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Ben Hur
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E-book784 pagine11 ore

Ben Hur

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Info su questo ebook

Il bestseller
Il capolavoro dei record
Il film

Introduzione di Antonio Spinosa
Edizione integrale

Da questo libro il film evento

Ben Hur, a Tale of the Christ (Ben Hur, un racconto su Cristo) è uno dei più conosciuti e appassionanti romanzi storici della letteratura mondiale, in cui magicamente si intrecciano vicende storiche e favolistiche e da cui sono state tratte celebri pièce teatrali e film indimenticabili. Le sue pagine ci portano indietro nel tempo, fra Roma e la Palestina, negli anni del principato di Augusto e in quelli del regno di Tiberio. Vi si narra la burrascosa storia del principe ebreo Giuda Ben Hur e, parallelamente, quella di Gesù Cristo – il vero protagonista della vicenda – dalla nascita, nella mangiatoia di Betlemme, alla morte, sulla croce del Golgota. Una storia immortale, consacrata al cinema della classica versione del 1959, con Charlton Heston, e di recente riscoperta in un remake con Jack Houston, Toby Kebell e Morgan Freeman

Il ritorno di un mito

«Ben Hur può essere iscritto nella rosa dei classici, di quei libri che sopravvivono allo scorrere del tempo perché in ogni epoca riescono a trasmettere un nuovo messaggio, a emozionare il lettore, a ispirare persino altri fantastici racconti.»
Antonio Spinosa

Un brano del libro:

«Nel momento scelto per il balzo in avanti, Messala stava girando intorno alla meta. Per superarlo, Ben Hur doveva traversare la pista, e la strategia voleva che il movimento fosse nella stessa direzione: cioè nel medesimo segmento di cerchio appena appena più largo. Le migliaia di spettatori capirono; videro il segnale dato e la magnifica risposta, i quattro cavalli vicinissimi alla ruota esterna del cocchio di Messala, la ruota interna di Ben Hur dietro il cocchio dell’altro...»
 
Lew Wallace
(1827-1905) fu uno stimato uomo politico e un valoroso soldato americano. Prima che Ben Hur lo rendesse famoso in tutto il mondo, trascorse molti anni a declamare arringhe nei tribunali dello Stato dell’Indiana e a combattere su molteplici campi di battaglia: un’esperienza che gli valse la fiducia del presidente Abramo Lincoln e i gradi di generale. Oltre a Ben Hur, scrisse i romanzi storici Commodo, La fanciullezza di Cristo, Il principe dell’India.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2016
ISBN9788854196797
Ben Hur
Autore

Lew Wallace

Lew Wallace was an American lawyer, soldier, politician and author. During active duty as a second lieutenant in the Mexican-American War, Wallace met Abraham Lincoln, who would later inspire him to join the Republican Party and fight for the Union in the American Civil War. Following the end of the war, Wallace retired from the army and began writing, completing his most famous work, Ben-Hur: A Tale of the Christ while serving as the governor of New Mexico Territory. Ben-Hur would go on to become the best-selling American novel of the nineteenth century, and is noted as one of the most influential Christian books ever written. Although Ben-Hur is his most famous work, Wallace published continuously throughout his lifetime. Other notable titles include, The Boyhood of Christ, The Prince of India, several biographies and his own autobiography. Wallace died in 1909 at the age of 77, after a lifetime of service in the American army and government.

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    Anteprima del libro

    Ben Hur - Lew Wallace

    Libro primo

    1.

    Il Gebel es Zubleh è una catena di montagne che misura cinquanta miglia e più di lunghezza, ed è così stretta che il suo tracciato sulla carta geografica somiglia a un centopiedi strisciante da mezzogiorno a settentrione. Stando sulle sue balze rosse e bianche e guardando dalla parte del sole sorgente, si scorgerebbe soltanto il deserto d’Arabia, dove i venti di levante, tanto odiosi ai vignaioli di Gerico, folleggiano sin dall’inizio del mondo. Le sue falde sono tutte coperte dalle sabbie spinte fin là dall’Eufrate e destinate a rimanervi per sempre, perché le montagne formano un baluardo per i pascoli di Moab e di Ammon, a occidente: terre che altrimenti sarebbero anch’esse un deserto.

    L’arabo ha imposto la sua impronta su tutto, a sud e ad est della Giudea: perciò nella sua lingua il vecchio Gebel è il padre degli innumeri uadi che, intersecando coi loro letti asciutti e rocciosi la strada romana (ora un’ombra appena di quello che era una volta, un sentiero polveroso per i pellegrini che vanno alla Mecca e ne ritornano), si scavano il solco, approfondendolo a mano a mano che avanzano, per rovesciare le acque della stagione delle piogge nel Giordano o nel loro ultimo ricettacolo, il Mar Morto. Fuori di uno di questi uadi – più particolarmente, fuori di quello che nasce all’estremità del Gebel e che, estendendosi a nord-est, finisce col diventare il letto del fiume Giabbok – usciva, avviato agli altipiani del deserto, un viaggiatore su cui richiamiamo innanzi tutto l’attenzione del lettore.

    A giudicare dall’aspetto, costui era sui quarantacinque anni. La barba che gl’inondava il petto, un tempo certamente nera come l’ebano, era striata di grigio, il viso bruno come la bacca torrefatta del caffè e seminascosto da un kufiyeh, com’è chiamato ancor oggi dai figli del deserto il fazzoletto da testa, di color rosso. Aveva gli occhi, che alzava di tanto in tanto, grandi e neri. Indossava gli ampi paludamenti generalmente usati in Oriente, dei quali però non sarebbe stato possibile precisare la foggia perché, seduto sotto una tenda in miniatura, cavalcava un grande cammello bianco.

    È probabile che gli occidentali non riescano mai a superare l’impressione suscitata a prima vista da un dromedario equipaggiato per il deserto. L’abitudine, tanto fatale alla novità, non basta a distruggerla. Al termine di lunghi viaggi con le carovane, dopo anni e anni di residenza fra i beduini, l’uomo dell’Occidente, dovunque sia nato, si fermerà per aspettare il passaggio del solenne animale, il cui fascino non risiede nella bellezza, che nemmeno l’occhio dell’affetto riesce a scoprire, non nel movimento, nel tacito passo ondeggiante. Quello che fa il mare per la nave, il deserto lo fa per questa sua creatura. L’avvolge di tutti i suoi misteri, con tale intensità che, guardandola, si pensa ad essi: donde l’ammirazione e lo stupore. L’animale che usciva dal letto del torrente ben poteva pretendere l’omaggio tradizionale. Il colore e l’altezza, la larghezza del piede, la mole del corpo, non grasso, ma rigonfio di muscoli, il collo lungo e slanciato come quello del cigno, la testa, larga all’altezza degli occhi e affusolata in un muso che il braccialetto d’una dama avrebbe quasi potuto cingere, l’andatura, il passo lungo ed elastico, l’incesso sicuro e silenzioso, ogni cosa attestava il suo sangue siriano, antico come i tempi di Ciro¹ e d’un pregio senza pari. La solita briglia copriva la fronte d’una frangia scarlatta e guarniva la gola di pendule catenelle di rame, ognuna delle quali finiva con una tintinnante campanella d’argento; ma alla briglia non erano attaccate né le redini per il cavalcatore né la corda per il cammelliere. L’arnese issato sulla schiena era un’invenzione che avrebbe reso famoso l’inventore presso qualunque altro popolo fuori dell’Oriente. Consisteva in due casse di legno d’un metro e venti circa di lunghezza, equilibrate sì da pendere una per parte; l’interno, foderato di morbidi tappeti, permetteva al padrone di star seduto o semisdraiato, e su tutto era distesa una tenda verde. Grosse cinghie sul petto e la schiena e fasce assicurate con innumeri nodi e legamenti tenevano al posto il congegno. In tal modo gl’ingegnosi figli di Cus² avevano escogitato di rendere più comode le vie del deserto bruciate dal sole, lungo le quali li trasportava il dovere non meno che il piacere.

    Quando il cammello emerse dall’ultimo solco dell’uadi, il viaggiatore aveva oltrepassato il confine di El Belka, l’antico Ammon. Èra mattina. Dinanzi a lui sorgeva il sole, semivelato di morbida bruma, e si stendeva il deserto: non il regno delle sabbie mobili, ancora lontano, ma la regione dove la verzura comincia a rimpicciolire, disseminata di sassi di granito e di pietre grigie e brune e sparsa di stente acacie e di ciuffi d’erba cammellina. La quercia, il rovo e il corbezzolo erano rimasti indietro, quasi che, giunti fino a un certo punto, avessero gettato uno sguardo sulla distesa sitibonda e si fossero accovacciati, percossi dallo spavento.

