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La scalata senza fine. Il muro della morte
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La scalata senza fine. Il muro della morte
E-book470 pagine7 ore

La scalata senza fine. Il muro della morte

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Info su questo ebook

Il monte Eiger, sulle alpi svizzere, è conosciuto anche come “il muro della morte” per la pericolosità della ascensione, che negli anni è costata la vita a moltissimi climber.
Nel 1966 due team – uno tedesco, l’altro anglo-americano – cercarono di aprire una via che salisse lungo una perfetta verticale: la Diretta. Le due squadre rivali dapprima si ignorarono, poi furono costrette a scegliere: cooperare e dividere la gloria, o competere fino alla fine? La sfida era iniziata. John Harlin – il leader del gruppo anglo-americano – voleva scalare a ritmo serrato, mentre i tedeschi avevano pianificato una salita lenta. Un giovane inviato del «Daily Telegraph», Peter Gillman, osserverà questa gara estrema con un telescopio dall’hotel più vicino alla parete. Cinquant’anni dopo, possiamo rivivere le forti emozioni di questa incredibile impresa, che ha cambiato definitivamente il concetto di scalata e il modo di organizzare le escursioni in alta montagna.

«Un libro eccezionale. […] una lettura brillante, che offre molte informazioni inedite.»

«Mi sono sentito anch’io sull’Eiger.»
Peter Gillman
giornalista, raccontò per primo la storia dei tentativi di scalata del monte Eiger per il «Daily Telegraph» nel 1966. Da allora ha scritto molti libri, tra cui la biografia di George Mallory, il primo che cercò di scalare una vetta dell’Everest, The Wildest Dream, da cui è stato tratto un famoso documentario. Vive a sud-est di Londra, con la moglie e co-autrice Leni.
Leni Gillman
Insegnante e scrittrice, ha scritto a quattro mani molti volumi insieme al marito Peter, tra cui The Wildest Dream.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2017
ISBN9788854190214
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    Anteprima del libro

    La scalata senza fine. Il muro della morte - Leni Gillman

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Prologo. La ricerca

    1. Benvenuti a Trento

    2. I formidabili Beaufoy

    3. L’innamoramento

    4. Una goccia d’acqua

    5. Eiger assassino

    6. Partenze e arrivi

    7. Gli sconosciuti

    8. Iniziano le ostilità

    9 . Imbattibili, immortali

    10. Linee parallele

    11. Infuriano le tempeste sugli uomini dell’Eiger

    12. Il punto di svolta

    13. Un bel momento

    14. Il telescopio

    15. Il diavolo è uscito fuori

    16. Un miracolo e un sogno

    17. Addii

    18. L’ombra

    La Diretta in dettaglio

    Ringraziamenti

    Bibliografia e fonti

    em

    385

    Titolo originale: Extreme Eiger

    Copyright © 2015 by Peter Gillman Ltd

    The right of Peter and Leni Gillman to be identified as the author of this work has been asserted by them in accordance with sections 77 and 78 of the Copyright, Designs and Patents Act, 1988.

    All rights reserved

    Traduzione dall'inglese di Emanuele Boccianti

    Prima edizione ebook: agosto 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9021-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Peter e Leni Gillman

    La scalata senza fine

    Il Muro della Morte

    omino

    Newton Compton editori

    Prologo. La ricerca

    Grindelwald era più grande di quanto mi ricordassi. Arrivammo dopo il tramonto e finimmo in un affollato resort turistico, con una fila di alberghi e bar vicino alla stazione ferroviaria e le luci dei negozi che inondavano la strada. Niente a che vedere con il semplice paese alpino di quarantotto anni prima che mi ero immaginato io. Il nostro albergo, il Gletschergarten, era su una strada che si allontanava dal centro abitato in direzione dell’Eiger. Non lo scoprimmo se non una volta arrivati, ma quell’albergo aveva una storia: era là che spesso soggiornava Heinrich Harrer, dopo che insieme ai suoi tre compagni aveva raggiunto per la prima volta la Parete Nord dell’Eiger, nel 1938.

