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La regina del Nilo. La trilogia
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E-book691 pagine9 ore

La regina del Nilo. La trilogia

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Info su questo ebook

3 romanzi in 1
Il trono d'Egitto - L'amante dell'imperatore - Il rogo delle piramidi

Regina d'Egitto o schiava d'amore?

Nell’anno 48 a.C. una giovanissima Cleopatra, ultima erede dei faraoni, discendente di Alessandro Magno, condivide il trono d’Egitto con l’odiato fratello Tolomeo.
Lontano, in Grecia, si decide il futuro della Repubblica romana, incarnata nell’aspro confronto dei suoi due più carismatici generali: Pompeo e Giulio Cesare. Alessandria d’Egitto diviene la scena di questo momento cruciale della Storia in cui finiranno per riunirsi gli interessi e le passioni di Cleopatra, una donna dall’eccezionale intelligenza che governa con fermezza in un mondo di uomini, e Cesare, lo stratega politico più brillante del tempo, determinato a fare di Roma la città più potente del mondo. E l’incontro sarà fatale...

In un unico volume la storia di Cleopatra come non l’avete mai letta

La sua bellezza è leggenda
Il suo regno è storia
Ha illuminato un’era
Il suo nome è Cleopatra
Javier Negrete
Nato a Madrid nel 1964, laureato in filologia classica, insegna greco in una scuola superiore di Plasencia, nella regione dell’Extremadura. È autore di vari romanzi storici e fantasy e libri per ragazzi, tra cui ricordiamo Señores del Olimpo (vincitore del premio Minotauro) e Salamina (premio Espartaco come miglior romanzo storico). La serie de La regina del Nilo è la sua prima opera tradotta in italiano. Per maggiori informazioni, visitate il sito
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2014
ISBN9788854168312
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    Anteprima del libro

    La regina del Nilo. La trilogia - Javier Negrete

    746

    Prima edizione ebook: maggio 2014

    © 2013, 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    Titolo originale: La hija del Nilo

    © Javier Negrete, 2012

    © Espasa Libros S. L. U., 2012

    Traduzione dallo spagnolo di Amaranta Sbardella

    ISBN 978-88-541-6831-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Javier Negrete

    La regina del Nilo

    Il trono d’Egitto

    L’amante dell’imperatore

    Il rogo delle piramidi

    Newton Compton editori

    IL TRONO D’EGITTO

    Per Jorge e Yolanda.

    Spero che questo secondo viaggio

    lungo il Nilo vi piaccia

    quanto quello che avete fatto insieme.

    PARTE PRIMA

    Anno 699 dalla fondazione di Roma¹ , consolato di Marco Licinio Crasso e di Gneo Pompeo Magno.

    Roma è sempre più potente, eppure da decenni la repubblica è dilaniata dalle guerre civili. Sebbene al feroce scontro tra Mario, Silla e i rispettivi sostenitori sia seguito un periodo di relativa calma, l’ostilità è tornata a insinuarsi tra le diverse classi sociali e, soprattutto, tra i membri dell’aristocrazia, abituati a nutrire una rivalità spietata.

    Sono ormai trascorsi quattrocentocinquanta anni da quando i romani hanno messo al bando la monarchia e instaurato un governo in cui i poteri convivono armoniosamente. Ma ora quegli equilibri, necessari a reggere la città, si rivelano insufficienti per amministrare un impero che si estende dalle Colonne d’Ercole alla Siria. Continua ad aumentare l’influenza dei grandi generali, uomini in grado di arruolare eserciti e renderli più fedeli a loro stessi che alla repubblica. Tutti si chiedono quale di questi condottieri diventerà il padrone e il signore di Roma. Il più autorevole è Pompeo Magno, colui che ha liberato il Mediterraneo dai pirati, conquistato l’Oriente e riportato a Roma un bottino straordinario.

    Tuttavia una nuova stella è sorta a Occidente. Da tre anni il proconsole Gaio Giulio Cesare miete inarrestabili successi militari in Gallia. Nell’estate del 699 dalla fondazione di Roma, costruisce un ponte sul Reno e l’attraversa per avvertire i germani che da un momento all’altro potrebbe invadere il loro Paese. Intanto si prepara pure a oltrepassare il canale della Manica e a portare per la prima volta le insegne romane nella nebbiosa isola della Britannia.

    Grazie alle sue vittorie e al bottino di guerra, Cesare diventa sempre più forte e minaccia di eclissare la gloria di Pompeo Magno. Al momento le relazioni tra i due sono ancora cordiali, anche perché Pompeo è sposato con Giulia, la figlia di Cesare. Tra i nobili romani, però, non mancano gli oppositori di Cesare i quali, temendone la possibile tirannide, cercano di inimicarlo agli occhi del suo attuale alleato. È solo questione di tempo: tra poco la violenza esploderà di nuovo, spezzerà gli argini e macchierà di sangue Roma e i suoi domini.

    Quasi tutte le sponde del Mediterraneo sono sotto il controllo dell’Urbe, per questo viene chiamato Mare Nostrum. Vi fanno eccezione pochi lidi, tra cui il regno d’Egitto, che mantiene comunque un patto di alleanza e di amicizia con il popolo romano.

    In Egitto corre l’anno terzo del governo di Berenice IV Epifaneia. La giovane regina ha usurpato il trono al padre Tolomeo XII Aulete, approfittando di un suo viaggio a Cipro per chiedere ai romani la restituzione dell’isola. Ora la sovrana amministra l’Egitto come hanno fatto i Tolomei per quasi tre secoli, senza quasi allontanarsi da Alessandria, né darsi pena di imparare l’antichissima lingua dei faraoni.

    Dal canto suo, lo spodestato Tolomeo XII Aulete si è stabilito a Roma, spendendo a piene mani e indebitandosi se non riesce a saldare i conti, intenzionato a corrompere i politici più influenti e a ottenere che lo reinsedino sul trono d’Egitto.

    Ma Berenice non è l’unica figlia di Aulete. Nella città di Menfi vivono i quattro figli della sua seconda moglie. Due sono bambini di sette e quattro anni, ed entrambi si chiamano Tolomeo. Insieme a loro c’è anche Arsinoe, di tredici anni.

    E, infine, la maggiore dei quattro, una ragazza che porta il nome più celebre tra gli eredi della vecchia Macedonia, quello della sorella del leggendario Alessandro Magno.

    Cleopatra…

    ¹ 55 a.C. (n.d.a.)

    1

    Il viaggio dell’acqua

    La notte in cui compì quindici anni, la seconda dell’inondazione, Cleopatra fece il bagno nel Nilo assieme a centinaia di persone che ne ignoravano la vera identità. Lei, infatti, era una principessa di Alessandria. Mentre la corrente le accarezzava la pelle nuda e la luna piena intesseva fili d’argento sull’acqua, Cleopatra chiuse gli occhi e immaginò che il suo spirito si trasformasse in un bianco ibis e risalisse il fiume alla ricerca delle sue lontane origini.

    Per quanto potesse solo intuirlo, l’acqua che lambiva il suo corpo aveva iniziato un prodigioso viaggio settimane prima, alla fine della primavera, migliaia di chilometri² a sud dell’Egitto.