    Ed ecco, la strada, o meglio il sentiero, era giunto alla fine. Il cammello sembrava più che mai trascinato da qualche cosa d’invisibile: allungava il passo e lo affrettava, con la testa protesa verso l’orizzonte, bevendo il vento a grandi sorsi traverso le larghe froge. La lettiga ondeggiava e sussultava come un battello sulle onde. Di tanto in tanto, letti di foglie secche frusciavano sotto le zampe dell’animale. Talvolta un profumo simile all’assenzio addolciva tutta l’aria. L’allodola, le gazze e le rondini di roccia si alzavano a volo, le pernici bianche scappavano via fischiando e chiocciando. Più di rado, una volpe o una iena arrivavano al galoppo per esaminare gl’intrusi a prudente distanza. A destra sorgevano le montagne del Gebel avvolte di veli perlacei, trascoloranti di momento in momento in una tinta violacea che in breve il sole avrebbe resa di fuoco. Sui picchi più alti un avvoltoio dalle ali aperte roteava in circoli sempre più vasti. Ma di tutto ciò colui che occupava la tenda verde non vedeva nulla, o almeno non dava segno di accorgersene. Teneva gli occhi fissi come in sogno. Al pari dell’animale, anche l’uomo sembrava guidato da una forza irresistibile.

    Per due ore il cammello continuò ininterrottamente ad avanzare dondolando, senza mutare né il trotto regolare né la direzione verso oriente; e in tutto quel tempo il viaggiatore non cambiò mai posizione, né mosse ciglio. Nel deserto, le distanze non sono misurate a miglia o a leghe, ma dal saat, cioè ora, e dal manzil, cioè fermata, equivalente a tre leghe e mezza la prima, a quindici o venticinque la seconda; ma sono, queste, le medie d’un cammello comune. Un cammello da soma di genuina razza siriana fa tre leghe facilmente; a tutta velocità, supera i venti ordinari. In conseguenza di quel rapido avanzare, mutava l’aspetto del paesaggio. A occidente il Gebel si stendeva all’orizzonte come un nastro celeste pallido. Qua e là sorgeva un tell o collinetta d’argilla e di sabbia cementata; di tanto in tanto le rocce basaltiche alzavano le cime arrotondate, avamposti delle montagne contro le forze nemiche della natura; tutto il resto era sabbia, talvolta liscia come una spiaggia battuta dal mare, talaltra ammucchiata in file di dune, qua in minute increspature, là in lunghe ondulazioni. Anche le condizioni dell’atmosfera erano cambiate. Il sole già alto aveva bevuto a sazietà la rugiada e la nebbia, ed ora scaldava la brezza che baciava il viaggiatore sotto la tenda, tingeva la terra tutt’intorno d’un latteo biancore e faceva scintillare il cielo d’una tremula luce.

    Trascorsero altre due ore senza riposo o deviazioni. La vegetazione era cessata del tutto. La sabbia formava alla superficie una crosta che si rompeva a ogni passo in falde crepitanti e stendeva ovunque il suo incontrastato dominio. Il Gebel era scomparso, e non c’erano punti di riferimento visibili. L’ombra erasi spostata a settentrione, e ora, invece di seguire gli oggetti che la proiettavano, correva regolarmente insieme ad essi; e poiché non si annunciava alcun indizio di sosta, il comportamento del viaggiatore sembrava ogni momento più strano.

    Nessuno, conviene ricordarlo, cerca il deserto per proprio piacere. La vita e gli affari lo attraversano per sentieri lungo i quali le ossa biancheggianti sono sparse come emblemi di morte. Tali sono le strade che vanno da pozzo a pozzo, da pascolo a pascolo. Il più esperto sceicco si sente battere il cuore quando si trova solo nei tratti senza sentiero. L’uomo di cui ci occupiamo, perciò, non poteva essere uscito in cerca di piacere; né d’altra parte le sue maniere erano quelle d’un fuggiasco: non si era voltato nemmeno una volta a guardarsi indietro. In simili casi, la paura e la curiosità sono le sensazioni più comuni: egli ne era del tutto immune. Quando gli uomini sono soli, si abbassano a qualunque compagnia: il cane diventa un compagno, il cavallo un amico, non è vergogna largire ad essi carezze e parole d’affetto. Il cammello non riceveva nessuno di questi segni, non un gesto, non una parola.

    A mezzogiorno preciso il cammello, di sua propria volontà, si arrestò, lanciando un grido o meglio quel lamento particolarmente pietoso col quale gli animali della sua specie sono soliti protestare per un carico eccessivo, richiamare l’attenzione e invocare il riposo. Il padrone si scosse, quasi destandosi da un sogno. Sollevò le tendine dell’houdah, guardò il sole, scrutò il paese da tutte le parti, a lungo, attentamente, quasi per identificare un luogo stabilito. Soddisfatto dell’ispezione, trasse un gran respiro e annuì, quasi per dire: Finalmente! Finalmente!. Subito dopo incrociò le mani sul petto, e, chinato il capo, pregò in silenzio. Compiuto il pio dovere, si preparò a smontare. Dalla sua gola uscì il grido udito senza dubbio dai cammelli prediletti di Giobbe: «Ikh! Ikh!», il segnale d’inginocchiarsi. Adagio adagio, l’animale obbedì con un brontolio. Allora il cavaliere gli posò un piede sul collo slanciato e scese sulla sabbia.

    2.

    Il viaggiatore era di mirabili proporzioni, non tanto alto quanto vigorosissimo. Allentando la cordicella di seta che gli tratteneva il fazzoletto sulla testa, ne respinse indietro le pieghe e le frange per scoprirsi il viso: un viso energico, quasi d’un negro per il colore; eppure la fronte larga e bassa, il naso aquilino, gli occhi leggermente obliqui, i capelli abbondanti, lisci, duri, d’uno splendore metallico e ricadenti sulle spalle in trecce numerose, erano altrettanti segni d’un’origine impossibile a nascondere. Tale era l’aspetto dei Faraoni e degli ultimi Tolomei; così era Misraim³, il padre della razza egiziana. Indossava un kamis – camice bianco di cotone – con le maniche strette, aperto sul davanti, lungo fino alle caviglie e ricamato dal collo al petto, su cui era gettato un mantello di lana marrone, oggi, e con tutta probabilità anche allora, chiamato aba: specie di lunga sopravveste con le maniche corte, foderata d’una stoffa mista di cotone e di seta, bordata tutt’intorno da un orlo giallo scuro. I suoi piedi erano protetti da sandali allacciati con corregge di morbido cuoio; una fascia gli stringeva il kamis alla vita. Particolare notevolissimo, dato che era solo e che il deserto era il regno dei leopardi e dei leoni e di uomini altrettanto feroci, non portava armi, nemmeno il bastone ricurvo usato per guidare il cammello; dal che possiamo almeno dedurre che la sua missione era pacifica, e che era eccezionalmente ardito, o godeva di qualche straordinaria protezione.

    Intorpidito da quel lungo e faticoso cammino, il viaggiatore si stropicciò le mani e batté i piedi a terra; poi girò intorno al suo fedele servitore, i cui occhi lucenti si socchiudevano di soddisfazione mentre ruminava placidamente. Spesso, così girando, si fermava e, con la mano sugli occhi a riparo dal sole, scrutava il deserto fin dove giungeva lo sguardo; e ogni volta, alla fine di quell’esame, il suo viso si rannuvolava d’un disappunto leggero, ma sufficiente a rivelare a uno spettatore perspicace che stava aspettando qualcuno, anche se non si trattava forse d’un appuntamento prestabilito; e certo non lieve sarebbe stata la curiosità dello spettatore a proposito d’un affare che richiedeva d’esser trattato in un luogo tanto lontano dalle dimore della civiltà.