    Su un tavolo vicino al banco della reception c’è un modello in cartapesta della montagna, e il registro degli ospiti contiene una fotografia di Harrer, in atteggiamento rilassato e coi suoi radi capelli grigi da distinto gentiluomo, scattata nell’albergo in occasione del cinquantesimo anniversario della prima scalata. La nostra stanza era all’ultimo piano e guardava a ovest, dove sapevo trovarsi l’Eiger. Quella sera tutto ciò che dalla nostra finestra si vedeva della montagna era una massa minacciosa, nera come l’inchiostro, stagliata contro un cielo di velluto, con una luce solitaria e lontana: il rifugio degli alpinisti, sulla sommità della Cresta Mittelegi.

    Come sempre capitava con l’Eiger, il clima era motivo di preoccupazione. Che aspetto avrebbe avuto la montagna il giorno dopo? Sarebbe rimasta nascosta dietro la sua consueta cortina di nuvole, a indicare le tempeste che infuriavano nell’anfiteatro della Parete Nord? Oppure sarebbe stata visibile, a esibire la terribile bellezza con cui aveva adescato tanti scalatori? Il mattino dopo la Cresta Mittelegi rifletteva la luce del primo sole. La parete era ancora occultata alla nostra vista e benché il cielo fosse limpido, con solo qualche batuffolo di nuvola sospeso sulla vallata, ero ansioso di arrivare al Kleine Scheidegg, nel caso che il tempo si rivoltasse contro di noi e facesse sparire la visuale.

    Prendemmo il treno a Grindelwald subito dopo le dieci, e faticammo a trovare posti liberi per il gran numero di sciatori a bordo. Non appena il treno si lasciò alle spalle la vallata, la Parete Nord comparve alla vista, innalzandosi tanto ripida al di sopra dei binari che era difficile coglierne i dettagli, dando così l’impressione di una monumentale ziggurat che torreggiava nel cielo azzurro. Il Kleine Scheidegg era senza dubbio più grande di come lo immaginassi, con un agglomerato di nuovi edifici accanto alla stazione e una incongrua capanna rossa e bianca con il logo della Coca-Cola a pochi metri dai binari. Mentre risalivamo il pendio diretti all’Hotel Bellevue des Alpes, questo ci nascondeva alla vista la quasi totalità della parete.

    In cima a una scalinata di pietra, una porta a battente si apriva sull’atrio dell’albergo, il più grande e antico del Kleine Scheidegg. Una volta entrati provai a orientarmi. Qualcosa era cambiato. Tutto ciò che restava del banco della reception era un casellario, dove gli ospiti lasciavano le chiavi e il personale della portineria era stato spostato in un’ampia sala alla sua destra. Di fronte al vecchio bancone c’era la cabina del telefono dove dettavo i miei resoconti serali al giornale; dentro però non c’era alcun telefono, solo la mensola che un tempo lo aveva sostenuto. Nell’aria sentivo un aroma che credetti di riconoscere: proveniva probabilmente dal lucido pavimento in legno e si mischiava con il profumo di un vaso di gigli posto su un tavolo accanto all’ingresso.

    Eravamo stati sistemati in una stanza all’ultimo piano. L’albergo era ancora privo di ascensore e così ci dirigemmo alle scale a lato dell’atrio. Non appena affrontai la prima rampa sentii un familiare scricchiolio di legno sotto i piedi e quel suono mi rassicurò sull’affidabilità della mia memoria, almeno per certi dettagli. Arrivati al primo piano dovemmo fermarci a riprendere fiato: per un attimo fui colto da un capogiro e mi appoggiai alla balaustra. Ero stato preso alla sprovvista. Poi ricordai che ci trovavamo a un’altitudine di duemila metri e stavamo accusando gli effetti dell’aria più rarefatta. Non ricordavo quel particolare quarantotto anni prima, ma è pur vero che allora ero un giovanotto – fin troppo giovane, per come la vedevo io – e avevo passato la maggior parte del mese a Kleine Scheidegg, avendo tutto il tempo per adattarmi.

