Guerre, battaglie e rivolte nel mondo arabo
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Da millenni crocevia e punto di confluenza di miriadi di civiltà, culture e popoli, il Medioriente rappresenta il terreno di scontro tra entità geopolitiche di volta in volta differenti, ma anche un cantiere sempre aperto di esperimenti politici. Dal disfacimento dell’impero turco la storia bellica del Medioriente passa attraverso l’amministrazione delle grandi potenze e la successiva decolonizzazione, proseguendo con l’ascesa del panarabismo e la sua violenta collisione con il nuovo, dirompente elemento rappresentato dalla nascita dello Stato d’Israele, per arrivare, dopo la prima decade del nuovo millennio, alla catena di rivolte e guerre civili contro i regimi più autocratici. È nell’area mediorientale che si concentra la maggior parte delle guerre e delle battaglie della storia recente; un settore dove i motivi di belligeranza si sovrappongono e si sommano gli uni agli altri senza soluzione di continuità, e dove tanti protagonisti, siano essi presidenti o primi ministri liberamente eletti, dittatori e giunte militari, re e capi religiosi, despoti e ribelli, si confrontano con una tenacia che conosce pochi eguali nella Storia. Da Lawrence d’Arabia a Gheddafi, dalle guerre arabo-israeliane all’occupazione dell’Iraq, fino all’odierna e drammatica guerra civile in Libia, questo libro offre al lettore una chiave di lettura storica indispensabile per comprendere la contemporaneità.
Andrea Frediani
è nato a Roma nel 1963. Laureato in Storia medievale, ha collaborato con numerose riviste specializzate, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Attualmente è consulente scientifico della rivista «Focus Wars». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Gli assedi di Roma, vincitore nel 1998 del premio Orient Express quale miglior opera di Romanistica, I grandi generali di Roma antica, Le grandi battaglie di Giulio Cesare, Le grandi battaglie del Medioevo, Le grandi battaglie di Roma antica, I grandi condottieri che hanno cambiato la storia e L’ultima battaglia dell’impero romano. Ha scritto 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita, 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano, i romanzi storici 300 guerrieri, Jerusalem (tradotti in varie lingue), Un eroe per l’impero romano e la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare).
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Anteprima del libro
Guerre, battaglie e rivolte nel mondo arabo - Andrea Frediani
Il crollo dell’impero ottomano
e il sogno di Lawrence d’Arabia
La dichiarazione di guerra dell’impero ottomano fu tutt’altro che formale, grazie anche alla fattiva collaborazione dei tedeschi, i quali mandarono a Costantinopoli come consigliere militare l’abile generale Liman von Sanders; a dispetto dei suoi suggerimenti, tuttavia, il governo dei Giovani Turchi optò per una strategia offensiva su tutti i fronti lungo i quali il dominio ottomano era attaccabile, che furono dunque trasformati in basi di partenza per le successive offensive. Mar Rosso, Golfo Persico, Africa nordorientale, Caucaso, Mar Nero, Dardanelli: coordinare tutti questi settori non era affare da poco, e a farsi carico di un onere tanto pesante fu Enver Pascià, già leader del movimento che aveva conquistato il potere, il quale assunse le cariche di ministro della Guerra e capo di stato maggiore.
Tuttavia, tale strategia doveva fare i conti con quelle degli avversari, non meno aggressive: a nord, per esempio, i russi reagirono al bombardamento dei loro porti sul Mar Nero dando luogo a un‘offensiva che impedì ai turchi l’avanzata verso la regione petrolifera di Baku. Gli inglesi, poi, avevano grandi progetti, forti anche della convinzione di affrontare un nemico di scarso spessore. Il loro obiettivo era una manovra a tenaglia con due armate che convergessero verso la Siria, l’una dal canale di Suez, l’altra dalla Mesopotamia; in particolare, in quest’ultimo settore il comando aveva il dovere di proteggere gli interessi del governo di Sua Maestà, legati all’Anglo-Persian Oil Company, con lo sbarco di truppe indiane nella zona dello Shatt el-Arab, alla confluenza tra Tigri ed Eufrate, dove si trovava la raffineria di Abadan. La fortezza turca di Fao, situata lungo il corso d’acqua, si arrese ai primi bombardamenti della corvetta fluviale Odin. In un paio di settimane i britannici risalirono il fiume per 120 chilometri e occuparono Bassora.