    Non c’era da dubitare, tuttavia, sulla fiducia dello straniero nell’arrivo dell’attesa compagnia. A prova di ciò, egli si avvicinò prima alla lettiga e dalla cabina, o meglio dalla cassa opposta a quella che aveva occupato nel venire, cavò fuori una spugna e una fiaschetta d’acqua con cui lavò gli occhi, il muso e le froge del cammello; ciò fatto, trasse dal medesimo ripostiglio una stoffa rotonda, a strisce bianche e rosse, un fascio di ramoscelli e una grossa canna. Questa, dopo essere stata alquanto maneggiata, si rivelò un’ingegnosa combinazione di segmenti minori uno dentro l’altro che, una volta uniti, formarono un palo più alto della testa del viaggiatore; il quale, dopo aver piantato il palo e i picchetti tutt’intorno, vi distese sopra il panno e si trovò letteralmente a casa sua: una casa molto più piccola delle abitazioni dello sceicco e dell’emiro, eppure perfettamente simile a quelle sotto tutti i rispetti. Dalla lettiga portò giù anche un tappeto, o stoino quadrato, e ne ricoprì il suolo della tenda dalla parte del sole. Ciò fatto, uscì fuori e scrutò un’altra volta, con maggior cura e occhi più ansiosi, l’intero cerchio dell’orizzonte. Tranne uno sciacallo che galoppava lontano sulla pianura e un’aquila che volava verso il Golfo di Aqaba, la distesa delle solitudini e la volta del cielo non presentavano traccia di vita.

    Si volse allora al cammello, e gli disse a bassa voce e in una lingua sconosciuta nel deserto:

    «Siamo lontani dal nostro paese, o corridore che gareggi con i più rapidi venti! Siamo lontani dal nostro paese, ma Dio è con noi. Bisogna avere pazienza».

    Poi prese da una bisaccia appesa alla sella una manciata di fave e le mise in un sacco adatto ad essere appeso al collo dell’animale; e, assicuratosi del gusto con cui il buon servo attaccava il cibo, si voltò e scrutò di nuovo la distesa delle sabbie, abbagliante sotto i raggi a picco del sole.

    «Verranno», disse, calmo. «Colui che mi ha guidato guiderà anche loro. Mi terrò pronto».

    Dalle tasche che foderavano l’interno della cabina e da un cesto di vimini che faceva parte dell’arredamento di essa cavò fuori tutto l’occorrente per un pasto: piatti di fibre di palma strettamente intrecciate, fiaschette di pelle piene di vino, montone affumicato, shami, o melagrane della Siria prive di semi, datteri di Ès Shelebi, meravigliosamente succosi, cresciuti nei nakhil o palmeti dell’Arabia Centrale, cacio del genere delle fette di latte di cui parla Davide, pane lievitato, del forno della città, e portò tutto quanto dentro e lo collocò sul tappeto nella tenda. Infine depose intorno alle provviste tre pezzi di seta, in uso fra i raffinati per coprire le ginocchia degli ospiti a tavola: particolare significativo del numero delle persone che dovevano condividere il pasto, del numero di persone che aspettava.

    Ora tutto era pronto. Egli riuscì fuori: ed ecco, a oriente, un puntino nero sulla distesa del deserto. Il viaggiatore rimase immobile, radicato al suolo, gli occhi dilatati, percorso da un brivido, quasi al tocco di qualche cosa di soprannaturale. Il puntino crebbe; divenne grande come una mano; finalmente assunse proporzioni definite. Poco tempo ancora, e apparve dondolante alla vista un duplicato del suo cammello, alto e bianco, che portava sulla groppa una lettiga da viaggio dell’Indostan. Allora l’egiziano incrociò le braccia sul petto e alzò lo sguardo al cielo.

    «Dio solo è grande!», esclamò, con gli occhi pieni di lagrime e l’anima invasa da sacra reverenza.

    Lo straniero si avvicinava, alfine si fermò. Anche lui, sembrava in attesa. Guardò il cammello inginocchiato, la tenda e l’uomo in preghiera sulla soglia. Incrociò le mani, chinò il capo e tacitamente pregò; poco dopo scese dal collo del cammello sulla sabbia e avanzò verso l’egiziano il quale avanzava a sua volta verso di lui. Per un attimo si fissarono a vicenda; poi si abbracciarono, cioè ognuno gettò il braccio destro sulla spalla e il braccio sinistro alla vita dell’altro, appoggiandogli il mento prima sulla parte sinistra del petto, poi sulla destra.

    «La pace sia con te, o servo del vero Dio!», disse lo straniero.

    «E con te, fratello nella vera fede! La pace sia con te, e il benvenuto!», rispose l’egiziano con fervore.

    Il nuovo arrivato era alto e asciutto, col viso scarno, gli occhi affossati, bianchi i capelli e la barba e la carnagione bronzea. Anche lui era disarmato. Il suo abbigliamento era tipico degli indiani; sul capo aveva uno scialle avvolto in grandi pieghe a mo’ di turbante; il vestiario era come quello dell’egiziano, tranne che l’aba era più corta e lasciava vedere larghi e fluenti pantaloni stretti alle caviglie. Invece di sandali, calzava babucce a punta di cuoio rosso. Tranne le babucce, il costume era, da capo a piedi, di lino bianco. L’espressione del nuovo venuto era altera, grave, maestosa. Avrebbe potuto rappresentare a perfezione Visvamitra⁴, il più grande degli eroi asceti dell’Iliade dell’Oriente, esser chiamato «Vita satura della saggezza di Brahma», «Devozione incarnata». Già nei suoi occhi era la prova della sua umanità: quando alzò il capo dal petto dell’egiziano, erano lucenti di lagrime.

    «Dio solo è grande!», esclamò sciogliendosi dall’abbraccio.

    «E beati coloro che lo servono!», rispose l’egiziano, stupito di udir ripetere la propria esclamazione. «Ma aspettiamo», aggiunse, «aspettiamo: perché, vedi, ecco l’altro che arriva!».

    Guardarono a settentrione dove, già chiaramente visibile, un terzo cammello, bianco al pari degli altri, avanzava, ondeggiando come una nave. Aspettarono, a fianco a fianco: aspettarono che il nuovo venuto arrivasse, smontasse e avanzasse verso di loro.

    «La pace sia con voi, fratelli miei!», esclamò quegli, abbracciando l’indiano.

    E l’indiano rispose:

    «Sia fatta la volontà di Dio!».

    L’ultimo venuto era molto dissimile dai suoi amici; la sua figura era più snella; la carnagione, bianca; una massa di capelli biondi e ondulati formava una perfetta cornice alla sua testa piccola e bella; il calore dei suoi occhi azzurro scuro attestava un’intelligenza acuta e un temperamento ardito e cordiale. Era a testa nuda e privo di armi. Sotto le pieghe del manto purpureo, che indossava con innata eleganza, s’intravedeva una tunica scollata, con le maniche corte, stretta alla vita da una cintura e lunga appena fino alle ginocchia, sì da lasciar nudi il petto, le braccia e le gambe. I piedi erano calzati da sandali. Cinquant’anni, e forse di più, si erano consumati su di lui col solo effetto, a quanto pareva, d’impregnare il suo comportamento di gravità e temperare di saggezza le sue parole: la gagliardia fisica e la vivacità dell’anima erano rimaste intatte. Non è il caso di dire allo studioso da quale ceppo discendesse: se non veniva personalmente dai boschetti di Atene, certo ne erano venuti i suoi antenati.

    Quando staccò il braccio dall’egiziano, questi disse, con tremula voce:

    «Lo Spirito mi ha portato qui per primo; so quindi che sono stato scelto per essere il servo dei miei fratelli. La tenda è alzata e il pane è pronto ad essere spezzato. Lasciate che io compia il mio dovere».

    Preso l’uno e l’altro per mano, li condusse dentro e, tolti i sandali, lavò loro i piedi, versò l’acqua sulle loro mani e le asciugò con le salviette.

    Poi, quando si fu lavato a sua volta, disse:

    «Prendiamoci cura di noi, fratelli, secondo richiede il compito nostro, e mangiamo, al fine d’essere forti per quel che rimane del dovere del giorno. Mangiando, ciascuno di noi imparerà a conoscere gli altri, e donde vengono e come furono chiamati».

    Li condusse al pasto e li fece sedere uno di fronte all’altro. Simultaneamente tutti e tre chinarono il capo, incrociarono le mani sul petto e parlando insieme proferirono ad alta voce questo semplice ringraziamento:

    «Padre nostro, Dio! Tutto quello che abbiamo ci viene da Te. Accetta i nostri ringraziamenti e dégnaTi di benedirci affinché possiamo continuare a fare la Tua volontà».

    Pronunziata l’ultima parola, alzarono gli occhi e si fissarono a vicenda, stupiti. Ciascuno aveva parlato in una lingua che gli altri non avevano mai udito, e ciascuno aveva compreso perfettamente ciò che era stato detto. Un’emozione celeste invase le anime loro, poiché in quel miracolo essi riconoscevano la Presenza Divina.