    La nostra stanza da letto si trovava dove avevo sperato, rivolta verso l’Eiger su due lati. La Parete Nord era incorniciata dalla finestra e messa in evidenza dal chiarore del Fianco Occidentale e dal ghiacciaio del vicino Mönch. Anche nella semioscurità i leggendari punti di riferimento della parete erano chiaramente visibili: il Secondo Nevaio, la Traversata degli Dèi, il nevaio del Ragno Bianco, con le zampe che si allungavano fino alla roccia nera che lo circondava, le Fessure Terminali che conducevano al rifugio sulla vetta, dove finalmente la pendenza diminuiva e un raggio di sole trafiggeva la cresta. Osservai la parete, tentando di assorbire ognuno di quei dettagli, ma dopo un po’ mi sentii sopraffare e dovetti distogliere lo sguardo.

    Scendemmo per le scale scricchiolanti ed esplorammo il piano terra. Mi ricordavo del bar, naturalmente, ma altre due sale erano più difficili da rammentare. C’era uno spazioso ristorante con le sedie decorate e il parquet, ma non avevo memoria di me stesso là dentro. Né tantomeno ricordavo il salone dalla mobilia sontuosa, pieno di poltrone e decorazioni. Mi era invece familiare la Gaststube, la sala dove mangiavano gli ospiti, con le sue panche e le lunghe tavolate, che incontrammo dopo esser scesi di un altro piano. Nel 1966 ci avevo trascorso la maggior parte delle mie serate, il più delle volte in compagnia degli alpinisti, facendo la conoscenza delle varie fondute presenti in menù nonché di un’allettante selezione di birre e vini. Erano i tempi in cui un giornalista metteva tutto in conto spese senza la minima inibizione.

    Leni e io tornammo alla stazione e pranzammo in un caffè al binario centrale. Attraversammo i binari ed entrammo nell’albergo ristorante Eigernordwand – che non esisteva nel 1966 – per bere caffè su una terrazza che aveva una spettacolare vista sulla Parete Nord. Con l’avanzare del pomeriggio i raggi del sole scivolarono oltre il bordo del Versante Occidentale, inondando la parete e in qualche modo rendendola meno minacciosa. Eravamo tentati di restare ad ammirare quel gioco di luci, ma c’era ancora un oggetto che volevamo cercare.

    Sulle prime pensai di averlo trovato accanto a un negozio di souvenir vicino al nostro albergo, dove c’era un telescopio grigio a doppia lente montato su un piedistallo. Assomigliava a un enorme binocolo ed era orientato verso la parete. Mi misi in posa per una fotografia accanto a esso, ma non corrispondeva ai miei ricordi e dovetti ammettere che non era quello che stavamo cercando.

    Tornammo in albergo e chiedemmo al proprietario, Andreas von Almen – un cognome leggendario nella storia dell’hotel e della Parete Nord. Suo zio, Fritz von Almen, comprò l’albergo nel 1925 e da quel momento lo trasformò in un punto di riferimento per tutte le spedizioni sulla parete, ospitando gli alpinisti, coordinando le squadre di soccorso e fornendo anche resoconti alla stampa. Era ancora lì nel 1966, lo ricordavo durante il mio soggiorno: una figura alta e aristocratica e molto scrupoloso riguardo all’abbigliamento che dovevano tenere i suoi ospiti – motivo per cui mangiai molto raramente nel suo ristorante. Morì nel 1974 e l’albergo entrò in declino fino a che Andreas, un architetto, e sua moglie Sylvia lo rilevarono nel 1998, iniziando a riportarlo ai fasti di un tempo. Andreas comparve nell’atrio, un personaggio molto meno formale di suo zio, dai capelli lunghi e spettinati che gli incorniciavano il viso. Avevo intenzione di chiederglielo in modo gentile, eppure la domanda mi uscì di getto: «Dov’è il telescopio?».