    Come tutti gli anni, con l’approssimarsi dell’estate, la costa e l’interno della Somalia e dell’Etiopia avevano preso ad arroventarsi sotto i raggi quasi verticali del sole. Al contatto con il suolo infuocato, l’aria calda saliva in alto lasciando il posto a un vento proveniente dall’oceano Indiano, più lontano perfino dell’equatore.

    Il vento, carico dell’umidità del mare, passò sull’arido paese di Punt. Avaro, non si degnò di far cadere nemmeno una goccia su quelle lande giallastre e piene di crepe. Ma quando arrivò sulle Terre Alte dell’Etiopia e cominciò a soffiare su montagne e pianure a più di duemila metri, la corrente si raffreddò e non riuscì più a trattenere tutto ciò che aveva strappato all’oceano Indiano. Pian piano l’acqua si condensò in goccioline che, seppur minuscole, erano talmente numerose da formare subito nubi grandi e nere, mostruosi cumulonembi la cui sommità si estendeva per chilometri, sino a raggiungere altezze dove nemmeno le aquile si sarebbero azzardate a volare. Le nuvole si gonfiarono tanto da diventare massicce incudini sottratte alla fucina di Efesto. Alla fine i loro margini esplosero e si svuotarono dell’acqua con spettacolari trombe marine, accompagnate da fulmini che laceravano il cielo e da tuoni che facevano tremare le Terre Alte da est a ovest.

    Mille e mille acquazzoni si concentrarono nella conca del lago Tana, la cui superficie ribolliva sotto i colpi violenti della pioggia. Qualsiasi altro lago sarebbe cresciuto fino a strabordare, ma il Tana no, perché migliaia di anni prima le sue acque avevano scavato un varco di uscita nella parte sudorientale. Quel canale, l’origine del Nilo Azzurro, scorreva placidamente per il resto dell’anno, ma in quegli istanti la corrente si era impennata come una mandria di cavalli furiosi e si era fatta largo mugghiando tra le strette rocce.

    Nel gran ciclo dei cicli che è il Tempo, tutto aspira a tornare alle proprie origini, e per questo i fiumi cercano sempre il mare; eppure il Nilo, risorto ogni anno al pari del dio Osiride, non sarebbe più tornato nell’oceano Indiano, e avrebbe intrapreso il suo viaggio magnifico e tortuoso.

    Il fiume, chiamato Azzurro malgrado le acque scorressero torbide, si era diretto inizialmente verso sudest. Dopo essersi lanciato dalle cataratte roboanti a cinquanta metri di altezza alzando cortine di spuma che i locali chiamavano il fumo senza fuoco, aveva tracciato un’ansa prima verso sud e poi verso ovest. Mentre scorreva, il getto si era aperto da solo il cammino, una lunga cicatrice tra rocce e montagne, un canalone profondo che in alcuni punti si stagliava sull’acqua con pareti alte più di mille metri.

    Milioni di anni addietro, prima che uomini e dèi popolassero la Terra, dalle contrazioni di Gea era nato il mar Rosso, l’Arabia si era separata dall’Africa ed erano state plasmate così le pianure e le montagne. Proprio in seguito a quei movimenti tellurici si erano formate le rocce vulcaniche delle Terre Alte etiopi, molto fertili per la vegetazione e non troppo aspre. Le piogge e i torrenti continuavano a scalfire incessantemente quei basalti, a levigarli e a modellarli, e trascinavano con sé enormi quantità di limo scuro, che tingeva di marrone le acque del Nilo. Carica di tutto quel concime, la piena descrisse un’audace curva verso nord e dopo aver lasciato le Terre Alte ormai a millecinquecento chilometri dalle Fonti del Sole, dove si era originata, s’incontrò con il Nilo Bianco.

    Questo, a sua volta, aveva compiuto un lunghissimo tragitto dai grandi laghi sulle Montagne della Luna, nel cuore palpitante dell’Africa. Giungeva alla confluenza con il suo fratello Azzurro notevolmente indebolito dal passaggio nel labirinto paludoso del Sud, una trappola mortale in cui le acque s’infangavano e ristagnavano, e dove i raggi del sole gli avevano sottratto più di metà della sua portata.

    L’incontro con l’altro fiume era perciò provvidenziale: se non fosse stato per il suo apporto, non sarebbe riuscito ad attraversare le roventi sabbie del Sahara e avrebbe patito la sete tra le dune per morire nel bacino di qualche pozza.

    Al momento della loro unione, le acque torbide dell’Azzurro s’incresparono sopra quelle del Bianco, che s’immersero al di sotto, in segno di sudditanza. I due fiumi assieme – un unico Nilo, cui si era aggiunto anche l’abbraccio di un altro grande affluente, l’Atbara – proseguirono verso nord e attraversarono il deserto della Nubia. Dopo essersi imbattuti in una zona di rapide e scogli conosciuta come cateratta, il grande fiume bagnò le sponde arancioni di Meroe. Le appuntite piramidi di arenaria della capitale, Kush, assistettero al suo passaggio con l’impassibile serenità della pietra.

    Senza fermarsi a riposare, il Nilo percorse un altro meandro gigantesco, una curva improvvisa verso sudovest che lo fece addentrare nel deserto per più di trecento chilometri prima di riprendere il viaggio verso nord. Nel frattempo, continuava a gettarsi da altre rapide piene di frangenti, nelle quali finivano in frantumi le poche audaci imbarcazioni che provavano a schivarle.

    Finalmente, dopo aver ripreso velocità un’ultima volta nella sesta cateratta, il grande fiume entrò nel Paese dei faraoni, dove per un paio di chilometri si divise in due, girando attorno all’isola di Elefantina: qui c’era il primo nilometro, una sorta di scala in pietra che scendeva sino al letto del fiume. Ingrossate dalla piena, le acque salirono e man mano coprirono i segni scolpiti in migliaia di anni sulle pareti della scalinata. Lungo il percorso, s’incontravano molti altri nilometri, ma quello di Elefantina era il primo segnale di come sarebbe stata l’inondazione: scarsa, copiosa o distruttiva.

    Da Elefantina la corrente seguì sempre il suo destino finale: il Mediterraneo. Per centinaia di chilometri attraversò l’Alto Egitto, un luogo sovrappopolato e al contempo il più angusto del mondo, visto che la valle raggiungeva al massimo quindici chilometri di ampiezza. Era un posto stupefacente, forgiato dallo stesso fiume. Se quest’ultimo fosse scomparso, le sabbie non avrebbero impiegato molto a impadronirsi dell’intera vallata, giacché potevano passare interi anni prima che cadesse una sola goccia di pioggia.

    Il passaggio dalla fertile valle del Nilo al deserto che lo circondava da entrambi i lati era aspro e improvviso, senza sfumature. Una persona avrebbe potuto facilmente poggiare il piede destro su Kemet, la feconda Terra Nera, e l’altro su Deshret, la sterile Terra Rossa, dominio di Seth, signore del Caos.