    3.

    Per parlare nello stile del tempo, l’incontro or ora descritto avvenne nell’anno 747 dalla fondazione di Roma. Era il mese di dicembre, e l’inverno regnava su tutte le regioni a oriente del Mediterraneo. Coloro che cavalcano nel deserto in quella stagione non tardano a sentirsi pungere da un appetito vivissimo. La comitiva sotto la piccola tenda non faceva eccezione alla regola. Tutti e tre erano affamati, e mangiarono di buona lena; poi, bevuto il vino, parlarono.

    «Per un viaggiatore in terra straniera, nulla è così dolce come udire il proprio nome sulle labbra d’un amico», disse l’egiziano, che si era assunto di presiedere al pasto. «Abbiamo davanti a noi molti giorni da trascorrere insieme: è ora che ci conosciamo a vicenda. Perciò, se così vi piace, chi arrivò per ultimo sarà il primo a parlare».

    Allora, lentamente dapprima, quasi guardingo, il greco cominciò:

    «Quello che ho da dirvi, fratelli miei, è così strano che quasi non so nemmeno dove cominciare o che cosa dire. Non comprendo ancora me stesso. Quello che so con piena certezza è che eseguisco la volontà d’un Padrone, e che servirlo è un’estasi perenne. Quando penso alla missione che sono mandato a compiere, provo una gioia così inenarrabile che, certo, la volontà che mi guida è quella di Dio».

    Il sant’uomo tacque, vinto dalla commozione, mentre gli altri, per reverenza verso i suoi sentimenti, abbassavano gli occhi.

    «Laggiù laggiù, a occidente di questa», egli riprese, «v’è una terra che non sarà mai dimenticata: non fosse altro perché il mondo le è debitore di troppe cose, cose che offrono agli uomini i piaceri più puri. Non dirò nulla delle arti, nulla della filosofia, dell’eloquenza, della poesia, della guerra: oh, fratelli miei, la sua gloria risplenderà per sempre a lettere d’oro, per mezzo delle quali sarà reso noto a tutto il mondo Colui che andiamo a cercare e ad annunziare. La terra di cui parlo è la Grecia. Io sono Gaspare, figlio di Cleonte ateniese».

    «La mia gente», seguitò, «era data interamente allo studio, e da lei io trassi la stessa passione. Ora avviene che due dei nostri filosofi, i più grandi fra molti, insegnino uno la dottrina dell’anima per ogni uomo e della sua immortalità, l’altro la dottrina d’un solo Dio, infinitamente giusto. Nella moltitudine degli argomenti intorno a cui disputano le scuole, io elessi quei due, come soli degni d’affaticarsi per risolverli, perché pensavo che fra Dio e l’anima vi fosse una relazione ancora sconosciuta. Su questo tema la mente può ragionare fino a un certo punto: arrivata colà, si trova davanti una parete cieca, invalicabile, non le resta che fermarsi e implorare aiuto. Così feci, ma nessuna voce venne a me da quel muro. Disperato, mi strappai dalla città e dalle scuole».

    A queste parole, un grave sorriso d’approvazione illuminò lo scarno viso dell’egiziano.

    «Nella parte settentrionale del mio paese, la Tessaglia», continuò il greco, «sorge una montagna famosa come la dimora degli dèi, dove Giove, che i miei concittadini reputano il Sommo, ha la sua dimora. Olimpo è il suo nome. Colà mi trasportai, trovai una caverna in una balza, nel punto in cui la montagna piega a sud-est: ivi dimorai dedicandomi alla meditazione... no, dedicandomi ad aspettare quello per cui ogni respiro era una preghiera: la rivelazione. Credendo in Dio, supremo quantunque invisibile, credevo anche nella possibilità che, anelando a Lui con tutta l’anima, Egli si prendesse compassione di me e mi rispondesse».

    «E ti rispose... sì, ti rispose!», esclamò l’indiano alzando le mani dal tovagliolo di seta posato sulle sue ginocchia.

    «Ascoltatemi, fratelli», riprese il greco dominandosi a stento. «La porta del mio eremitaggio dava su un braccio di mare sul Golfo Termaico⁵. Una volta vidi un uomo buttarsi dal parapetto d’una nave che passava. L’uomo nuotò fino alla riva. Io lo raccolsi e mi presi cura di lui. Era un giudeo, versatissimo nella storia e nelle leggi del suo paese, e da lui venni a sapere che il Dio delle mie preghiere esisteva veramente, e per secoli era stato il loro legislatore, condottiero e re. Che era questo, se non la rivelazione che sognavo? La mia fede non era stata infruttuosa: Dio mi aveva risposto!».

    «Come sempre risponde a tutti coloro che lo invocano con tanta fede!», disse l’indù.

    «Ma, ahimè!», aggiunse l’egiziano, «quanto pochi sono saggi abbastanza da sapere quando risponde!».

    «E non è tutto», seguitò il greco. «L’uomo così inviatomi mi disse di più. Mi parlò di profeti che, nei secoli seguenti alla prima rivelazione, camminavano e parlavano con Dio e annunciavano che sarebbe tornato. Mi disse il nome di quei profeti e citò dai libri sacri le loro parole. Mi disse, per di più, che il secondo avvento era prossimo... che lo si aspettava a Gerusalemme di momento in momento».

    Il greco tacque, e il suo viso si oscurò.

    «Purtroppo», riprese dopo un poco, «purtroppo quell’uomo mi disse che la rivelazione di cui parlava era stata soltanto a loro favore e che così sarebbe stato di nuovo. Colui che doveva venire era il re dei giudei. Non ha nulla, chiesi, per il resto del mondo?. No, mi rispose con voce superba, no: il suo popolo eletto siamo noi. La risposta non distrusse tuttavia la mia speranza. Perché mai, pensavo, Dio dovrebbe limitare il suo amore e la sua benedizione a un solo Paese e, per così dire, a una sola famiglia? Mi accinsi con tutto il cuore a saperlo. Finalmente vinsi l’orgoglio di quell’uomo e capii che i suoi padri erano stati soltanto servi scelti a tener viva la verità, affinché il mondo potesse alla fine conoscerla e salvarsi. Quando l’ebreo se ne fu andato, e fui solo, profusi tutta l’anima mia in una nuova preghiera: che mi fosse concesso di vedere il re alla sua venuta e di adorarlo. Una notte sedevo presso l’apertura della mia caverna, cercando di penetrare il mistero della mia esistenza, poiché sapevo già che cosa è conoscere Dio, quando a un tratto, nel mare dinanzi a me, o piuttosto nella tenebra che lo avvolgeva, vidi accendersi una stella: lentamente sorse e si avvicinò, e stette sulla montagna e sopra la mia soglia, sì che la sua luce splendeva in pieno su di me. Caddi a terra, tramortito, e come in sogno udii una voce che diceva: O Gaspare! La tua fede ha vinto! Benedetto tu sei! Con altri due, venuti dagli estremi confini della terra, vedrai colui che fu promesso, e sarai testimone di lui e della sua venuta. Appena sarà il mattino, sorgi, e va’ ad incontrarli, ed abbi fiducia nello Spirito che ti guiderà».

    «E la mattina mi destai con lo Spirito che splendeva in me d’una luce più viva di quella del sole. Deposi le spoglie dell’eremita e indossai le vesti d’un tempo. Da un nascondiglio trassi il tesoro che avevo portato dalla città. Passava una nave a vele spiegate. Chiamai, fui preso a bordo e approdai ad Antiochia. Ivi comperai il cammello e il suo equipaggiamento. Traverso i giardini e gli orti che smaltano le rive dell’Oronte viaggiai fino a Emesa, Damasco, Bostra e Filadelfia: quindi fin qua. Ed ora, o fratelli, ecco la mia storia: fatemi adesso ascoltare la vostra».

    4.

    L’egiziano e l’indù si scambiarono uno sguardo: il primo fece un cenno con la mano; l’altro s’inchinò, e cominciò.

    «Il nostro fratello ha parlato bene. Possano le mie parole essere altrettanto sagge!».