    Von Almen ci guidò lungo un corridoio, fino a un appartamento oltre le stanze dei clienti del primo piano. Ci fece accomodare nel suo ufficio e là, appoggiato alla parete più lontana, lo vidi. Aveva due cilindri argentati ed era montato su un treppiedi sofisticato, con due rotelle per regolare l’altezza e divaricare le zampe. Era ancora leggibile il marchio del fabbricante: Zeiss, di Jena.

    Von Almen lo aveva riesumato da un mucchio di mobili e altri oggetti della soffitta quando si era imbarcato nel progetto di ristrutturazione dell’albergo. Lo spostò al centro della stanza e noi lo fotografammo, immerso nella luce che dalla finestra pioveva all’interno. C’era ancora qualcosa che non tornava. Gli domandai dove si trovasse inizialmente il telescopio e lui aprì una porta su una terrazza coperta di neve, da cui si vedeva la Parete Nord in tutta la sua grandezza. La terrazza era più piccola di come la ricordavo, ma von Almen ci spiegò che aveva allargato un lato dell’edificio per accogliere il proprio ufficio, riducendo così le dimensioni della terrazza. Ora tutto tornava. Era là che andavo per scrutare l’Eiger in cerca delle due squadre che gareggiavano su per la Parete Nord seguendo un nuovo, audace percorso, e misuravo i loro progressi mentre si sfidavano ognuna nel tentativo di battere l’altra sul tempo.

    La scalata durò più di un mese, con un giorno che spiccò su tutti gli altri. Dopo quattro settimane gli alpinisti erano pronti a tentare l’assalto alla vetta. Una squadra era in testa e l’altra cercava di raggiungerla. Si era parlato di un’alleanza, ma nulla era stato deciso. Si arrampicavano su per corde fissate alla parete per prendere i rifornimenti e ritornare al punto più elevato raggiunto fino a quel momento. Un pomeriggio una corda si ruppe. Stavo guardando con il telescopio proprio in quel preciso istante e ciò che vidi rimase scolpito per sempre nella mia memoria.

    Poco tempo dopo scrissi un libro, Eiger Direct, insieme all’alpinista Dougal Haston. Raccontava la storia della scalata in uno stile secco e minimale, in sintonia con il punto di vista di un reporter ventiquattrenne qual ero io allora. Si concentrava su una delle squadre, una partnership internazionale guidata dallo scalatore americano John Harlin. Nel libro c’era tutto ciò che sapevamo del team rivale tedesco, ma conteneva ben poco delle loro esperienze o del loro punto di vista. Da allora quella scalata non ha mai più abbandonato i miei pensieri. Ho riflettuto sul suo impatto, sulle sue conseguenze, sui suoi significati. Soprattutto, ho riflettuto su ciò che vidi in quel momento in cui ero al telescopio. Si era trattato di un evento casuale, il risultato di una roulette esistenziale? O era invece qualcosa di prevedibile, anche se inevitabile? Quando mi risolsi a scrivere questo libro non ero ancora giunto a una conclusione.

    Leni e io arrivammo al Kleine Scheidegg nel marzo del 2014. Nel marzo del 1966, quando commentavo la scalata per il «Daily Telegraph», eravamo sposati da poco più di tre anni e avevamo due figli piccoli. Per un certo periodo abbiamo seguito due distinte carriere: Leni come insegnante e io come giornalista. Sin dagli anni Ottanta, quando Leni smise di insegnare, abbiamo scritto libri e articoli firmandoli assieme. Insieme facevamo le ricerche e strutturavamo le trame; in fase di scrittura le dita sulla tastiera erano le mie e Leni si occupava della revisione. Anche se è perlopiù scritto in prima persona singolare, questo libro non fa eccezione. Abbiamo condotto insieme le nostre ricerche in Svizzera e abbiamo anche fatto un altro viaggio negli Stati Uniti, sempre per fini di ricerca.