Sul fronte meridionale, tuttavia, i turchi riuscirono ad anticipare i britannici, attaccando il canale prima che l’offensiva dall’Egitto avesse inizio. Ma fu un fiasco che gli si ritorse perfino contro. Alla fine di gennaio del 1915 partirono in 20.000 – cinque divisioni della 4a armata, al comando di Gemal pascià, ministro della Marina – alla volta delle postazioni inglesi, rinforzate per l’occasione da truppe australiane e indiane di passaggio nella loro marcia verso il fronte europeo. C’erano da percorrere i 200 chilometri di lunghezza della penisola del Sinai, senza una strada decente o un pozzo che ne agevolasse il passaggio: un affare non da poco per un esercito privo di sistemi logistici, che riuscì a farcela soprattutto grazie all’opera dell’ufficiale tedesco del genio, Kress von Kressenstein, il quale si premurò di scavare i pozzi necessari a non far morire di sete i soldati e gli animali da soma.
I turchi arrivarono davanti alle postazioni inglesi il 2 febbraio, solo per scoprire di non essere capaci di gettare i ponti di barche per passare il canale, che gli alleati germanici si erano fatti mandare dall’Europa. Il comandante ordinò comunque l’attacco, che si scatenò senza alcun coordinamento nella notte tra il 2 e il 3. Coadiuvati dal fuoco delle artiglierie delle navi francesi all’ancora nel lago Amaro, i britannici ebbero facilmente la meglio, e gli avversari furono costretti a ripiegare dopo aver avuto un paio di migliaia di caduti. Privi dell’appoggio tedesco, i turchi non avevano offerto una gran prova dei loro mezzi e, nonostante che le operazioni belliche sugli altri fronti procedessero decisamente meglio, lo scacco era avvenuto proprio nella zona in cui il loro impero era più sottoposto a spinte centrifughe. Gli arabi, infatti, che già da tempo meditavano di tentare la via dell’indipendenza, ne trassero la convinzione che i loro dominatori non sarebbero stati in grado di fermarli, se avessero avuto la determinazione per riunirsi in una rivolta.
Questa circostanza facilitò il compito di Ronald Storrs, il funzionario dell’amministrazione inglese in Egitto cui Mac Mahon aveva affidato la gestione dei rapporti con lo sceriffo Hussein, e del suo braccio destro, un giovane archeologo che, per la sua sagacia e competenza, gli inglesi utilizzavano da qualche tempo per attività di spionaggio e come elemento di raccordo con la popolazione araba: Thomas Edward Lawrence. Figlio illegittimo di un gentiluomo irlandese, questi aveva studiato a Oxford, dove si era laureato con una tesi sui castelli dei crociati, che era andato a visitare personalmente in Siria e Palestina. Già in questa circostanza si era fatto notare per doti di resistenza e determinazione fuori dal comune, per la sua intelligenza acuta, per una curiosità spiccata. Successivamente, si era stabilito a Karkemish sull’Eufrate, in qualità di assistente archeologo del British Museum in una campagna di scavi ittiti, e una veloce capacità di apprendimento gli aveva consentito di imparare in fretta il dialetto arabo del luogo; il sito archeologico, tuttavia, era talmente prossimo a uno dei cantieri della ferrovia per Bagdad – quell’opera tedesca che gli inglesi vedevano come una minaccia alla loro egemonia nel settore –, che al giovane fu richiesto di fornire informazioni sull’andamento dei lavori.
Ancor più legato a un’attività di spionaggio era stato il suo successivo incarico nel 1914, nella penisola del Sinai, che costituiva la barriera tra l’Egitto inglese e la Palestina ottomana; i suoi rilievi cartografici erano stati molto apprezzati al War Office, tanto che allo scoppio della guerra Lawrence, riformato perché giudicato troppo gracile e basso di statura, fu assegnato ai servizi informativi, con sede al Cairo, diventando in breve tempo uno dei più autorevoli esponenti dell’Ufficio arabo. Le complicazioni che stava presentando la guerra contro i turchi, ritenuti l’anello debole degli Imperi Centrali, rendevano assai preziosa l’opera di Storrs e di chiunque facilitasse il dialogo con gli arabi e fosse in grado di condurre le loro velleità indipendentiste nell’alveo inglese: «Prima di allora», scrive Lawrence nel suo personalissimo racconto della rivolta araba, «l’Inghilterra aveva sperato piuttosto nella Mesopotamia»; in quel settore gli anglo-indiani del generale Townshend si erano impadroniti facilmente di Bassora sul Golfo Persico, grazie al fatto di aver affrontato fino ad allora forze arabe poco propense a combattere con ardore per dei dominatori mai amati. Tuttavia, come si è detto, lo sfruttamento di quello scacchiere era il frutto di considerazioni politiche ed economiche, più che militari, per via dei forti interessi inglesi nella regione.