    S’interruppe, rifletté un momento, quindi riprese:

    «Sappiate, fratelli, che il mio nome è Melchiorre. Vi parlo in una lingua che, se non la più antica del mondo, fu almeno la prima ad essere tradotta in lettere: intendo il sanscrito dell’India. Sono indù di nascita. Il mio popolo fu il primo a inoltrarsi nei campi del sapere, fu il primo a dividerli, il primo ad abbellirli. Qualunque cosa possa accadere, i quattro Veda⁶ resteranno, perché sono le sorgenti originarie della religione e della utile conoscenza. Da questi derivarono gli Upaveda che, emessi da Brahma, trattano di medicina, di balistica, di architettura, di musica e delle quarantasei arti meccaniche; i Vedanga, rivelati da santi ispirati e dediti all’astronomia, la grammatica, la prosodia, la pronunzia, le formule magiche e gli incantesimi, i riti religiosi e le cerimonie; gli Upanga, scritti dal saggio Vyasa⁷ sulla cosmogonia, la cronologia e la geografia; ci sono anche il Ramayana e il Mahabharata, poemi eroici, designati a perpetuare il ricordo del nostri dèi e semidei. Tali, o fratelli, sono i grandi Shastra, o libri degli ordini sacri. Sono lettera morta per me, adesso; eppure serviranno a illustrare in eterno il genio nascente della mia razza, che prometteva d’arrivare rapidamente a perfetta maturazione. Mi chiedete perché le promesse fallirono? Ahimè! Quei libri stessi chiusero tutte le porte al progresso. Sotto il pretesto della sollecitudine per gli esseri creati, i loro autori imposero il principio fatale che l’uomo non deve dedicarsi all’indagine e all’invenzione, perché il Cielo lo ha provveduto di tutto quello che gli è necessario. Quando questa condizione divenne una legge sacra, la lampada del genio indù fu calata in un pozzo, dove da allora in poi ha illuminato strette pareti e acque stagnanti.

    «Questi cenni, o fratelli, non sono frutto d’orgoglio, come capirete quando vi dirò che gli Shastra predicano un Dio supremo chiamato Brahma⁸; e che i Purana, o poemi sacri degli Upanga, ci parlano della virtù delle opere buone e dell’anima. Così, col permesso del mio fratello», e il parlatore s’inchinò al greco con deferenza, «molti secoli prima che il suo paese fosse conosciuto, le due grandi idee – Dio e l’anima – dominavano tutte le forze del pensiero indù. Per spiegarmi meglio, lasciate che vi dica che Brahma è presentato negli stessi libri sacri come una triade insieme a Siva⁹ e Visnù¹⁰. Di questi, si dice che Brahma sia stato l’autore della nostra razza, che, nel corso della creazione, divise in quattro caste. Prima egli popolò il mondo di sotto e i cieli di sopra, preparò la terra per gli spiriti terrestri; quindi produsse dalla bocca la casta dei bramini, la più vicina a lui per somiglianza, la più alta e la più nobile, unica prescelta a insegnare i Veda, i quali erano fluiti dalle sue labbra allo stesso tempo, completi e perfetti in ogni ramo dello scibile. Poi dalle sue braccia uscirono i guerrieri o csiatri; dal suo petto, la sede della vita, vennero i vaisia, o produttori, pastori, agricoltori, mercanti; dal suo piede, in segno di degradazione, strisciarono i sudra, i servili, condannati a eseguire i compiti manuali per le altre classi: servi della gleba, domestici, braccianti, artigiani. E badate bene, per di più, che la legge, così nata con loro, proibiva agli uomini di una casta di diventar membri d’un’altra; il bramino non poteva entrare in una classe inferiore: se violava la legge della propria casta diveniva un reietto respinto da tutti tranne che dai reietti come lui».

    A questo punto l’immaginazione del greco, rompendo l’avido raccoglimento, balzò come un fulmine a tutte le conseguenze di una simile degradazione.

    «In questo stato, fratelli», esclamò, «quale immenso bisogno d’un Dio amoroso!».

    «Sì», replicò l’egiziano, «d’un Dio amoroso come il nostro!».

    Il ciglio dell’indù si aggrottò penosamente; superata l’emozione, continuò con voce più dolce:

    «Io sono per nascita un bramino. La mia vita, perciò, era preordinata fino al minimo atto, fino all’ultima ora. Il mio primo sorso di nutrimento; l’assegnazione del mio nome composto; la prima volta che fui condotto fuori a vedere il sole; l’investimento del triplice filo con cui divenivo uno dei nati due volte; l’introduzione nel primo ordine, tutto fu celebrato secondo i sacri testi e con le più rigide cerimonie. Non avrei potuto camminare, mangiare, bere e dormire senza correr pericolo di violare una regola. E il castigo, fratelli, il castigo colpiva l’anima mia! Secondo il numero delle omissioni, la mia anima sarebbe salita ad uno dei cieli – quello di Indra¹¹, il più basso, quello di Brahma, il più alto – o sarebbe stata respinta giù sulla terra per dar vita a un verme, una mosca, un pesce, una belva. La ricompensa per la perfetta osservanza era la beatitudine, o riassorbimento nell’essere di Brahma: non un’esistenza, quanto piuttosto il riposo assoluto».

    L’indù tacque, immerso nei propri pensieri; quindi riprese: «La parte della vita d’un bramino chiamata il primo ordine, è quella dello studente. Quando fui pronto ad entrare nel secondo – cioè quando fui pronto a sposarmi e a diventare capo d’una famiglia – dubitavo di tutto, perfino di Brahma: ero un eretico. Dal fondo del pozzo avevo scoperto una luce e mi struggevo di andare a vedere che cosa illuminava. Finalmente – ah, dopo quanti anni di travaglio! – emersi alla piena luce del giorno e vidi il principio della vita, l’elemento della religione, l’anello fra Dio e l’anima: l’amore!».

    Il volto rugoso del sant’uomo s’illuminò, ed egli strinse con forza le mani. Seguì un silenzio; gli altri lo guardavano, il greco traverso le lagrime. Finalmente riprese:

    «L’amore è felice se agisce: è messo alla prova da quello che desidera fare per gli altri. Non avevo un momento di requie: Brahma aveva empito il mondo di troppa malvagità. I sudra avevano bisogno di me; e così le innumeri vittime della devozione. L’isola di Ganga Lagor sorge dove le sacre acque del Gange scompaiono nell’Oceano Indiano. Andai là. All’ombra del tempio costruito per il saggio Kàpila¹², in unione di preghiera coi discepoli che la beata memoria di quell’uomo santo raccoglie intorno alla sua dimora, credetti di trovare la pace. Ma due volte l’anno venivano pellegrinaggi di indù a cercare la purificazione nelle acque. La loro miseria rafforzava il mio amore. Serravo le mascelle contro l’impulso di parlare, perché una sola parola contro Brahma o la Triade o gli Shastra sarebbe stata la mia condanna; un atto di bontà verso i bramini reietti che di tanto in tanto si trascinavano a morire sulle sabbie ardenti, una parola di benedizione, una coppa d’acqua... e sarei diventato anch’io uno di loro, perduto per la famiglia, il paese, i privilegi, la casta. Ma l’amore vinse! Mi aprii coi discepoli nel tempio: essi mi gettarono fuori. Parlai ai pellegrini: essi mi cacciarono a sassate dall’isola. Mi attentai a predicare per le strade: i miei ascoltatori fuggivano da me o volevano la mia vita. In tutta l’India, infine, non v’era luogo ove potessi trovare pace o sicurezza, no, nemmeno fra i reietti, perché, quantunque caduti, credevano in Brahma. Nella mia disperazione cercai un luogo deserto dove nascondermi a tutti tranne che a Dio. Risalii il Gange fino alla sorgente, lassù nell’Himalaia. Quando raggiunsi il valico di Hurdwar, dove il fiume, nella sua immacolata purezza, si slancia per il suo cammino traverso le pianure fangose, pregai per i miei, reputandomi perduto a loro per sempre. Traverso le gole, sopra i dirupi, lungo i ghiacciai, in mezzo a cime che sembravano sfiorare le stelle, mi aprii la strada fino al Lang Tso, un lago di meravigliosa bellezza, dormiente ai piedi del Tise Gangri, del Gurla e del Kailas Parbot, giganti che alzano orgogliosamente al sole la loro corona di nevi eterne. Là, nel centro della terra, dove il Gange, l’Indo e il Brahmaputra sgorgano e si slanciano ognuno per il proprio cammino; dove l’umanità ebbe la sua prima dimora e si separò per popolare il mondo, lasciando Balk, la madre delle città, ad attestare il grande evento; dove la Natura, tornata alle primeve condizioni e sicura nella sua immensità, invita il saggio e l’esiliato, promettendo all’uno la salvezza e all’altro la solitudine: mi recai la a dimorare con Dio, pregando, digiunando, aspettando la morte».