    Siamo stati fortunati inoltre ad avere l’assistenza dello scrittore e storico della montagna Jochen Hemmleb. Ci conosciamo e abbiamo lavorato assieme in una varietà di progetti per venticinque anni, dopo aver scoperto una comune passione per la storia del Monte Everest. Jochen fornì aiuto ai cinque alpinisti tedeschi ancora in vita, da noi incontrati durante le visite di ottobre 2013 e febbraio 2014, e lui è rimasto in contatto con loro mentre noi continuavamo le nostre ricerche. Si è dedicato senza risparmiarsi alla risposta di ognuna delle domande che inevitabilmente siamo finiti per rivolgergli, e le sue conoscenze e abilità sono state di vitale importanza nel dare forma a questo libro, che senza di lui non avremmo mai potuto scrivere.

    Si dice in genere che solo una volta finito di scrivere una storia capisci come avresti dovuto iniziarla. Per una volta questo non è stato vero: sapevamo bene che dovevamo iniziare dal valico del Kleine Scheidegg. Ma eravamo certi che avremmo scoperto cose che ci avrebbero sorpresi, anche se non potevamo prevedere quali sarebbero state. Il che si dimostrò corretto. Molto di ciò che abbiamo scritto offre una nuova prospettiva su quanto pensavamo di sapere, e in parte si tratta di cose che non sono mai state raccontate prima.

    Avevamo un inestimabile resoconto della scalata nei due libri scritti pochi mesi dopo l’impresa: Eiger Direct, scritto da Haston con il sottoscritto, pubblicato in diverse lingue ma non in tedesco; e Eiger: Kampf um die Direttissima, scritto dai due leader del team tedesco, Peter Haag e Jörg Lehne, che venne pubblicato in tedesco e francese ma non in inglese. Ognuno naturalmente favoriva imprese e punti di vista della rispettiva squadra, ma il nostro nuovo libro avrebbe messo insieme le due diverse prospettive per la prima volta. C’era anche molto altro da aggiungere, soprattutto materiale ricavato dalle nostre interviste ai cinque alpinisti tedeschi, all’unico sopravvissuto della squadra internazionale, Chris Bonington, il più famoso degli scalatori inglesi, e alla famiglia di John Harlin, il cui nome è per sempre legato a quell’ascesa. Usando tutto questo materiale costruimmo un racconto che meravigliò perfino noi per il livello di tenacia e solidarietà che rivelava; era un racconto di perdita, sofferenza e sopravvivenza a cui nessuna delle narrazioni precedenti aveva reso piena giustizia.

    La nostra storia divenne anche un’inchiesta sulla natura della memoria umana e su come essa influenza le narrazioni. Alcuni dei racconti che abbiamo portato alla luce contraddicevano i reportage precedentemente pubblicati – e a volte si contraddicevano anche tra loro. Li abbiamo proposti perché offrono uno sguardo interessante sull’esperienza umana così come viene filtrata dalla memoria. Dove non siamo stati in grado di risolvere le incongruenze le abbiamo mostrate, così da illustrare le diversità nelle percezioni delle persone coinvolte. Le nostre ricerche inoltre mi hanno portato a confrontarmi con i miei stessi ricordi e preconcetti e a volte mi hanno spinto a rivedere giudizi che mi ero fatto quarantotto anni prima. Per questo motivo è stato un progetto ancora più emozionante e appagante. La nostra ammirazione e il rispetto per quanti presero parte all’impresa sono totali, anche se occasionalmente siamo stati critici nei loro confronti, e speriamo che questo libro sia al tempo stesso il tributo a una conquista eccezionale e il memoriale di un’epoca straordinaria.

    1. Benvenuti a Trento

    Il Palazzo Saracini Cresseri nella città montana di Trento, in Italia, è un posto perfetto per il principale raduno di alpinisti d’Europa. Fu costruito nel xvi secolo e occupato da una discendenza di famiglie aristocratiche, tra cui i Saracini e i Cresseri, e venne ritenuto abbastanza illustre dal duca di Gloucester, fratello di re Giorgio iii, da sceglierlo per una sua permanenza nel 1777. Ha un imponente ingresso sovrastato da un arco, una doppia porta in legno di noce, una coppia di balconi che la sovrasta e due file di finestre incassate che guardano via Giannantonio Manci – dal nome di un partigiano ucciso dalla Gestapo nel 1944.