    In un passato ormai lontano, la piena portava con sé grandi porzioni di riva, cancellava i confini dei campi e modificava il corso dello stesso fiume. Da migliaia di anni, però, gli egizi avevano scavato una fitta rete di canali, fossati e dighe, che tenevano a bada la corrente e frazionavano le acque in estesi laghi rettangolari, sui quali le città e i centri abitati si ergevano come isolette sparse nel mare, e i camminamenti, costruiti sui terrapieni, come dei ponti.

    Le acque continuarono a salire dopo Tebe, la città dalle cento porte, scorrendo tra i due deserti, quello di Libia e quello di Arabia. Dopo aver lambito decine di città e centinaia di villaggi, poco prima di arrivare nel Basso Egitto – dove il fiume si sarebbe diviso in sette bocche per creare la regione del Delta – il Nilo finalmente lambì Menfi.

    Menfi, Mennéfer, la bella e duratura, antica capitale del regno. Qui s’innalzava il tempio del dio Ptah, Hut-Ka-Ptah, "la casa del Ka di Ptah", che i greci avevano trascritto a orecchio come Aigyptos, Egitto, allo scopo di dare un nome all’intero Paese.

    E nel tempio di Ptah si trovava Cleopatra alla vigilia del suo compleanno, ore prima che Sopedet, la stella Splendente, riemergesse dopo settanta giorni dagli inferi del Duat per suggellare l’inizio dell’inondazione e l’anno nuovo.

    ² Per evitare di creare confusione, per quanto possibile ho scelto di uniformare a quello metrico i differenti sistemi di misurazione (miglia, stadi, piedi, bracci, cubiti, talenti) utilizzati dai vari popoli che compaiono in questo romanzo. Inoltre ho modernizzato alcuni nomi geografici come mar Nero, al posto di Ponto Eusino, o mar Rosso, al posto di mar Eritreo. (n.d.a.)

    2

    Tempio di Ptah, Menfi

    «Forse per i bambini. Ma per Cleopatra e Arsinoe nessun perdono».

    Era notte, nella terza ora, Quella Che Tronca le Anime. Ra, il dio Sole, percorreva gli inferi tenebrosi a bordo della sua barca notturna, Mesketet, e stava per risuscitare Osiride. Durante il lungo giorno, i suoi raggi avevano talmente scaldato la terra che i conci delle mura e le piastrelle del patio continuavano a emanare calore come mattoni da forno. Eppure Neferptah rabbrividì, sia perché alla sua età avanzata raramente le capitava di sentirsi sopraffare dal caldo, sia perché le parole di Teocrito, il mercenario mandato dalla regina, la ferivano, gelide come la spada che portava alla cinta.

    «Che significa nessun perdono?», chiese Neferptah. «Si può sapere quale peccato hanno commesso le mie nipoti perché qualcuno debba perdonarle?».

    Aveva provato a esprimersi col tono più energico possibile. Sfortunatamente gli anni le avevano indebolito la gola, come la sabbia del vicino deserto a poco a poco le aveva limato i denti. Si rese conto da sola che la voce usciva dalla sua bocca stridula e acuta come il gracchiare di un corvo.

    «Il peccato di nascere quando non dovevano», rispose Teocrito. «Vale a dire, dopo la regina. Ora consegnami i quattro ragazzi affinché domattina possano già essere ad Alessandria, mia signora Berenice».

    «Ho smesso di rispondere a quel nome da tempo. Mi devi chiamare Neferptah».

    «Come preferisci, signora», replicò Teocrito, ricusando la precisazione con un gesto sdegnato.

    Era vero, Neferptah era in realtà nata come Berenice, e nelle sue vene scorreva il sangue dei Tolomei, i signori dell’Egitto. Ormai da molto tempo quel nome, che l’accomunava alla regina usurpatrice, non le diceva più niente. Non si considerava più nemmeno greca. Era ancora in grado di esprimersi con correttezza nella koinè, la lingua comune dei greci, e ora la stava parlando con quello sciacallo bramoso di guerra. Eppure, quando lo faceva, si ritrovava a tradurre mentalmente le frasi che aveva prima pensato in egizio. Aveva persino smesso di sognare in greco, e il giorno che se n’era accorta, molti decenni prima, aveva capito che la trasformazione si era finalmente consumata.

    Ed ecco che malauguratamente, per colpa di quel mercenario, i ricordi del suo più remoto passato riaffioravano alla mente.

    Neferptah, prima Berenice, era figlia del re Tolomeo VIII, che in vita si era fatto chiamare Evergete, Benefattore. I suoi sudditi più maliziosi si riferivano a lui con il soprannome di Fiscone, il Grassone, e così era passato alla storia.

    Per molto tempo Neferptah aveva conservato del padre un ricordo nebuloso. Tuttavia, man mano che invecchiava, riesaminava con maggiore nitidezza le scene di molti anni addietro, mentre le più recenti senza spingersi troppo in là, quelle della colazione di poche ore prima, le sfuggivano come carpe in uno stagno.

    Perfino dopo così tanto tempo ancora arrossiva dalla vergogna al pensiero del padre. Per una lunga tradizione gli egizi più abbienti erano orgogliosi di poter mangiare meglio degli scheletrici e legnosi contadini, e per questo le statue di scriba e funzionari li raffiguravano con pance rotondette e petti carnosi, quasi femminei. Ma l’oscena ostentazione della grassezza del padre di Neferptah suscitava negli altri un imbarazzo che lui sembrava lontano dal provare. Obeso come un ippopotamo, Fiscone ne faceva sfoggio indossando tuniche di lino trasparente che permettevano di contare le rientranze tra le sue burrose sporgenze e di vedere come traballassero i rotoli ogni volta che rideva, tossiva o rilasciava qualche flatulenza fragorosa come un tuono e puzzolente al pari di una mefitica palude.

    La vita di Fiscone, compendio dei difetti dei Tolomei, era stata cruenta come una tragedia e grottesca come una commedia fatta di intrighi e rapimenti. Seguendo l’esempio dei suoi predecessori, aveva sposato la sorella Cleopatra II; ma pure la figlia di questa, un’altra Cleopatra, nonché sua nipote. «Così a letto non sbaglia nome», commentavano i maligni, che si chiedevano se il membro reale riuscisse a sporgere da tutto quell’adipe almeno quel poco che bastava per inseminare le sue spose.

    La prima Cleopatra, una donna battagliera e determinata come molte di quella bellicosa dinastia, sollevò il popolo di Alessandria contro il re e la sua giovane consorte. Gli alessandrini, da generazioni appassionati alle sommosse violente, si lasciarono facilmente persuadere, presero d’assalto la zona reale della città, saccheggiarono quello che poterono e dettero fuoco ad alcuni ambienti. Intanto Fiscone era fuggito sino al porto privato dei Tolomei, trasportato su una lettiga da dieci nubiani che, per quanto sfoggiassero muscoli degni di Ercole, non smettevano di ansimare sotto quel peso.