    Di nuovo la voce mancò e le mani ossute si strinsero con fervore.

    «Una sera vagavo lungo le sponde del lago e dicevo al silenzio in ascolto: Quando verrà, Dio, a riprendere quello che è suo? Non vi sarà mai redenzione?. A un tratto una luce cominciò a balenare sulle tremule acque; poco dopo sorse una stella e mosse verso di me, e si fermò sul mio capo. Il suo splendore mi abbacinò. Caddi, e mentre giacevo prostrato udii una voce di dolcezza infinita che diceva: Il tuo amore ha vinto. Benedetto sei tu, o figlio dell’India! La redenzione è vicina. Con altri due, venuti dagli estremi confini della terra, vedrai il Redentore e sarai testimone della sua venuta. Alzati col mattino e va incontro a loro; e poni ogni tua fiducia nello Spirito che ti guiderà.

    «E da allora la luce è stata con me: ed io sapevo che era la presenza visibile dello Spirito. La mattina mossi per le vie del mondo donde ero venuto. In un crepaccio della montagna trovai una pietra di gran valore, che vendetti a Hurdwar. Traverso Lahore e Cabul e Yezd scesi a Ispahan, dove comperai il cammello che mi portò a Baghdad senza aspettare le carovane. Viaggiavo solo e senza paura, perché lo Spirito era in me, e in me è ancora. Qual gloria è la nostra, o fratelli! Vedere il Redentore... parlargli... adorarlo! La mia storia è finita».

    5.

    Il vivacissimo greco proruppe in espressioni di gioia e di congratulazione, dopo di che l’egiziano disse, con caratteristica gravità:

    «M’inchino a te, fratello mio. Hai sofferto assai, ed io godo del tuo trionfo. Ed ora, se piacerà a entrambi d’ascoltarmi, vi dirò chi sono e come fui chiamato. Aspettate un momento».

    Uscì e governò i cammelli; rientrato sotto la tenda, riprese il suo posto.

    «Le vostre parole, fratelli, furono dello Spirito», disse cominciando; «e lo Spirito mi concede di comprenderle. Ciascuno di voi ha parlato dettagliatamente del proprio paese; v’era, in questo, un grande disegno che vi spiegherò; ma per rendere completa l’interpretazione, lasciate prima ch’io parli di me e del mio popolo. Io sono Baldassarre l’egiziano».

    Queste ultime parole furono pronunciate con tanta dignità, che ambo gli ascoltatori s’inchinarono.

    «Molti sono i titoli d’onore che potrei presentare a favore della mia razza», continuò il parlatore; «ma mi contenterò d’uno solo. La storia cominciò con noi. Noi fummo i primi a perpetuare gli eventi per mezzo di memorie scritte, sì che non abbiamo leggende, e invece della poesia vi offriamo la certezza. Sulle facciate dei palazzi e dei templi, sugli obelischi, nelle pareti interne delle tombe scrivemmo i nomi dei nostri re e le loro gesta; e ai delicati papiri affidammo la sapienza dei nostri filosofi e i segreti della nostra religione: tutti i segreti tranne uno, del quale adesso vi parlerò. Più antico dei Veda del Parabrahma¹³ o degli Upanga di Vyasa, o Melchiorre; più antichi dei canti d’Omero o della metafisica di Platone, o mio Gaspare; più antichi dei libri sacri o kings dei cinesi, o di quelli di Siddartha¹⁴, figlio della bellissima Maya¹⁵; più antichi della Genesi di Mosè ebreo: più antichi di qualunque ricordo dell’uomo sono gli scritti di Menete, il nostro primo re». Fermandosi un istante, fissò benevolmente i grandi occhi sul greco: «Nella giovinezza dell’Ellade, chi furono, o Gaspare, i maestri dei suoi maestri?».

    Il greco s’inchinò, con un sorriso.

    «Per mezzo di queste memorie», continuò Baldassarre, «sappiamo che allorquando i padri vennero dal lontano Oriente, dalla culla dei tre fiumi sacri, dal centro della terra – l’antico Iran di cui tu hai parlato, Melchiorre – portavano con loro la storia del mondo prima del diluvio e del diluvio stesso, tramandata agli ariani dai figli di Noè: essi insegnavano Dio, il Creatore e il Principio di tutte le cose, e l’anima, immortale come Dio. Se, quando la missione che ci chiama sarà felicemente compiuta, eleggerete di venire con me, vi mostrerò i libri sacri del nostro sacerdozio; fra gli altri, il Libro dei Morti, nel quale è contenuto il rituale che l’anima dovrà osservare dopo che la morte l’avrà inviata al giudizio. Queste idee – Dio e l’anima immortale – erano state recate a Misraim nel deserto e da lui alle rive del Nilo. Erano allora in tutta la loro purezza, facili da comprendere, come sempre è quello che Dio ha scelto per la nostra felicità: e così era l’adorazione, piena di speranza e d’amore per il suo Creatore».

    A questo punto il greco alzò le mani esclamando: «Oh, la luce si fa più viva in me!».

    «E in me!», aggiunse l’indù con pari fervore. L’egiziano li guardò, grato, poi continuò:

    «La religione non è soltanto una legge, che lega l’anima al suo Creatore. In tutta la sua purezza, consta soltanto di questi elementi: Dio, l’anima e la loro scambievole conoscenza; dai quali, allorché furono messi in pratica, sgorgarono l’amore e la ricompensa. Questa legge, come tutte le altre d’origine celeste – come quella, ad esempio, che lega la terra al sole – fu emessa perfetta dal suo Autore fin dall’inizio. Questa, fratelli miei, era la religione della prima famiglia; questa era la religione del nostro padre Misraim, il quale non poteva esser stato cieco al dogma della creazione, che in nessun luogo splende così chiaro come nella fede primitiva e nella primissima forma di devozione. La perfezione è Dio; la semplicità è perfezione. La maledizione delle maledizioni è che gli uomini non vogliano lasciare intatte verità come queste».

    Tacque, quasi meditando in che modo continuare.

    «Molte nazioni hanno amato le dolci acque del Nilo», disse poi. «Etiopi, ebrei, assiri, persiani, macedoni, romani... tutti, tranne gli ebrei, ne sono stati a volta a volta i padroni. Tanto andare e venire di popoli corruppe la vecchia fede misraimica: la Valle delle Palme divenne una Valle degli Dèi. Il Sommo fu diviso in otto, ognuno dei quali era la personificazione di un principio creativo della natura, con a capo Ammon-Ra¹⁶. Poi furono inventati Iside¹⁷ e Osiride e il loro cielo, rappresentanti l’acqua, il fuoco, l’aria e altre forze naturali. E la moltiplicazione continuò, avemmo perfino un altro ordine di dèi simboleggianti le qualità umane, come la forza, la sapienza, l’amore e così via».

    «Sempre la stessa vecchia follia!», esclamò il greco impulsivamente. «Solo le cose fuor di portata degli uomini restano com’erano».

    L’egiziano s’inchinò e proseguì:

    «Ancora un poco, fratelli, ancora un poco, e parlerò di me. Colui a cui andiamo incontro ci apparirà ancora più santo in paragone a quello che è stato e che è. La tradizione c’insegna che Misraim trovò il Nilo in possesso degli etiopi, che erano sparsi allora per tutto il deserto africano: popolo esuberante e fantasioso, dedito interamente all’adorazione della natura. Il poetico persiano offriva sacrifici al sole, come all’immagine più perfetta di Ormuzd¹⁸, il suo dio; i devoti figli del lontano Oriente scolpivano le loro divinità nel legno e nell’avorio; ma l’etiope, privo di scrittura, di libri, di attitudini meccaniche di qualsiasi genere, appagava l’anima sua nell’adorazione di animali, uccelli e insetti, ritenendo il gatto sacro a Ra¹⁹, il toro a Iside, lo scarabeo a Fta²⁰. Dopo una lunga lotta, quelle rozze credenze furono adottate come la religione del nuovo impero. Allora sorsero i possenti monumenti che ingombrano le rive del fiume e del deserto, l’obelisco, il labirinto, la piramide e la tomba del re, mescolati alla tomba del coccodrillo. In tanto avvilimento, o fratelli, erano caduti i figli degli Aria!»²¹.

    Per la prima volta la calma abbandonò l’egiziano: quantunque il suo volto restasse impassibile, la voce lo tradì.