    L’edificio, divenuto nel 1954 sede della direzione della Società degli Alpinisti Tridentini, è uno dei luoghi che ospita il Festival Internazionale Film della Montagna, dell’Esplorazione e Avventura di Trento. Il festival, che si tenne per la prima volta nel 1952, è una celebrazione a tutto tondo dell’alpinismo e dell’esplorazione, sponsorizzata da autorità cittadine e regionali che puntano a consolidare la reputazione di Trento come centro indiscusso dell’alpinismo in Europa. Dal 1972, quando Trento divenne parte della provincia autonoma del Sud Tirolo, il festival ha avuto anche lo scopo di sottolineare l’autonomia della regione. Ha sempre attratto i più esperti scalatori del tempo, ospitandoli a proprio carico, organizzando sontuosi banchetti a base di salumi, formaggi di montagna, brasati di capra e di cinghiale, abbondanti quantità di birra e di fruttati vini rossi del Trentino (i buffet si sono fatti meno ricercati con l’austerity degli ultimi anni).

    Durante l’edizione del festival del 1965, quasi tutti coloro che vi parteciparono provenivano dalle principali nazioni alpine: Francia, Germania, Austria, Svizzera e Italia. Qualcuno arrivava anche dall’Inghilterra, nel tentativo di insediarsi di nuovo nei ranghi dell’alpinismo internazionale dopo aver voltato le spalle alle Alpi nel periodo tra le due guerre mondiali. Cosa piuttosto bizzarra, la maggior parte di loro era vestita in maniera tradizionale, con giacche e cravatte, laddove oggigiorno il dress code prevede camicie a collo aperto e giacche a vento. Nonostante ciò uno dei delegati spiccava particolarmente, non solo per la sua singolare chioma bionda e i suoi profondi occhi castani, ma anche per il suo fisico muscoloso, che si distingueva perfino in quella platea di gente in gran forma. Si chiamava John Harlin ed era l’unico americano tra i relatori invitati.

    Harlin non era un nuovo arrivato. A trent’anni si era fatto un nome per aver affrontato il percorso più difficile e impegnativo di tutte le Alpi. Tre mesi prima, insieme al suo collega americano Royal Robbins, era diventato il primo a percorrere una nuova direttissima, cioè un itinerario super diretto, sulla Parete Ovest del Dru, una delle vette appartenenti al massiccio del Monte Bianco. Si era trattato di una prova di forza e di prodezza tecnica, perché durante il primo giorno una roccia era caduta colpendo Harlin alla coscia destra, ferendo il nervo sciatico e provocandogli un’emorragia interna che continuò fino al suo arrivo a Trento. Harlin aveva arrampicato in preda a lancinanti dolori per i due giorni che erano serviti a completare l’ascesa, poi si era impegnato in una discesa infida con Robbins, in mezzo a tormente e temporali. Questa si andava ad aggiungere a una lista di altre scalate che includeva anche la prima ascesa della Parete Nord dell’Eiger compiuta da un americano. A quel tempo Harlin, benché poco noto in America, aveva invece una solida reputazione in Europa. Quella era la quarta volta che partecipava al festival.

    L’evento più prestigioso era il concorso cinematografico che si svolgeva nel vicino Teatro Sociale. Un premio andò a un documentario sulla spedizione americana che aveva scalato l’Everest nel 1963. Il riconoscimento più importante se lo aggiudicò un cortometraggio polacco che raccontava l’interessante storia di una maestra che, per raggiungere la sua scuola, doveva percorrere uno stretto sentiero di montagna. Questo fatto diede adito a voci secondo cui la giuria sarebbe stata influenzata dalle politiche europee degli anni Sessanta, nello specifico dalla volontà di assegnare un premio a un Paese dell’Europa dell’Est, a quel tempo ancora nella sfera di influenza sovietica; forse nel tentativo di allentare la morsa della guerra fredda, la cui prima linea – fatta di alte recinzioni metalliche, filo spinato, sirene e fossati anticarro – divideva in due la Germania e terminava a quattrocento chilometri da Trento.