    Neferptah, che all’epoca aveva tre o quattro anni, ricordava ogni particolare perché anche lei, figlia di una concubina reale, aveva partecipato alla fuga in braccio alla madre. Gli esiliati si erano rifugiati a Cipro, dove governava un figlio adolescente di Fiscone e della sorella Cleopatra, chiamato Tolomeo come tutti gli uomini della famiglia, e distinto dagli altri con l’epiteto di Menfita. Fiscone non esitò a far uccidere il proprio rampollo e a farlo tranciare a pezzi, che poi mandò ad Alessandria in un baule di cedro con sopra il seguente messaggio su un papiro: «Per la mia amata sposa e sorella». Non ebbe nemmeno la decenza di imbalsamarne le spoglie.

    Non era il primo figlio di Cleopatra II che eliminava. Dalle precedenti nozze con un altro fratello, Tolomeo VI Filometore, la donna aveva infatti generato Tolomeo VII Neo Filopatore. Quando Cleopatra, rimasta vedova di quel fratello, si era sposata con Fiscone, lui ci aveva messo poco a liberarsi del potenziale rivale. Tra l’altro, fece assassinare Neo Filopatore proprio durante il banchetto nuziale. Quale migliore occasione? Perlomeno, in questo caso, Fiscone aveva l’attenuante di aver ucciso un nipote e non un figlio.

    Un mito greco, ascoltato da Neferptah quando era bambina, raccontava che nella notte dei tempi il titano Crono aveva castrato il padre Urano con una falce e poi ne aveva gettato i genitali in mare. Durante quel lungo volo, dal membro mutilato era caduto sulla terra un rivolo di sangue, da cui erano nate le Erinni. Da allora, le tre creature con i capelli di serpente apparivano a tutti coloro che si macchiavano di crimini contro i propri padri, figli o fratelli, e li rendevano folli fissandoli con i loro occhi rossi e fiammeggianti come la brace. Eppure, secondo Neferptah, i Tolomei uomini e donne sembravano insensibili all’orrore delle Erinni, perché accettavano i propri delitti con molta disinvoltura e senza un briciolo di rimorso.

    Nonostante tutto il sangue che era corso tra di loro, Fiscone e sua sorella Cleopatra II si erano riconciliati e avevano regnato insieme su Alessandria per altri otto anni. Per fortuna, degli strascichi di quel governo violento Neferptah aveva solo sentito parlare, perché non viveva più ad Alessandria, bensì a Menfi.

    La ragione di tale trasferimento era semplice: Fiscone poteva pure essere un tiranno crudele e ridicolo, ma non del tutto stupido. Sapeva bene che, per controllare l’Egitto da Alessandria, aveva bisogno di ingraziarsi la potente casta sacerdotale e così, emulando i suoi predecessori, aveva scelto come alleato il clero di Ptah, patrono di Menfi. Per questo la città e il santuario ricevevano le donazioni più cospicue e i massimi privilegi, e per questo Fiscone aveva unito in nozze la figlia minore, Berenice, con il sommo sacerdote Pasheremptah II.

    Quando aveva risalito il Nilo su una trireme, diretta verso Menfi, Berenice era talmente giovane che non aveva ancora avuto la prima mestruazione. Ed era così spaventata che non riusciva a smettere di piangere. Ricordava l’ultima immagine del Faro offuscata da un velo di lacrime, fino a che la gigantesca luminaria era scomparsa alla sua vista, coperta dalla macchia di papiri che crescevano lungo il Delta.

    Com’era giovane e sciocca! A Menfi, col suo nuovo nome, aveva finalmente trovato la tranquillità, lontana da quella famiglia di pazzi parricidi. Ptah era un dio saggio e il suo tempio un’oasi di pace, una fortezza suddivisa in quadranti simmetrici, disseminata di bei giardini, che rappresentavano l’ordine e la bellezza. Il tempio era, in realtà, una miniatura in scala dello stesso Egitto, un Paese affascinante, civilizzato e fertile, circondato ovunque da deserti, nemici e barbarie. Il tempio di Ptah non era solo un santuario dove risiedeva la divinità: era anche una fonte di purezza e di equilibrio, una sorgente da cui sgorgava maat a contrastare il potere delle forze del Caos capeggiate da Seth.

    Lì Neferptah aveva trascorso settant’anni, prima come moglie del sommo sacerdote Pasheremptah e poi come madre vedova del suo successore Pedubastes; ora come anziana nonna di Pasheremptah III. E, nonostante qualche dispiacere e qualche dolore, non poteva certo lamentarsi.

    Tuttavia, per quanto lei lo desiderasse, non riusciva a rompere del tutto i legami con la famiglia reale. Quando il re Tolomeo Aulete, nipote dell’obeso Fiscone, perse la prima moglie – sua sorella Cleopatra V Trifena – l’uomo cercò una nuova consorte con cui avesse un legame di parentela e che gli permettesse anche di rafforzare l’alleanza con i sacerdoti di Menfi. La scelta fu ovvia: la cugina Sepuntepet, unica figlia di Neferptah e del defunto marito. La giovane partì alla volta di Alessandria, ripercorrendo a ritroso il cammino e il destino della madre, e sposò Aulete con il nome di Cleopatra.

    Per il calamo di Thot!, pensava spesso Neferptah. Se in futuro qualche cronista avrà la malsana idea di scrivere la storia della nostra famiglia, diventerà pazzo.

    Dalle nozze nacquero due femmine e due maschi. Quando venne alla luce la seconda figlia, Arsinoe, Sepuntepet stava per morire dissanguata. Per alleggerirle il peso della maternità, Neferptah ordinò che la maggiore, Cleopatra, fosse condotta a Menfi dalla nonna. Aveva così potuto educarla a suo modo fino ai sette anni della bambina e insegnarle la vera lingua: l’egizio. Poi Cleopatra aveva fatto ritorno ad Alessandria con la famiglia, ma tutti gli anni passava a Menfi perlomeno qualche settimana, e la nonna ne approfittava per introdurla ai segreti del Paese che i legittimi abitanti non chiamavano Egitto, bensì Kemet, la Terra Nera.

    Erano trascorsi parecchi anni. Dalle notizie che giungevano a Menfi si evinceva che la condotta di Aulete scandalizzasse gli alessandrini. Beveva e mangiava così tanto che, secondo le malelingue, in poco tempo nessun vestito gli sarebbe più andato bene e avrebbe dovuto dissotterrare Fiscone per rubargli la tunica mortuaria.

    Poiché si considerava una sorta di reincarnazione di Dioniso, Aulete partecipava entusiasta a tutti i rituali del dio, orge incluse. Ma la peggior vergogna per la nobiltà greca era il modo in cui il re si divertiva in prima persona a suonare il flauto – come una di quelle ragazze mezze nude e di facili costumi che animavano i banchetti degli uomini – e proprio per questo era stato soprannominato Aulete il flautista. Per i greci il flauto era uno strumento plebeo, non all’altezza di un sovrano. Se almeno si fosse dilettato a suonare l’aristocratica lira, come l’illustre Apollo!

    Neferptah non era particolarmente sconvolta dai presunti eccessi di Aulete, perché erano ben poca cosa se comparati alle scene cui aveva assistito da bambina nel palazzo reale. Tuttavia, continuava a mandare degli emissari ad Alessandria affinché la tenessero al corrente di tutto quello che succedeva, soprattutto riguardo a Cleopatra, in cui aveva riposto molte speranze. Era di fondamentale importanza vegliare sul suo futuro.

