luogo che occupavano nella edizione latina. Potranno però esser collocati in fine del 2. do libro adMarcum, ove il Ch. Editore lo giudichi a proposito.

    p. 315. - Credeva il Traduttore che si potesse dubitare che quelle stesse parole che si leggono frammischiate agli estratti da Sallustio fossero d’altri che di Frontone o di M. Aurelio, ma accertato del contrario dall’Editore toglie via la nota.

    p.338.v. 15.-Il traduttore benché avesse creduto che le parole haud umquam contemnendum dovessero riferirsi ai pericoli che portava seco il nome di nemici de’ Romani, e però il luogo significasse nome da non contarsi per poco, da non prendersi per un nulla, da non aversi per cosa facile a sostenere, s’induce volontieri, persuaso dal Ch. Editore, a scrivere: il mai dispregevol nome.

    p. 347. v. 3. - Il traduttore desidera grandissimamente d’intendere il parere del Ch. Editore intorno alle parole: eas eludere alto mari cernuantis, che crede bensì di aver mal tradotte, ma che forse non tradurrebbe ora meglio.

    p. 386. v. 3. - Vede il trad. di aver preso equivoco con οἱ κακὰ πρὰττοντες ed οἱ κακῶς πρὰττοντες (che qui avrebbesi piuttosto dovuto dire ξαντες) e cancellata la nota, ripone altri dagl ’infelici che desiderano esser liberati dai mali loro.

    p. 390. v. 14. - Frontone ha posto l’ἄλλως; per distinguere i semplici naviganti dai nocchieri, padroni, mercadanti ec. e quando dopo aver nominato tutti codesti, si è tradotto: e tutti coloro che navigano, non si è egli reso anche l’ἄλλως? Se dicasi che di lustro a un tempio sono i sacerdoti che ministrano, i maestrati che assistono, e tutti coloro che vi si trovano, non si comprende tosto, che vuoisi parlare del popolo, e sarà forse necessario dire e tutti quelli che in qualunque altra guisa vi si trovano? Frontone dicendo καὶ πάντες οὶ πλὲοντες in luogo di καὶ οὶ ἄλλως πλὲοντες non avrebbe egli detto lo stesso?

    p. 403. - Convien togliere dalla nota la citazione del Busbec.

    p. 414. v. 7. - In realtà è meglio tradurre più alla lettera: come la fama del coro delle muse venendo da una sola arte, è divisa per ciascuna di loro.

    p. 426. v. 16 e 424. - Le autorità allegate intorno alle voci ύποδίδωμι e σιδηρὸς (tranne quella di Dione, di Affricano, e delle Costituzioni Apostoliche, oltre i Dizionari citati, e le osservaz. sulla voce di Frontone, che senza dubbio non deriva da σιδηρὸς ma da σιδήρεος) sono di scrittori di bassi tempi; ma valgono a mostrarne l’uso, e può osservarsi che il Du Fresne, il quale pur si servì degli autori allegati, non pose già l’addiettivo σιδηρὸς tra le voci greco-barbare.

    p. 436. v. 13. - Vuolsi far più esatta la traduz. così: Pur tu medesimo affermerai non doversi ciò che si ricerca dimostrare con quello appunto che è in controversia.

    ivi. v. 21. - Si ripone: Lascerai la questionata consuetudine di quest’ultime fra le cose controverse. Controverso in verità, secondo l’esempio addotto dalla Crusca, vale contrario, ma usandosi dagli autori approvati il verbo controvertere nel senso di disputare sembra che il participio controverso debba avere lo stesso significato.

    Discorso preliminare.

    p. XII. v. 16. - Dopo le parole: e capace di fare onore alla stirpe di Frontone, sarà espediente aggiungere, giusta l’ottima osservazione del Ch. Editore: ove non voglia citarsi un Frontone Cazio più antico del nostro, mentovato solo dal giovine Plinio.

    p. XIII. v. 13. - Il traduttore sapea ottimam. che il Ch. Editore avea conosciuto Frontone di Emesa e citato Suida, e però ha detto solo che egli non ha fatta parola dell’errore di chi lo ha confuso col nostro, omissione di cosa non necessaria, che il traduttore non ha notata, se non per far vedere che egli non ripeteva, ma come che sia, aggiungea.

    p. XX. v. 10. - Essendo costume degli eruditi (ora con ragione trasandato dai Tedeschi e dagl’inglesi, ma necessario in Italia) quando usano passi greci, di apporvi la propria trad. e non l’altrui ovvero di citarne l’autore, credè il trad. che la versione del passo di Eliano fosse dell’Ed. Vede ora di essersi ingannato, ma certo quella trad., benché non prescelta a bella posta, favorisce più che non deve la sentenza di chi ne fa uso, a differenza di quella di Teodoro Gaza la quale ha et Frontini nostrae aetatis viri consularis. Converrà però cangiare il passo del trad. in questa guisa: L’Ed. lo reca tradotto dal Robortello così. Volonterosamente il trad. modera nella stessa pag. le sue espressioni scrivendo: che come egli inclina a credere, esercitò Front, sotto Adriano. Due sono gli argomenti che adduce in favore della sua congettura.