Di ben altro spessore era invece l’apertura di un fronte in Asia Minore. Dietro le insistenti richieste russe, infatti, il 19 febbraio del 1915 era iniziata la sfortunata offensiva contro le posizioni turche sui Dardanelli, minata da una serie di errori, dalla sottovalutazione dell’avversario alla superficiale preparazione dell’impresa, dalla scarsa collaborazione tra gli alleati all’incapacità di sfruttare le occasioni più favorevoli, dalla divergenza di vedute negli alti comandi e tra i politici alla mancanza di coordinamento tra forze terrestri e navali. Intrapresa anche con lo scopo di rendere dinamica una guerra che, in Europa, era immobilizzata dal suo svolgimento nelle trincee, la campagna finì per trasformarsi anch’essa in una guerra di posizione, nella quale le truppe alleate tennero bloccato un gran numero di effettivi di fronte alle forti postazioni difensive turche nella penisola di Gallipoli, per svincolarsi con una onorevole ritirata solo alla fine dell’anno.
Sugli altri fronti della guerra mediorientale, per l’Intesa le operazioni non erano molto più brillanti di quelle sui Dardanelli. Il fallimento di Gallipoli aveva permesso ai turchi di rinforzare la guarnigione della Palestina di Gemal Pascià, che nell’agosto del 1916 condusse un nuovo attacco al canale, ma solo per essere respinto a el-Katia dal generale Murray. In Mesopotamia, poi, le cose erano precipitate. L’avanzata verso Bassora era parsa talmente semplice e priva di insidie al comandante in capo delle forze britanniche, il generale John Nixon, da indurlo a ordinare al suo generale di divisione Charles Vere Ferres Townshend, cui era affidata l’avanzata, di abbandonare i propositi di puro presidio della zona e di puntare decisamente su Bagdad. In questi termini, l’offensiva non era stata pianificata, e le truppe anglo-indiane si erano trovate ad avanzare in un territorio dal clima malsano, lungo l’acquitrinoso e paludoso corso del Tigri, senza essere adeguatamente sostenute dai necessari approvvigionamenti e servizi fluviali. Inoltre, man mano che i britannici procedevano verso l’obiettivo, le risorse del nemico, più vicino alle sue basi, crescevano e lo rendevano più pericoloso e intraprendente.
La faticosa avanzata di Townshend si bloccò a 40 chilometri da Bagdad, il 22 novembre del 1915. In quella occasione, il generale riuscì a battere i turchi, forti di 13.000 uomini, ma perdendo metà dei suoi 9000, stremati effettivi, il che rendeva priva di senso ogni ulteriore mossa verso nord-ovest; il comandante decise quindi di tornare indietro, anche perché aveva saputo dell’arrivo in Mesopotamia del generale tedesco Colman von der Goltz con altri 30.000 rinforzi turchi. Townshend riuscì a compiere 150 chilometri sulla via del ritorno, perdendo altri mille uomini, prima di rendersi conto che i suoi non erano più in grado di procedere oltre e attestarsi a Kut-el-Amara, un villaggio in un’ansa del Tigri, circondato dal fiume per tre lati, dove a partire dall’8 dicembre venne posto sotto assedio. Il generale si difese trincerando l’istmo, quindi inviò pressanti richieste di soccorso, mentre von der Golz divideva le sue forze su due linee, l’una rivolta verso il villaggio, l’altra verso i soccorritori.
Nessuno riuscì a liberare Townshend. Gli inglesi ci provarono due volte, con due colonne del generale Gorringe, e una terza colonna russa di Baratov, proveniente dal Caucaso, si mosse troppo tardi; in aprile, il 28, il generale fu costretto a chiedere la resa: dei prigionieri solo un terzo sopravvisse all’inumano trattamento dei campi di prigionia ottomani, mentre Townshend venne trattato con tutti i riguardi. Ma la morte per tifo dell’abile comandante tedesco privò i turchi di una guida esperta, e il successo rimase fine a se stesso, consentendo agli inglesi di preparare con relativa calma la nuova offensiva. Molto più brillanti furono le operazioni dei russi che, con il granduca Nicola, già dimostratosi valido generale sul fronte europeo, conquistarono l’importante piazzaforte di Erzerum e si spinsero fino nel cuore della Persia, occupando Trebisonda e Bitlis, a ovest del lago Van, con una colonna, e Tabriz con un’altra.