    Fortunatamente queste considerazioni non valevano per il dibattito che si tenne al Palazzo Saracini Cresseri il primo ottobre 1965. Il titolo era di una semplicità affascinante: Perché l’alpinismo? Come dire: perché scalare?

    Si tratta di una domanda a cui gli alpinisti tendono a rispondere con differenti gradi di insofferenza. La replica più lapidaria resta quella di George Mallory, il pioniere dell’Everest che compì tre tentativi all’inizio degli anni Venti, scomparendo sulla montagna nel 1924 e lasciandoci con l’eterno dubbio se lui e il suo compagno Andrew Irvine fossero o meno riusciti a raggiungere la vetta. Nel 1923, durante una serie di convegni negli Stati Uniti, fu chiesto a Mallory perché volesse scalare l’Everest. La sua celebre risposta consta di sole tre parole: «Perché è lì», e ha la semplicità tipica dello zen, nel senso che può significare tutto oppure niente.

    Interrogati dal giornalista Guido Tonella, che moderava il dibattito di Trento, gli alpinisti fornirono una varietà di risposte differenti. Michel Vaucher, un alpinista svizzero che aveva al suo attivo una straordinaria lista di ascese estive e invernali, disse che l’alpinismo era la maniera migliore per conoscere se stessi. Toni Hiebeler, che nel 1961eseguì per la prima volta un’ascesa invernale della Parete Nord dell’Eiger, disse che si trattava di un’esigenza «che diventava sempre più intensa con il passare del tempo». René Dittert, capo della spedizione svizzera che per un soffio non raggiunse la cima dell’Everest nel 1952, disse, riecheggiando Mallory, che lui scalava le montagne perché se le trovava davanti.

    Quando fu il turno di Harlin, egli fornì non una ma tre spiegazioni. «Lo faccio perché mi piace; perché mio padre era uno scalatore; per una ragione che non riesco a definire».

    La prima parte della risposta di Harlin sembra ragionevole, pur se sconfina nell’ovvio. La terza suggerisce profondità insondabili, un mistero psicologico che neppure lo stesso Harlin poteva scandagliare, e fu forse anche più accurata di quanto lui volesse ammettere. La più interessante era la seconda, dal momento che non era vera. Il padre di Harlin era un pilota di linea e un amministratore, che lui aveva ammirato e anche tentato di emulare, avendo trascorso ben cinque anni come pilota nell’aviazione americana, durante la maggior parte dei quali era stato di stanza in quella che allora era la Germania occidentale. Suo padre aveva contribuito a instillare in lui l’amore per l’aria aperta, portandolo in barca e a pescare nel Minnesota, dove era cresciuto. Ma il padre di Harlin, che all’epoca dei fatti di Trento aveva cinquantanove anni, non era mai stato uno scalatore.

    Nessuno dei presenti fu nella posizione di obiettare alla falsità di Harlin. Ed era una sua caratteristica quella di infilare nei suoi discorsi questo affascinante mito sui motivi per cui arrampicava e sul rapporto con la figura paterna. Già in passato aveva fatto dichiarazioni simili, poi rivelatesi esagerazioni o menzogne. Dichiarò di aver scalato la Parete Nord del Cervino quando aveva vent’anni – inviando perfino una cartolina alla sua futura moglie per comprovarlo. Ma non era vero. Affermò di esser stato un apprendista stilista presso il famoso Pierre Balmain a Parigi. Neppure questo era vero. Tale leggerezza nei confronti della verità era qualcosa con cui suo figlio, John Harlin iii, avrebbe poi dovuto fare i conti nella propria vita. «Gli amici generosi dicono che desiderava così tanto quei successi che finì col credere lui stesso di averli ottenuti», scrisse John Harlin Junior. «Non credevo che un tale livello di autoinganno fosse possibile, ma ora comincio a capire che invece è così». Nel caso di suo padre, aggiunse: «Il fallimento semplicemente non veniva registrato».