    p. xxiv - Sembra che l’essere stato Frontone vecchissimo quando scrisse la lettera de Nep. amisso non provi nulla. Che vale cercare le epoche della sua vita quando si conosce la data della sua lettera? Tutta la sua vecchiezza non può fare avanzare questa data di un passo. Riman sempre certo quello che il trad. ha osservato che se la lettera fu scritta al tempo della spedizione contro i Catti, il nipote di Frontone supposto avere sei o sette anni verso il fíne dell’impero d’Antonino Pio ne aveva allora circa dieci, e se fu scritta al tempo della guerra Marcomannica (che è men verosimile per la ragione accennata nel Discorso) ne aveva circa quindici. Se il Ch. Ed. pensa che egli ne avesse di più, viene a dire conseguentemente che egli era fanciullo al tempo di Antonino Pio; se di meno, non ha ragione per farlo perché le espressioni di Frontone (p. 208. ^ 4.) non ve lo spingono in verun modo. L’epoca del Consolato di questo Nepote concorda benissimo, come si è dimostrato, con quella della sua nascita: e quanto alla congettura dell’Olivieri non è da farne caso.

    13. AD ANTONIO FORTUNATO STELLA - MILANO.

    Recanati 15 Novembre 1816.

    Ornatissimo Signore. Non so se le abbia dato nel genio l’articolo sopra il Salterio italianizzato, ch’ebbi il piacere di prometterle a voce e che ho poi veduto inserito nello Spettatore. Se non le spiacciono i miei articoli, eccolene un altro già fatto, e sarò pronto a servirla anche di altri, solo ch’ella mi mostri di desiderarli, e mi accenni gli argomenti sopra i quali le occorrebbero. Siccome io non ho rigettato che il saggio di traduzione annesso al Mosco, converrà o dopo terminato l’inserimento della Batracomiomachia, o quando mèglio tornerà, porre nello Spettatore l’epigramma sopra Amore errante, e l’Idillio che ha per titolo il Bifolchetto, le quali due cose sono nel libretto del Mosco prima dell’indicato saggio. È necessario pubblicarle perché mancano al compimento delle poesie di Mosco, e sono state promesse da me nel discorso preliminare inserito nel n. 57 dello Spettatore. Se il sig. Tosi si compiacesse, per mantenere la nostra amicizia, e per istruirci dei tanti aneddoti e notizie letterarie che egli conosce, di scriverci qualche lettera, ci farebbe cosa’molto gradita. Le scrivo a piedi il titolo di un libro che si desidera. Ella mi creda suo vero servo ed amico Giacomo Leopardi.

    Titolo del libro che si desidera prontamente per ispedizione al prezzo medio dei tre annunziati;

    Porphyrii, Eusebii, Philonis Judaei Opera et Fragmenta novissime detecta. Mediolani, typis regiis, 1816.

    14. A GIUSEPPE ACERBI - MILANO.

    Recanati 17 Novembre 1816.

    Pregiatissimo Signore. Avendo io sempre non solo stimato come ogni savio, ma anche amato per certa mia particolare inclinazione la Biblioteca Italiana, m’è stata cosa gratissima il ricevere cortese lettera dal Direttore di lei. L’articolo sopra il Bellini fu scritto da me in tempo che non sapea dell’autore di quelle Conversazioni d’Eliso che, come è conveniente trattandosi di morti, puzzano tanto di sepolcro e d’obblio, per cagion delle quali veggo bene che giusta prudenza le vietava di farlo pubblico. Lodai il Monti perché avendolo veduto lodato in qualche articolo della Biblioteca Italiana, come in quello di Mad. di Staèl e nella Lettera al Bettoni sopra i Ritratti degl’illustri Italiani viventi, l’aveariputato maggior dell’invidia. Scrissi l’altro articolo, mosso ad ira non tanto dalle opinioni della Dama quanto dalla miseria de’ suoi nemici. Ma già prevedea che di simili articoli sarebbe stata gran folla, ed Elleno ottimamente hanno avvisato di sopprimere quella quistione che agl’indifferenti venia in fastidio, e all’Italia non facea onore. Perciò Ella non ha potuto mandar fuori veruno de’ miei articoli, ma molto più per quello che Ella non dice e debbo dir io, cioè che ambedue erano indegni di venire in luce nella sua preclarissima Biblioteca. Le rendo grazie della obbligante maniera che ha voluto usar meco, e se co’ miei scritti potrò recar mai qualche minimo giovamento al suo Giornale, benché io sia persuaso di noi poter meglio in altra guisa che tacendo, farò quanto sarà in me per mostrarle sempre più chiaro che sono di Lei Pregiatissimo Signore umilissimo obbedientissimo servo Giacomo Leopardi.