Dopo la caduta di Erzerum, Lawrence fu spedito proprio in quel settore, per dare il proprio contributo alla resistenza di Kut, ma quando anche Townshend cadde, l’archeologo tornò al Cairo per prestare la sua opera in quello che si stava rivelando ormai l’obiettivo principale degli inglesi, ovvero il sostegno a una sollevazione che partisse dalla penisola araba e appoggiasse l’offensiva britannica in Palestina.
La rivolta scoppiò improvvisamente: «Pochi, anche fra coloro al corrente delle trattative, avevano creduto davvero che lo sceriffo avrebbe preso le armi; perciò la sua rivolta, finalmente, e la sua costa aperta alle nostre navi e al nostro soccorso, colsero di sorpresa noi e loro». Queste parole di Lawrence, allora capitano di stato maggiore del servizio informazioni al Cairo e aggregato alla sezione militare dell’Ufficio Arabo, vogliono testimoniare l’incapacità iniziale, da parte degli inglesi, di dare un risvolto concreto alle loro promesse di aiuto agli arabi, il cui scopo iniziale era quello di impadronirsi dei punti nodali della ferrovia e di assumere il controllo di centri nevralgici come Medina e La Mecca. La rivolta prese il via il 5 giugno dalla città santa, da Taif e da Gedda, dalle quali, tuttavia, gli arabi non riuscirono a cacciare le guarnigioni turche. Durante i combattimenti a Gedda, però, aerei e navi inglesi intervennero a dare manforte ai rivoltosi, che poterono così conquistare la città; subito dopo, le truppe egiziane che i britannici poterono sbarcare consentirono agli arabi di impadronirsi anche della Mecca e di Taif, poi di Yembo e Rabegh: lo sceriffo non aveva la minima intenzione, infatti, di permettere a truppe cristiane di sfilare per le vie della città santa.
Nel complesso, comunque, si vide presto che la rivolta non aveva grandi sbocchi, di fronte alle difficoltà che le formazioni irregolari incontravano davanti ai più organizzati ranghi dell’esercito turco, alla scarsa collaborazione inglese, alla mancanza di collegamenti tra i capi arabi e di un coordinamento generale, che solo un capo carismatico poteva imporre. Hussein era vecchio, e tra i suoi figli il solo Feisal, trentunenne, parve a Lawrence degno di assumere la leadership del movimento: «Sapevamo che il primo, lo sceriffo della Mecca, era ricco d’anni. Vidi Abdullah troppo abile, Alì troppo puro, Zeid troppo freddo». Per quanto riguarda Feisal, invece, «subito, al primo sguardo, capii che quello era l’uomo che cercavo in Arabia, il capo che avrebbe portato la rivolta araba al pieno successo».
Compito di Lawrence era capire cosa mancava agli arabi per condurre in porto la loro impresa, che stava decisamente languendo. A detta di Hussein, tutta la popolazione araba dell’impero ottomano si sarebbe sollevata al suo segnale; invece, non c’erano state defezioni nell’esercito ottomano, pur composto in buona parte da arabi, né alcun nome di prestigio aveva aderito al richiamo dello sceriffo. La rivolta aveva finito per essere circoscritta a poche migliaia di beduini dell’Higiaz con i quali, con tutta la buona volontà degli ufficiali inglesi e con tutti i soldi che era in grado di stanziare l’impero britannico, era veramente difficile fare un esercito. Medina, forte di mura possenti, si era rivelata al di là delle loro possibilità, con una guarnigione di 15.000 uomini e i rinforzi che vi affluivano grazie alla ferrovia, la cui stazione era posta entro la cinta muraria. Il loro tentativo di prendere la città li aveva posti di fronte alla dura realtà della guerra totale, ben diversa da quella, regolata dagli schemi tribali, che i beduini combattevano endemicamente da secoli. La guarnigione aveva scaricato addosso agli assalitori, dotati tutt’al più di armi ad avancarica, il tiro delle sue artiglierie e i beduini, terrorizzati dal rombo dei cannoni cui non erano abituati, si erano sfaldati e ritirati; inoltre, i sobborghi della città erano stati resi terra bruciata e la popolazione inerme massacrata: concetti del tutto estranei alla mentalità militare araba, per la quale in guerra i beni mobili, le donne e i ragazzi non dovevano essere toccati.