    Grazie a quelle spie, Neferptah era venuta a sapere che Berenice, la figlia maggiore di Aulete, preparava un colpo di Stato contro il padre, approfittando del suo viaggio a Cipro per pretendere l’isola dai romani. Poiché sospettava che, nel momento in cui avesse raggiunto il potere, Berenice avrebbe fatto in modo di sbarazzarsi dei possibili rivali, la nonna mandò una nave a prendere i quattro nipoti per condurli a Menfi. Quando la giovane, come pianificato, diede l’assalto al trono, i fratellastri erano già al sicuro, lontani dalle sue grinfie. Dietro le pareti di mattoni crudi del tempio di Ptah, circondate a loro volta dalla spessa muraglia di conci bianchi che proteggeva Menfi sia dai nemici sia dalla piena del fiume, Cleopatra, Arsinoe e i due piccoli Tolomei erano scampati alle macchinazioni dell’usurpatrice.

    Già due volte la nuova regina aveva invitato i fratellastri a farle visita. La prima, quando si era sposata con un certo Seleuco: un matrimonio effimero, perché dopo sole due settimane lei stessa aveva ordinato che il marito venisse strangolato in sua presenza con una fune. La seconda, per le nuove nozze con Archelao del Ponto. Neferptah aveva declinato entrambi gli inviti a nome dei nipoti, e la regina Berenice non aveva obiettato nulla, al momento paga di una simile intesa.

    Ora, però, la situazione era cambiata. Per intimare che gli venissero consegnati i fratellastri, l’usurpatrice aveva mandato uno dei suoi ufficiali, Teocrito, un mercenario di origine arcadica con la reputazione di spietato assassino. Pur essendo una donna, la sovrana si era sempre mostrata diretta e brutale come il più rozzo degli uomini. Per questa ragione, ricorreva a ceffi come Teocrito e non si prendeva il disturbo di dissimulare le ragioni delle sue pretese.

    3

    «Saranno giustiziate», insistette il mercenario. «Invece i bambini saranno educati nel modo e nel luogo ritenuti necessari, come dei futuri re. E, se si comporteranno bene, a tempo debito saranno ricompensati».

    Alla destra di Neferptah, il nipote Pasheremptah sbuffò.

    «Non ti consegnerò i miei cugini e le mie cugine», affermò pronunciando le consonanti del greco come se intagliasse la roccia con uno scalpello. «Sono sotto la protezione di Ptah».

    Teocrito alzò lo sguardo verso la statua che vegliava sull’ingresso del tempio, un colosso in pietra di sette metri dal viso verde, con lungo pizzetto nero e una stretta tunica bianca che l’avvolgeva come un sudario. Non dovette esserne particolarmente impressionato, perché fece spallucce e sputò di lato. Davanti a quella mancanza di rispetto, Neferptah bisbigliò una veloce preghiera e con le dita tracciò nell’aria un gesto magico per scongiurare l’ira del dio.

    «Di’ pure quello che ti pare», ribatté Teocrito. «Ma se non li consegni alla regina, potrebbe riconsiderare la vostra situazione».

    «A che ti riferisci?», domandò Pasheremptah.

    «Se non mi dai subito i prìncipi, la regina revocherà i privilegi al tempio. In questo Paese, ci sono più dèi che pesci nel mare, e tutti hanno i propri sacerdoti e i propri santuari. Non crediate che la mia signora non possa sostituirvi».

    «Ci stai minacciando qui, in casa nostra?».

    Gli occhi di Pasheremptah facevano scintille. La luce delle torce scolpiva i suoi zigomi, facendogli sembrare le guance ancora più scarne, e metteva in risalto i riflessi untuosi del cranio, rasato a eccezione della treccia sopra l’orecchio destro, prerogativa del sommo sacerdote. Alto e nerboruto, il nipote di Neferptah possedeva un fisico e un temperamento più consoni a un militare che a un religioso.

    Al suo fianco, lo zio Horemhotep, l’unico figlio di Neferptah ancora in vita, lo prese delicatamente dal gomito e lo tirò a sé per calmarlo.

    «Mio amato nipote, non credo che il nobile Teocrito sia venuto in questo luogo sacro per minacciarci. L’abbiamo senz’altro frainteso».

    Horemhotep parlò con dolcezza e senza alterare quel suo perenne sorriso, che ridimensionava sempre ogni problema. Lo scriba e Maestro dei segreti di Ptah sembrava sempre di buon umore. Tuttavia Neferptah, essendone la madre, sapeva che nel fondo del suo cuore provava del risentimento, perché si sentiva più competente del nipote per una simile responsabilità. Essere sommo sacerdote di Ptah non era una questione da nulla: a conti fatti, governava come padre spirituale i sudditi egizi ed era il secondo uomo più potente del Paese.

    «No, nobile Horemhotep, non mi avete frainteso», s’intromise Teocrito con sarcasmo. «Tuo nipote ha ragione: le mie parole sono minacce in piena regola».

    «Suvvia, mio caro», disse Horemhotep. «Mi sorprende che tu non lo sappia, la sottigliezza è risolutiva nell’arte della negoziazione».

    «Non sono cresciuto in un tempio, né in una corte come voi. Non sono abituato a contrattare. Solo a vincere battaglie. Volete forse ritrovarvi in guerra?».

    Teocrito fece una pausa e si guardò attorno, valutando l’altezza delle mura che li circondavano in quel cortile seminascosto tra la muraglia principale e la porta nord del tempio.

    «Queste pietre sembrano solide», concluse. «Ma nulla riesce a resistere alle mie catapulte e ai miei arieti».

    «È degno di un’usurpatrice mandare un cane da caccia a fare il lavoro di una volpe!», disse Neferptah in egizio. Horemhotep proruppe in una risata asciutta, amara.

    «Basta parlare nella lingua della marmaglia. Datemi una risposta al più presto e non mi fate perdere altro tempo», replicò Teocrito.

    Horemhotep e Pasheremptah si guardarono negli occhi e poi posarono lo sguardo sull’anziana. Non aveva cariche ufficiali all’interno del tempio, ma da molti anni era l’anima e la volontà di quel luogo.

    «Sei tu che vuoi perdere tempo, greco», esclamò in tutta risposta Neferptah. «Ti abbiamo già detto di no, e la riposta continua a essere no, e lo rimarrà fino a quando le stelle brilleranno nel cielo e il Nilo scorrerà».

    «Il Nilo potrà pure seguitare a scorrere, vecchia, ma lo farà sulle rovine fumanti di questa città».

    «Certo che il cane da caccia abbaia forte!», commentò in egizio Horemhotep.

    Teocrito lo scrutò di traverso e accarezzò il pomolo della spada appesa alla cinta, posta a tracolla sulla corazza.

    «Non so quello che hai detto, sacerdote, ma se è una maledizione, sta’ attento che non ti si ritorca contro».

    «Basta!», esclamò Pasheremptah colpendo le lastre con la punta del bastone, il lungo scettro di Ptah. «Non ammetterò altre impertinenze nella città sacra. Vattene subito da Menfi o imparerai con le cattive il rispetto dovuto al saggio creatore di ogni cosa».