    15. A FRANCESCO CANCELLIERI -, ROMA.

    Recanati 25 Novembre 1816.

    Stimatissimo Signore. Il Cav. Antici mi ha fatto leggere il paragrafo della Sua lettera ultima che riguarda me, pel quale e per la memoria che di me conserva le debbo già infinitamente. E nondimeno, invece di sminuire il mio debito, vengo ad aumentarlo col supplicarla di nuovo favore.

    Ella mi dice quello che io già prevedea, che in cotesta città nessuno Stampatore può mettersi all’impresa di stampare un libro a suo conto. Ora io vorrei servirmi dell’altro mezzo che suol valere per tutto, ed è quello dei contanti, e però prendo a incomodarla. Bramerei che Ella si compiacesse dirmi precisamente quanta spesa si richiederebbe a fare stampare costì il Libretto delle Inscrizioni Triopee che le faccio tenere dalla stamperia che Ella giudicherà a proposito, senza gran lusso, con decente carta e caratteri specialmente greci che vorrei buoni e corretti, nel sesto presso a poco del manoscritto, o in quello che le parrà più opportuno. Non desidero che se ne tirino più di 250 copie, o all’intorno. Saputo a queste condizioni il prezzo preciso del lavoro, se Ella vorrà notificarmelo, io mi regolerò dietro il suo indizio.

    Condoni quest’altra noia e la consideri come testimonio della confidenza che ho nella sua bontà, già tante volte sperimentata. Bramo grandemente migliori nuove della sua salute, di quelle che ha date al Cav. Antici. La prego non le sia grave d’informarmene quando mi onori di sua lettera, e se m’è possibile di ricambiarle in alcun modo le sue grazie, la supplico a comandarmi, e mi troverà sempre il suo devotissimo obbligatissimo servo Giacomo Leopardi.

    16. AD ANTONIO FORTUNATO STELLA - MILANO.

    Recanati 6 Decembre 1816.

    Stimatissimo Signore. In risposta alla sua gratissima del 27 corso le ritorno i miei saluti per il sig. Tosi, e la ringrazio di ciò che cortesemente mi dice intorno all’articolo sul Salterio e al Discorso sopra la fama di Orazio. Il suo favorevole giudizio sarà certamente opera della sua gentilezza, non del mio merito; e lo stesso dico delle lodi ch’ella scrive di aver ricevute delle mie traduzioni, le quali, a dirle schiettissimamente il mio vero e immutabile parere, che non nascondo a veruno, eccetto quella del primo canto delL’Odissea, che ritoccata potrà passare, sono tutte cattive e pessime; e intendo parlare anco dei due discorsi preliminari, che in fatto di lingua sono esecrabili. Quello sopra Orazio sarà più corretto, e così sempre ogni mia cosa appresso. Farò quel che potrò intorno agli articoli che ella bramerebbe per la sua Rivista letteraria. Quello sopra la traduzione del Bellini, che ella mi accenna, sarebbe appunto della mia sfera, e sappia che io ho sempre riguardata quella traduzione come opportunissima a farmi prender la penna, e che ho anche in pronto i materiali di un lungo articolo sopra il progetto del Bellini mandato da me il maggio p. p. alla Biblioteca italiana, ma non pubblicato, per ragioni indicatemi dall’Acerbi in una sua lettera. Ma, come ella vede, per questa sorta di articoli sarebbe necessario un gran numero di commissioni, non potendo io avere quei libri, qualunque si fossero, che facendoli venire espressamente per me, colla sicurezza che, fatto l’articolo, mi diverrebbono inutili. E quanto al Bellini si aggiunge l’altra difficoltà che nella nostra libreria né altrove, in questa miserabile città e provincia, si trova il testo greco di Callimaco. Pure, come le ho detto, farò quanto potrò e poiché Ella sarebbe contenta principalmente di qualche articolo sopra opere spettanti a lingue antiche, ne farò forse uno sopra l’Alicamasseo del Mai, o sopra il Porfirio, Eusebio ec. dello stesso. Dico forse, perché né P. Alicarnasseo né il Porfirio né tutta la spedizione del 9 corso ci è pervenuta, e noi la stiamo attendendo con grandissima impazienza, ma non di giorno in giorno perché ancora non ne abbiamo avuto riscontro da veruna parte.

    Ancora non si son potuti ritirare dalle branche

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