Un caposaldo come Medina rimaneva dunque al di fuori della portata dei ribelli, e Feisal si limitava ad attaccare le retroguardie delle colonne turche di notte, per evitare che usassero i cannoni; ma anche così ogni azione, per quanto proficua, gli costava un gran numero di cammelli, vittime dei tiratori turchi. Né era possibile per gli arabi procedere oltre l’Higiaz per collegarsi con gli arabi siriani – alcuni dei quali erano affluiti nelle loro file convinti anch’essi di guadagnarsi un’indipendenza nazionale, libera dall’influenza straniera quanto dall’egemonia della famiglia di Hussein – fino a quando Medina non fosse caduta, senza scoprire il fianco e vedersi tagliare la via della ritirata e dei rifornimenti.
Con le caratteristiche di cui disponevano gli uomini delle tribù, la mobilità, l’insofferenza all’autorità, la tendenza al predonismo, i beduini parevano più adatti alla guerriglia, ben più proficua contro un nemico equipaggiato dai tedeschi di qualsiasi tentativo di scontro frontale; il paese, oltretutto, aspro e roccioso, nel quale strette valli si alternavano a burroni, colline e dirupi, ben si prestava alle imboscate: se pure tale tattica avesse prolungato la guerra ben oltre le aspettative dello sceriffo, essa avrebbe mantenuto in allerta i turchi lungo tutto il tratto arabo della ferrovia, creando una situazione di stallo che avrebbe consentito agli inglesi di avanzare dal canale in Palestina con il fianco coperto. Ma Feisal, e anche Lawrence, volevano di più: volevano una partecipazione attiva alla guerra, volevano i turchi fuori dall’Higiaz per mano degli stessi arabi, i quali avrebbero così potuto costituire l’ala destra degli inglesi nella loro avanzata in Palestina e rivendicare quindi, con maggiore autorevolezza, il rispetto delle vaghe promesse fatte dagli alleati al vegliardo della Mecca.
Il problema era che, alla prova dei fatti, si era constatato che la rivolta araba non poteva assolutamente prescindere dall’aiuto inglese: Feisal avrebbe potuto realizzare le sue aspirazioni solo fruendo in modo massiccio di tale aiuto ma, nello stesso tempo, pubblicizzandolo e ammettendolo il meno possibile. Nei suoi resoconti, Lawrence si fece perfetto interprete dell’ambiguità che guidava il proprio atteggiamento – e quello dell’emiro –, agendo sempre in funzione degli interessi inglesi ma celando il reale peso avuto dai suoi connazionali nei successi arabi.
Tornato al Cairo, Lawrence riuscì a ottenere nuovi rifornimenti di artiglierie per i suoi protetti, e una certa libertà d’azione come consigliere militare di Feisal, il quale, non appena il giovane archeologo giunse di nuovo nella sua base di Yembo, gli chiese di assumere le vesti nelle quali l’iconografia tradizionale lo raffigura:
...io mi sarei sentito più a mio agio, poiché erano gli indumenti più comodi per il genere di vita che dovevamo condurre, e gli arabi avrebbero saputo come comportarsi con me. Gli unici uomini vestiti di cachi che conoscevano erano gli ufficiali turchi, dinanzi ai quali si chiudevano in un’istintiva ostilità. Vedendomi vestito d’un abito della Mecca, mi avrebbero trattato davvero come un loro capo, e sarei potuto entrare e uscire dalla tenda di Feisal senza creare mormorii e costringerlo a dare spiegazioni ad ogni nuovo venuto.
Subito dopo, Lawrence si trovò a essere protagonista della difesa della stessa Yembo. I turchi stavano puntando proprio sulla città, che sorgeva su un altopiano corallino circondato per due lati dal mare e per gli altri due da distese di sabbia; tre loro battaglioni avevano sorpreso Feisal con 2000 uomini male equipaggiati con fucili avanzati dalla campagna di Gallipoli, e due cannoni dell’epoca delle guerre boere, incrostati di verderame, con le spolette che scoppiavano prima del dovuto, per aria o rasoterra. L’ala sinistra araba aveva ceduto e l’emiro era stato costretto a riparare a Yembo, dove Lawrence aveva intanto telegrafato agli inglesi perché facessero affluire nel porto più navi possibili, dandosi nel contempo da fare per allestire le difese dal lato di terra. Dalla sua opera scaturì quello che egli stesso definì un bastione medievale, utilizzando un muro della città sgretolato e roso dal sale, di fronte al quale ne fece costruire un altro, che unì al primo colmandone lo spazio con della terra, mentre all’esterno un ulteriore sbarramento era costituito da una barriera di filo spinato teso tra le cisterne dell’acqua fuori