    Teocrito si guardò ancora attorno. Dietro di lui, vicino alla porta della muraglia, prima del patio, l’aspettavano i dieci soldati della scorta. Tuttavia sopra il cammino di ronda si erano appostati più di venti arcieri egizi e, dietro Neferptah e i sacerdoti, si erano allineati alcuni servitori del tempio, giovani muscolosi dai gonnellini verdi, addestrati nell’arte millenaria della lotta con il bastone.

    «E va bene», disse il mercenario dopo aver soppesato le forze di entrambe le fazioni. «Però tornerò con le navi da guerra e con cinquemila soldati. Vediamo se le tue parole saranno ancora così tonanti, sommo sacerdote».

    «Porta tutte le barche e i soldati che vuoi», rispose Pasheremptah. «È stato lo stesso Ptah, signore degli ingegneri, a ergere queste mura. Nessuno le ha mai espugnate. E nessuno ci riuscirà mai!».

    L’anziana scosse il mento in modo quasi impercettibile. Non le erano mai piaciute le millanterie, e tantomeno quelle che non si potevano realizzare. Le difese di Menfi erano davvero solide, perché ogni anno ingegneri e muratori le rinforzavano in previsione della piena. Tuttavia in passato erano già cadute per mano dei crudeli Assiri; e non una, ma ben due volte, dettaglio che Pasheremptah preferiva ignorare assieme a molti altri patrioti, i quali si limitavano a vagheggiare un passato glorioso piuttosto che conoscerlo a fondo.

    Senza aggiungere altre parole, Teocrito si congedò con un saluto marziale, enfatizzando il gesto perché le piastre di bronzo cucite alla corazza di lino emettessero un suono metallico, un rude avvertimento del potere militare che poteva scatenare su Menfi. Quindi si girò e uscì dal patio. Le porte di acacia laminate in rame si richiusero dietro di lui con un cigolio lungo e stridente.

    Il silenzio regnò per alcuni secondi. L’anziana, suo figlio e il nipote si fissavano l’un l’altro. Un capriccioso colpo di vento s’infilò sopra la muraglia e scosse le foglie delle palme, che si sfiorarono con un ruvido fruscio. Mosse dall’aria, le fiamme delle fiaccole proiettarono delle ombre che danzarono schive tra i solchi delle colonne, lavorate a mo’ di spessi tronchi di papiro.

    Alla fine fu Pasheremptah a prendere la parola, visto che, pur essendo il più giovane, aveva una carica superiore.

    «Menfi è sempre riuscita a mantenersi neutrale nelle lotte dinastiche di Alessandria. Stavolta, però, ho i miei dubbi. Possibile che l’insolenza dell’usurpatrice non conosca limiti?»

    «Forse se ti fossi mostrato più scaltro nel respingerlo…», disse Horemhotep. «Un tono più conciliante ci avrebbe fatto guadagnare tempo».

    «Tempo? Per quale ragione?»

    «Le voci. Non hai sentito le voci?».

    «Quelle sull’invasione?», chiese Pasheremptah.

    «Proprio così».

    «Cadremo dalla padella nella brace!».

    Neferptah assentì lentamente. Da giorni a Menfi girava una notizia che non era stata ancora confermata. A quanto pareva, un esercito invasore si stava avvicinando da nordest attraverso il deserto tra Siria ed Egitto. Presumibilmente aveva intenzione di reinsediare sul trono Aulete. Era costituito da migliaia di soldati siriani.

    E da legionari romani.

    Solo a pensarci, Neferptah digrignò i suoi denti rovinati.

    Romani.

    Barbari.

    Sanguinari.

    Avidi!

    L’anziana era convinta che, se davvero i romani volevano restituire il regno ad Aulete, di certo non lo facevano per rispettarne la legittimità o perché reputavano inadeguata la giovane Berenice. Per decenni aveva sentito parlare dei loro soprusi e ora ci avrebbe messo la mano sul fuoco: i romani avevano di sicuro ricevuto un incoraggiamento economico di proporzioni astronomiche. E, come logica conseguenza, il popolo egizio avrebbe dovuto pagare ancora più tasse. Neferptah era tutto fuorché una rivoluzionaria. Non riteneva giusto che la terra dovesse tornare ai contadini, ma sapeva bene che, se si continua a caricare il dorso di un cammello, a un certo punto basta un solo chicco di orzo di troppo nelle bisacce per abbatterlo. Alessandria già spremeva abbastanza risorse agli agricoltori egizi. Ci mancava solo che venissero obbligati a mantenere pure Roma, un’altra città gigantesca!

    Se non altro, le notizie che giungevano circa l’inondazione erano incoraggianti. Pochi giorni prima era approdata una barca che aveva remato lungo la corrente dall’isola Elefantina per anticipare la piena e riportare informazioni sul fiume. Nel primo nilometro le acque erano salite a ventisette gomiti. Se gli dèi non si fossero opposti, a Menfi si sarebbero abbassate a sedici. Una cifra positiva, superiore all’intervallo ottimale, ma inferiore ai venti, valore che indicava la furia devastatrice. Quell’anno avrebbero ottenuto raccolti eccellenti, che avrebbero permesso al Paese di sopravvivere pure se l’inondazione seguente fosse stata svantaggiosa.

    Neferptah, però, non sarebbe stata tranquilla fino a che non avesse visto con i suoi occhi l’acqua lambire le muraglie di Menfi. Prima di allora, le divinità potevano decidere qualsiasi cosa: risucchiare le acque sotto terra, farle crescere magicamente per radere al suolo la città o perfino tenere prigioniera negli inferi la stella Sopedet, la Splendente, per evitare che la sua comparsa incoraggiasse la crescita del fiume.

    Neferptah – saggia non tanto per i papiri che aveva letto quanto per la sua esperienza – era convinta che nel mondo una sola fosse la verità immutabile: gli immortali erano capricciosi e volubili. L’unico sistema per fargli conservare la maat, l’ordine dell’universo, era quello di accontentarli con preghiere e sacrifici, e calmarli con rituali di purificazione. E a volte nemmeno così ci si riusciva.

    Per di più, stavano entrando in gioco fattori esterni. Le divinità dei romani, ovviamente, erano cruente e sanguinarie. E, a giudicare dai trionfi che i suoi figli avevano ottenuto sino a quel momento, Neferptah cominciava a temere che i loro dèi fossero più potenti di quelli egizi.

    4

    Nel frattempo, Arsinoe e Cleopatra dormivano beatamente, ignare che un mercenario arcadico aveva preteso che gli fossero consegnate per ucciderle.

    La notte avanzava. Giunse l’ora dello Scrigno delle Divinità, quando Ra, nel suo viaggio per gli inferi, s’imbatte nei più antichi e misteriosi spiriti del mondo, che dagli abissi delle loro cripte gridano di giubilo al passaggio del dio. Fuori era ancora buio, ma Carmione e Teano, ancelle delle principesse, le svegliarono in anticipo per accompagnarle nelle vasche da bagno, lavarle e acconciarle meticolosamente.