    «Ma non disprezzate troppo i miei concittadini», cominciò di nuovo; «non tutti dimenticarono Dio. Vi dissi poco fa, ricorderete, che avevamo affidato ai papiri tutti i segreti tranne uno: di questo ora vi parlerò. Avevamo un re, una volta, un certo Faraone che si dedicava a ogni specie di cambiamenti e di aggiunte. Per stabilire il nuovo sistema, si sforzò di cancellare i vecchi usi dalla mente di tutti. A quei tempi, gli schiavi che dimoravano presso di noi erano ebrei: popolo attaccatissimo al suo Dio, il quale, quando le persecuzioni divennero insopportabili, lo liberò in circostanze che non saranno dimenticate mai. Vi sto parlando secondo le antiche memorie. Mosè, un ebreo anch’egli, si recò a palazzo e chiese per gli schiavi, che allora erano milioni, il permesso di lasciare il paese. La domanda era rivolta in nome del Signore Iddio d’Israele. Faraone rifiutò. Udite quel che seguì. Prima tutte le acque, quelle dei fiumi e dei laghi come quelle delle sorgenti e quelle nei vasi, si trasformarono in sangue. E tuttavia il monarca rifiutò. Poi vennero i rospi e invasero tutto il paese. Egli rimase irremovibile. Allora Mosè gettò in aria un pugno di cenere, e gli egiziani furono colti dalla peste. Poi tutto il bestiame, eccetto quello degli ebrei, fu colpito dalla morìa. Le locuste divorarono la verzura delle valli. A mezzodì, il giorno era trasformato in una tenebra così fitta che le lampade ardevano invano per dissiparla. Infine, una notte, tutti i primogeniti degli egiziani morirono: non si salvò nemmeno il figlio di Faraone. Allora egli cedette. Ma quando gli ebrei se ne furono andati, li inseguì col suo esercito. All’ultimo istante il mare si aprì, e i fuggiaschi lo traversarono a piedi asciutti. Quando gl’inseguitori si slanciarono dietro di loro, le onde si rovesciarono indietro e annegarono tutti – cavalli, fanti, aurighi – e perfino il re. Tu hai parlato di rivelazione, o mio Gaspare...».

    Gli occhi azzurri del greco scintillarono.

    «Appresi la storia dall’ebreo», disse. «Tu la confermi, Baldassarre!».

    «Sì, ma per le mie labbra parla l’Egitto, non Mosè. Io interpreto i marmi; i sacerdoti del tempo scrissero alla loro maniera quello di cui erano stati testimoni e la rivelazione si è perpetuata. Ed eccomi all’unico segreto non scritto. Nel mio paese, fratelli, dal giorno dello sfortunato Faraone, abbiamo avuto sempre due religioni, una privata e una pubblica; una composta di molti dèi, praticata dal popolo; un’altra di un solo Dio, coltivata unicamente dai sacerdoti. Rallegratevi meco, o fratelli! Tutto il viavai di tante nazioni, tutti i tormenti inflitti dai re, tutte le calunnie dei nemici, tutti i mutamenti del tempo, sono stati invano. Come un seme sotto una montagna, in attesa della sua ora, la verità è sopravvissuta; e questo sì, questo è il suo giorno!».

    Le membra macilente dell’indù tremarono di gioia, e il greco esclamò ad alta voce:

    «Mi sembra di udir cantare perfino il deserto!».

    Da una fiaschetta a portata di mano, l’egiziano bevve un sorso d’acqua e proseguì:

    «Nacqui ad Alessandria, principe e sacerdote, e ricevetti l’educazione propria al mio rango; ma non tardai a sentirmi insoddisfatto. La fede impostami diceva, fra l’altro, che dopo la morte, mentre il corpo si distrugge, l’anima comincia subito di nuovo l’ascensione già compiuta, dalle forme più basse di vita fino all’umanità, la più alta e l’ultima forma d’esistenza; e ciò senza alcun riferimento alla condotta tenuta durante la vita mortale. Quando udii del Regno della Luce dei persiani, del loro paradiso al di là del ponte Chinevat, dove vanno soltanto i buoni, quel pensiero mi assillò, sì che giorno e notte meditavo, mettendo a paragone le due idee della eterna trasmigrazione e della vita eterna in cielo. Se, come il mio maestro m’insegnava, Dio era giusto, perché non v’era distinzione fra il buono e il cattivo? Finalmente mi divenne chiarissimo, anzi certezza assoluta, un corollario della legge a cui ridussi la religione pura: che la morte, cioè, era soltanto il punto di separazione, in cui i cattivi venivano abbandonati o si perdevano, e i fedeli assurgevano a una vita più alta: non il nirvana di Budda né il negativo riposo di Brahma, o Melchiorre; non una posizione privilegiata nel Tartaro²², che è tutto il premio concesso dagli dèi dell’Olimpo, o Gaspare: ma la vita, la vita attiva, gioiosa, sempiterna... la vita con dio! La scoperta condusse a un’altra domanda: perché la verità doveva esser tenuta ancora segreta per l’egoistica consolazione della classe sacerdotale? La ragione di sopprimerla non valeva più: la filosofia finalmente ci aveva insegnato la tolleranza; in Egitto avevamo Roma al posto di Ramsete²³. Un giorno, al Bruchion, il più splendido e popoloso quartiere di Alessandria, mi alzai e predicai. L’Oriente e l’Occidente contribuirono a formare il mio pubblico. Studenti che si recavano alla Biblioteca, sacerdoti che venivano dal Serapeo²⁴, oziosi usciti dal Museo, patroni dell’Ippodromo, agricoltori della Racotide – una vera folla – si raccolsero intorno a me. Parlai di Dio, dell’anima, del bene e del male, e del cielo, premio d’una vita virtuosa. I miei ascoltatori prima stupirono, poi risero. Tentai di nuovo: mi bersagliarono d’epigrammi, coprirono di ridicolo il mio Dio e oscurarono il mio cielo con le beffe. In breve, fallii dinanzi a loro».

    L’indù trasse un lungo sospiro e disse:

    «Il nemico dell’uomo è sempre l’uomo, fratello mio».

    «Pensai a lungo per cercar di scoprire la causa del mio fallimento», disse l’egiziano riprendendo, «e finalmente vi riuscii. Sul fiume, a un giorno di cammino dalla città, v’è un villaggio di mandriani e di ortolani. Presi una barca e mi recai colà. La sera, raccolsi uomini e donne, i più poveri dei poveri. Predicai per loro, esattamente come avevo predicato nel Bruchion. Essi non risero. La sera seguente parlai di nuovo, ed essi credettero, e si rallegrarono e sparsero la notizia. Alla terza riunione si formò un’associazione per la preghiera. Allora tornai in città. Ridiscendendo il fiume sotto le stelle che non mi erano sembrate mai così lucenti e così vicine, ripensavo alla lezione ricevuta: Se vuoi iniziare una riforma, non andare nei luoghi dei grandi e dei ricchi; va piuttosto da coloro per cui la coppa della felicità è vuota, dai poveri e dagli umili. Formai allora un piano a cui dedicare tutta la vita. Per prima cosa affittai i miei vasti possedimenti, onde avere un reddito sicuro e sempre a portata di mano per il sollievo dei sofferenti. Da quel giorno, o fratelli, ho viaggiato su e giù lungo il Nilo, nei villaggi e nelle tribù, predicando un solo Dio, una vita virtuosa e la ricompensa celeste. Se ho fatto del bene, non sta a me dire quanto; ma so che una parte del mondo è matura per ricevere colui che andiamo cercando».

    Una fiamma salì alle guance brune del parlatore che si dominò e riprese:

    «Gli anni così trascorsi, fratelli miei, erano turbati da un unico pensiero: alla mia morte, che sarebbe stato della causa iniziata? Doveva finire con me? Avevo sognato più volte di creare un’organizzazione che fosse il giusto coronamento dell’opera mia; anzi, per non nascondervi nulla, tentai di effettuarla, e non vi riuscii. Fratelli, il mondo è in condizioni tali che, per ripristinare l’antica fede misraimica, il riformatore è costretto ad appoggiarsi a una sanzione più che umana; non può presentarsi soltanto in nome di Dio, deve avere delle prove che appoggino la sua parola; deve dimostrare quello che dice, perfino Dio. La mente è tanto preoccupata di miti e di sistemi; tante false deità affollano l’aria, la terra, il cielo e sono divenute talmente parte integrante di tutto, che il ritorno alla pristina religione può avvenire soltanto per sentieri bagnati di sangue, traverso i campi della persecuzione: cioè, i convertiti devono essere disposti a morire anziché a ritrattarsi. E chi, in un’epoca come questa, può portare a un punto tale la fede degli uomini, se non Dio stesso? Per redimere la razza umana – non dico per distruggerla – per redimere la razza umana, deve manifestarsi ancora una volta: DEVE VENIRE DI PERSONA».

    Tutti e tre furono invasi da una commozione profonda.

    «Non andiamo forse a cercarlo?», esclamò il greco.

    «Capite ora perché non riuscii nel mio tentativo», disse l’egiziano, quando si furono rimessi. «Non avevo quella sanzione.

    La certezza che l’opera mia sarebbe andata perduta mi angosciava profondamente. Credevo nella preghiera, e per fare le mie invocazioni più pure e più forti uscii come voi, fratelli miei, dalle strade battute; andai dove l’uomo non era mai stato, dov’era soltanto Dio. Io me ne andai oltre la quinta cateratta, sopra l’incontro dei fiumi in Sennar, passato Balir el Abiad, nella lontana Africa sconosciuta. Colà una montagna azzurra come il cielo getta, la mattina, un’ombra freschissima su un ampio tratto del deserto, e con le sue cascate di neve disciolta alimenta un vasto lago, annidato alla sua base, ad oriente. Quel lago genera il grande fiume. Per un anno e più, la montagna mi offrì ricetto. Il frutto della palma nutriva il mio corpo, la preghiera nutriva il mio spirito. Una notte, vagavo nell’orticello sulle sponde di quel piccolo mare. Il mondo muore. Quando verrai? Perché non mi è dato vedere la redenzione, oh, Signore? Così pregavo. L’acqua cristallina scintillava di stelle. Mi parve che una di esse si staccasse per salire alla superficie, dove divenne d’uno splendore abbacinante, poi mosse verso di me e stette sul mio capo, quasi a portata di mano. Caddi, nascondendo il viso. Una voce che non era terrena disse: Le tue buone opere hanno vinto. Benedetto sei tu, o figlio di Misraim! La redenzione è in cammino. Con altri due, venuti dalle estreme lontananze della terra, vedrai il Salvatore e ne darai testimonianza. Appena sorge il mattino, alzati e va ad incontrarli. E quando sarete arrivati tutti e tre alla santa città di Gerusalemme, chiedete alla gente: ‘Dov’è colui che è nato re dei giudei? Perché abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo mandati per adorarlo’. Riponi tutta la tua fiducia nello Spirito che ti guiderà».

    «E la luce divenne un’illuminazione interiore di cui era impossibile dubitare, ed è ancora meco, signora e guida. Mi guidò giù per il fiume fino a Menfi, dove mi equipaggiai per il deserto, comperai il mio cammello e venni fin qui senza riposo traverso Suez e Kufileh, e su per le regioni di Moab e di Ammon. Dio è con noi, fratelli miei!».

    Tacque; e subito, con uno slancio che non veniva da loro, tutti e tre si alzarono e si guardarono.

    «Ho detto che v’era un occulto disegno nella particolareggiata descrizione dei vostri popoli e della loro storia», riprese l’egiziano. «Colui che andiamo a cercare è stato chiamato re dei giudei: con questo nome ci è stato ordinato di chiedere di lui, ma ora che ci siamo incontrati e ci siamo ascoltati a vicenda, sappiamo che è il redentore, non soltanto degli ebrei, ma di tutte le nazioni della terra. Il patriarca che sopravvisse al diluvio aveva seco tre figli e le loro famiglie, dai quali il mondo fu ripopolato. Dall’antica Aryana-Vaeggio, la ben nota Regione di Delizie nel cuore dell’Asia, essi si separarono. L’India e l’Estremo Oriente ricevettero i figli del primo; i discendenti del più giovane, risalendo a settentrione, sboccarono in Europa; quelli del secondo, dilagando per i deserti intorno al Mar Rosso, passarono in Africa e, quantunque molti di questi ultimi dimorino ancora sotto le nomadi tende, alcuni di essi divennero costruttori sulle rive del Nilo».

    Con impulso spontaneo, i tre giunsero le mani.

    «Potrebbe esservi qualche cosa di più divinamente ordinato?», continuò Baldassarre. «Quando avremo trovato il Signore, tutte le generazioni succedute ai tre fratelli s’inchineranno con noi dinanzi a Lui. E quando ci separeremo per riprendere ognuno la nostra via, il mondo avrà imparato una nuova lezione: che il cielo può essere conquistato, non con la spada, non con la saggezza terrena, ma con la fede, l’amore e la carità».

    Seguì un silenzio, rotto da pii sospiri e da sante lagrime, perché la gioia che empiva i loro cuori non poteva essere trattenuta. Era la gioia inenarrabile delle anime che, sulle rive del Fiume della Vita, riposano fra i redenti, alla presenza di Dio.

    Infine sciolsero le mani e uscirono insieme dalla tenda. Il deserto era immobile come il cielo. Il sole calava rapidamente. I cammelli dormivano.

    Poco dopo, la tenda venne smontata e, insieme ai resti del cibo, riposta nella cassa; poi i tre amici salirono sulle loro cavalcature e si avviarono in fila, guidati dall’egiziano e diretti verso occidente, nella fredda aria della notte. I cammelli avanzavano ondeggiando nel loro galoppo regolare, mantenendo la fila e la distanza con tanta esattezza che i due che seguivano sembravano calpestare le orme del guidatore. I tre cavalieri non parlarono nemmeno una volta.

    Sorse la luna. Le tre alte forme bianche che correvano col loro tacito passo nella luce d’opale, sembravano tre spettri fuggenti da ombre paurose. A un tratto, nell’aria dinanzi a loro, non più in alto d’una bassa collina, balenò come il guizzar d’una fiamma; e, mentre i tre la guardavano, l’apparizione si contrasse in un disco d’uno splendore abbagliante. Col cuore che batteva più forte e l’anima sconvolta da un fremito, essi gridarono ad una voce:

    «La stella! La stella! Dio è con noi!».

    6.

    Nelle mura di Gerusalemme, a occidente, la porta di Betlemne – o di Giaffa – spalanca i suoi grandi battenti di quercia. La zona è una delle più notevoli della città. Molto tempo prima che Davide bramasse di conquistare Sion, v’era colà una cittadella. Quando finalmente il figlio di Jesse cacciò i gebusei²⁵ e cominciò a costruire, il sito della cittadella divenne l’angolo di nord-ovest delle nuove mura, difeso da una torre molto più imponente dell’antica. La porta, tuttavia, non fu disturbata, per l’ovvia ragione che le strade che vi confluivano non potevano esser trasportate in nessun altro posto, e d’altra parte la piazza di fuori era sede d’un noto mercato. Al tempo di Salomone il traffico ferveva in quella località, ripartita fra i mercanti d’Egitto e i ricchi commercianti di Tiro e di Sidone. Sono passati quasi tremila anni, e tuttavia un certo genere di commercio vi sussiste tenacemente. Un pellegrino che abbisogna di una spilla o d’una pistola, d’un cocomero o d’un cammello, d’una casa o d’un cavallo, d’un prestito o d’un sacchetto di lenticchie, d’un dattero o d’un dragomanno, d’un melone o d’un uomo, d’una colomba o d’un asino, non ha che da chiedere l’articolo desiderato alla porta di Giaffa. Talvolta la scena è animatissima, e allora si pensa: Che doveva esser mai l’antico mercato, ai tempi di Erode il Costruttore!. E a quel periodo appunto e a quel mercato trasporteremo i nostri lettori.

    Secondo il calendario degli ebrei, l’incontro dei tre saggi descritto nei precedenti capitoli ebbe luogo nel pomeriggio del venticinquesimo giorno del terzo mese dell’anno: cioè a dire, il venticinque dicembre. L’anno era il secondo della centonovantatreesima Olimpiade o il 747 di Roma; sessantasettesimo di Erode il Grande e trentacinquesimo del suo regno: il quarto prima dell’inizio dell’èra cristiana. Le ore del giorno, secondo l’uso giudaico, vengono computate dal sorgere del sole, la prima ora essendo la prima dopo l’aurora, sicché, per esser precisi, il mercato della porta di Giaffa in quella prima ora del giorno ferveva d’attività. Le porte massicce erano spalancate

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