    A Cleopatra non pesò svegliarsi presto, perché non era abituata a dormire molto. Le bastavano sei ore di sonno per spalancare le palpebre e alzarsi vispa con gli occhi sbarrati come un gufo. Sua sorella Arsinoe, invece, poteva rimanere nel letto fino a mattina inoltrata, sempre se nessuno andava a chiamarla. E, pur così, si tratteneva a oziare sotto le lenzuola per qualche minuto.

    «Come fai a dormire così poco?», chiese Arsinoe mentre trascinava i piedi fuori dell’immenso letto nella stanza che dividevano, sfregandosi gli occhi talmente forte che sembrava volesse strapparseli.

    «Piuttosto, come fai tu a dormire tanto?», ribatté Cleopatra.

    «Il sonno è la migliore maschera di bellezza», intervenne Teano, l’ancella personale di Arsinoe. «E ogni giorno che passa, la mia signora è sempre più bella».

    «Sì, però dicono pure che il sonno sia il fratello minore della morte», considerò la principessa, restia a darsi per vinta. «Le ore in cui dormiamo sono ore che non viviamo».

    «Preferirei essere morta», disse Arsinoe, «piuttosto che vivere con questo sonno».

    Cleopatra accennò un sorriso. Sua sorella era abbastanza lagnosa, ma esternava le sue lamentele con moine infantili che risvegliavano negli altri istinti protettivi. A farla apparire ancora più bambina contribuivano una fronte ampia e bombata e degli occhi enormi, che sbattevano appena le palpebre, di un celeste chiaro come il mare delle spiagge bianche a est di Alessandria. Le sue labbra carnose, sempre socchiuse e leggermente bagnate, in realtà suscitavano negli uomini pensieri non troppo paterni, dei quali Arsinoe, con i suoi tredici anni, fingeva di non accorgersi.

    Riflettendo sul carattere della sorella, Cleopatra non poté fare a meno di pensare al fratello Tolomeo, il maggiore, che in quel momento di sicuro veniva lavato insieme all’altro, il minore, chiamato Medione per distinguerlo dal primo³ . Anche lui protestava in continuazione per ogni quisquilia, soprattutto da quando la nonna gli aveva fatto lasciare Alessandria. A volte protestava che faceva troppo caldo, altre che l’acqua aveva uno strano sapore, e mugugnava di continuo perché il pane e il cibo erano pieni di sabbia del deserto che scricchiolava sotto i denti, nonostante gli schiavi si fossero affannati per pulirli.

    Ma la differenza tra i due era che il bambino brontolava con l’acrimonia di un vecchio e l’altezzosità di un monarca. Per quanto avesse solo sette anni, pareva che si sentisse già sacro al pari dei suoi antenati divinizzati, e credeva che il caldo o il freddo eccessivi – così come l’afa, le tempeste di sabbia o qualsiasi altro fastidio dovuto al clima – costituissero offese dirette alla sua persona.

    In quanto sorella maggiore, Cleopatra provava a metterlo in riga, ma correggere il carattere di Tolomeo era un compito impossibile quanto addomesticare un coccodrillo. La giovane era preoccupata dall’eventualità che, se il padre fosse riuscito a convincere i romani a farsi reinstallare sul trono, Tolomeo sarebbe divenuto il suo erede, e in poco tempo il re avrebbe dovuto cercargli una moglie appropriata. Come era già avvenuto in passato, le usanze della famiglia indicavano che era lei la candidata più idonea. L’idea di spartire il letto con quel piccolo tirannello dagli occhi sporgenti le dava il voltastomaco.

    «A che stai pensando?», domandò Arsinoe.

    «A niente», rispose l’altra.

    «Non mentire. Qualcosa ti dà fastidio».

    «No».

    «E invece ti dico di sì».

    «Va bene. Come fai a saperlo?»

    «Quando sei arrabbiata per qualcosa, muovi le labbra come se parlassi da sola e scuoti la testa a destra e sinistra schioccando la lingua».

    Ne prenderò nota, si disse Cleopatra. In quanto principessa, nonché membro di quella stravagante famiglia, doveva imparare a nascondere emozioni e pensieri dietro una maschera.

    Attraversarono una galleria decorata con affreschi che rappresentavano il divino costruttore Ptah, mentre nel cuore sognava il mondo e apriva la bocca per tradurre il sogno in parole e trasformarlo quindi in realtà. Di giorno le immagini risplendevano con colori molto vivaci, però di notte la luce tremolante delle lampade proiettava ombre che scivolavano sulle figure come sinistre presenze del Duat, l’oltretomba. Da lontano si sentiva il monotono ronzio delle preghiere e dei cori che preparavano il rituale dell’anno nuovo.

    Entrarono nella sala dei bagni. Carmione e Teano le aiutarono a togliersi le tuniche da notte, mentre altre due cameriere le tenevano per mano perché non perdessero l’equilibrio. Una volte nude, le due ragazze si adagiarono in una grande tinozza piena di acqua fumante. Cleopatra osservò di sottecchi il corpo della sorella. Più giovane di due anni, era alta come lei, aveva il seno più florido e a punta e i fianchi più rotondi.

    «Non te ne angustiare, signora», le diceva di solito Carmione. «Chi sviluppa presto cresce di meno, e i seni cadono prima. Vedrai, ti alzerai ancora di qualche centimetro».

    Fino a quel momento, dei centimetri non si era vista l’ombra, ma delle mestruazioni sì, nello stesso periodo della sorella. Insieme a quel primo sangue era stata pervasa da sensazioni che la turbavano, perché a volte la facevano diventare un’altra persona, che aveva difficoltà a riconoscere. Alcune mattine si svegliava così allegra e ciarliera che il flusso ininterrotto delle parole finiva per stordire pure lei; altri giorni invece era così triste che poteva singhiozzare afflitta se un’innocente cavalletta finiva nella ragnatela di un perfido ragno.

    Eppure ciò che la rendeva più perplessa era la trasformazione intima del suo corpo. Proprio allora, mentre si immergeva nell’acqua calda, si rese di nuovo conto del cambiamento. Essendo una principessa, era abituata sin da piccola al fatto che la lavassero, la massaggiassero con l’unguento e, in generale, si occupassero della sua persona come se non avesse le mani per farlo da sola. Aveva sempre provato piacere a sentire la spugna sulla schiena, ma era un godimento innocente, lo stesso di Rom, il suo gatto, quando gli passava la mano sul dorso.

    Da qualche tempo a questa parte era cambiato tutto. La ruvidità della spugna e le dita della giovane ancella le risvegliavano sulla pelle sensazioni diverse, soprattutto quando si avvicinavano al seno e all’inguine. Era come se sino a quel momento il corpo fosse stato una lira a cinque corde e ora di colpo si fosse tramutato in un’arpa alessandrina di ventuno, molto più ricettiva e accordata a tonalità e armonie di cui prima Cleopatra ignorava l’esistenza. E tutte quelle note e vibrazioni sembravano convergere nel suo ventre, inondandolo di un calore allo stesso tempo piacevole ed esasperante, una delicata tensione che in qualche modo chiedeva di essere sprigionata. Con suo grande avvilimento, il corpo sembrava dedicarvisi per la maggior parte del giorno, particolare sconcertante e frustrante per una persona che sin da piccola si era adoperata ad allenare il cervello con una tale solerzia da divenire motivo di vanto presso il suo defunto precettore Polikino, perché a soli dieci anni gli poneva domande più intelligenti di quelle degli altri alunni adulti del Museo.

    Proprio per questa ragione la giovane si chiedeva se il piano che aveva messo a punto per la notte seguente fosse stato concepito dalla sua mente o fosse solo un impulso del corpo. Con il pretesto che tutti sarebbero stati impegnati nei rituali – più libera dai controlli, dunque – pensava di uscire alla chetichella dal tempio e dalla città – dal suo arrivo a Menfi non l’aveva mai fatto – per assistere alla festa dell’anno nuovo, celebrata nel vicino villaggio di Tiebu. Voleva confondersi alla massa dei nativi, bagnarsi nel Nilo e bere le acque della piena. In quella notte sarebbero coincise la luna piena, l’inondazione e la data in cui era nata, quindici anni prima. Come non approfittare di un’occasione così magica per unirsi misticamente al fiume, all’anima del suo Paese?

    Da quanto aveva sentito, quelle feste si spingevano ben oltre i canti solenni e le abluzioni. Nove mesi dopo nascevano più bambini del solito, chiamati per questo figli dell’inondazione. Cleopatra ci rifletté per un istante, di sfuggita, senza soffermarsi troppo su quel pensiero. Era una principessa della casa dei Lagidi. Come una volta le aveva spiegato il padre, con la voce pastosa per il vino, la sua verginità era un affare di Stato, preservata per la famiglia o per le future alleanze politiche.

    Carmione e Teano si assentarono dalla stanza per convocare le ancelle incaricate di portare i vestiti e i gioielli delle principesse. Visto che le giovani domestiche intente a lavarle a malapena masticavano il greco, Arsinoe si chinò verso la sorella e le sussurrò all’orecchio: «Se non mi porti con te, spiffero tutto a nonna».

    Tra di loro non potevano parlare che il greco, perché Arsinoe non conosceva altro. La sorella era tutto fuorché stupida, ma disdegnava ogni forma di studio, già per lei noioso, che comportasse un seppure minimo sforzo. «Perché nonna perde tempo a insegnarci la lingua della plebe? Che imparino gli egizi la nostra, siamo noi i conquistatori!», era solita ripetere. Quando l’ascoltavano, Tolomeo assentiva con vigore e il piccolo Medione muoveva il capo in segno di accordo con il fratello, che cercava di imitare in tutto e per tutto.

    «Tu non verrai», obiettò Cleopatra. «Se ci scoprono, mi punirebbero anche per te».

    «E che te ne importa? Nonna ti darà al massimo una strigliata. Non l’ho mai vista picchiarti».

    «Perché non le piace punirci davanti agli altri, ma certo che l’ha fatto», ribatté l’altra. In realtà, sua nonna non le aveva mai messo le mani addosso, mentre più di una volta aveva usato i sandali di papiro per colpire il didietro principesco dei fratelli e persino di Arsinoe. Loro se la cercano, io no, si giustificò Cleopatra.

    «Non mi interessa», insistette Arsinoe. «Se non mi fai venire, glielo dirò e non ti farà più uscire per punizione».

    Cleopatra scosse la testa di nuovo, ma mentre stava per schioccare la lingua come le aveva riferito prima la sorella, si contenne: era svelta a imparare.

    Non avrei dovuto dirlo ad Arsinoe, si lamentò. In genere teneva tutto per sé, soprattutto perché aveva capito che gli altri non condividevano i suoi stessi interessi: le lingue, le storie del passato, le stelle e i pianeti, i nomi e le proprietà delle piante, l’arte della navigazione, i costumi, le leggi e le tattiche militari degli altri popoli. L’intero universo.

    Tuttavia quella maledetta esuberanza che si era impossessata del suo corpo a volte prendeva il sopravvento e le faceva aprire bocca più di quanto volesse. Se con Arsinoe era impossibile conversare di qualsiasi argomento intellettuale, non appena Cleopatra le confessava aneliti e trepidazioni più mondane la sorella si trasformava in un’interlocutrice attenta e sollecita. Una volta che le parole sono fuori dai denti, non c’è modo di farle tornare indietro, si ricordò di un detto della nonna.

    «E va bene. Ti porterò con me».

    «Perfetto!», e Arsinoe sbatté le mani nella vasca. Una delicata onda la colpì sul viso.

    «Però dovrai restare sveglia. Se devo pure litigare con te per buttarti giù dal letto, rimani qui».

    «Schiaccerò un riposino nel pomeriggio».

    «Il fiume è pericoloso, lo sai».

    «Se è così pericoloso, perché tu ci vuoi andare?»

    «Perché ho sognato che dovevo farlo».

    «Davvero l’hai sognato?».

    Cleopatra annuì. Era una mezza verità o una mezza bugia, a seconda di come la si considerasse. Due notti prima aveva effettivamente sognato di immergersi in un fiume, ma la sua visione non si spingeva oltre, non mostrava nessun indizio che dovesse farlo per forza nel Nilo.

    Il giorno dopo la giovane aveva consultato un trattato sull’interpretazione dei sogni. Non sapeva cosa pensare. Da un lato il libro assicurava che sognare di fare il bagno in una sorgente o in un fiume di acque chiare rivelava benefici per la salute; se, però, il sognatore nuotava, v’era la possibilità che avrebbe dovuto affrontare gravissimi pericoli. Di sicuro nel sogno non stavo nuotando, aveva riflettuto. In realtà non lo ricordava con esattezza. Tutti sanno che le immagini oniriche si dileguano subito dalla memoria, come un disegno tracciato con un bastone sulla sabbia del deserto durante una tempesta di vento.

    «E cos’hai sognato di preciso?», le chiese Arsinoe.

    Cleopatra appoggiò la schiena sulla parete della vasca e guardò in alto, cercando ispirazione tra le intrecciature dorate del soffitto a cassettoni.

    «Iside. È stata la nostra signora Iside ad apparirmi».

    Arsinoe sbarrò gli occhi.

    «Com’era?»

    «Molto più bella di quanto tu possa immaginare». Giacché lo stava inventando, Cleopatra decise di aggiungere dettagli concreti alla narrazione. «Mi superava di tre teste. Indossava una tunica molto aderente color zafferano, in mano reggeva uno scettro e portava la corona con le corna di Hathor. Aveva gli occhi ancora più grandi dei tuoi, viola come l’ametista».

    Sebbene Arsinoe non mostrasse alcun interesse per la dottrina egizia, Iside meritava un discorso a parte, visto che sia i greci sia i barbari romani la veneravano come una dea del proprio pantheon.

    «E che ti ha detto la dea?»

    «Mi ha detto…», e la giovane alzò la voce in tono solenne. «…"Cleopatra, figlia di Tolomeo, se vuoi essere regina d’Egitto, ricorda che l’Egitto è un dono del Nilo, e il Nilo è un mio dono, perché fluisce dalle mie

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