    Le ragioni delle finzioni di Harlin formano un aspetto di un complesso e controverso personaggio che divise le opinioni in seno alla comunità degli alpinisti. I sostenitori di Harlin lo lodavano per l’ispirazione di cui era fonte sia sulla montagna che nella vita personale. Era considerato un sognatore e un visionario, con interessi e talenti che andavano molto al di là delle montagne. Era un idealista, uno scettico e un radicale che, dopo aver passato un anno a svolgere un incarico che implicava il dover dormire accanto al suo aereo da caccia, carico di armamenti nucleari, sempre pronto a entrare in azione contro l’urss e i suoi alleati comunisti, dichiarò all’usaf, l’aeronautica militare americana, che non era più disposto a sganciare le bombe sul suo bersaglio designato, la città di Praga. Era uno scrittore, un pittore e un poeta, sperimentava vari stili e nei suoi scritti sulla montagna dimostrò un’intelligenza emotiva paragonabile a quella di Mallory, che tentò di esplorare i propri sentimenti e le proprie motivazioni così come quelle dei suoi compagni di cordata.

    I detrattori di Harlin non gli perdonavano invece quella che ai loro occhi era una personalità soverchiante, manipolatrice e dedita al controllo. Lo consideravano un fantasista i cui sogni superavano di gran lunga la sua capacità di realizzarli. Poteva essere molto duro con chi non era d’accordo con lui, ed era incline a scoppi d’ira e di violenza. Aveva una moglie e due figli, ma era sempre dilaniato tra l’alpinismo e le responsabilità familiari, e spesso era il primo a spuntarla. Tra i suoi critici c’erano scalatori che avevano fatto squadra con lui in spedizioni impegnative: Robbins scrisse che Harlin «avrebbe messo a rischio la propria vita anche dieci volte di seguito, se poteva farlo in modo eroico e grandioso».

    Su una cosa entrambe le fazioni concordano: come alpinista Harlin era determinato e competitivo, al punto di essere ossessivo – qualità essenziali per il progetto al quale egli si stava preparando. Si dava il caso che un altro degli alpinisti partecipanti al dibattito di Trento condividesse alcune di queste qualità, nonché lo stesso obiettivo di Harlin.

    Peter Haag, uno scalatore di ventotto anni proveniente da Stoccarda, nella Germania meridionale, era alla sua prima volta al festival di Trento. Il suo curriculum, ancorché corposo, era meno spettacolare di quello di Harlin. Quando venne il suo turno di spiegare i motivi per cui arrampicava, la sua risposta fu meno enigmatica e più aperta di quella di Harlin. Aveva cominciato a scalare perché si era innamorato della sorella di un alpinista e la incontrava sempre ai piedi di una montagna. «Un giorno mi resi conto che non l’amavo più, ma nel frattempo avevo sviluppato una passione per le vette».

    Come Harlin, Haag aveva dato una risposta singolare. Haag, disse sua moglie Barbara nel 2014, era un sentimentale della montagna. Si erano conosciuti durante un campeggio alla Mer de Glace, il ghiacciaio ai piedi del Monte Bianco. Per il loro primo viaggio insieme lui la portò in Svizzera a vedere la Parete Nord dell’Eiger, e si sposarono poche settimane dopo il festival di Trento. Lei era attratta dalla sua personalità vivace e da una serie di interessi comuni, a parte l’alpinismo. Haag era un poeta, un pianista jazz e un attore comico che una volta scrisse un pezzo di cabaret sulla montagna, per prendersi sottilmente gioco dei suoi stessi colleghi. La sua risposta a Trento, smentendo gli stereotipi sui tedeschi che mancano di senso dell’umorismo, fu il più arguto contributo di tutto il dibattito. Nonostante ciò, la sua storia potrebbe non essere stata più veritiera di quella di Harlin. Barbara Haag non ne sapeva nulla, anche se la loro era una relazione sentimentale e intima, e questo dava adito alla possibilità che anche Haag – uno a cui piaceva raccontare storie – si fosse espresso in termini niente più che poetici.

    Nella storia della Diretta dell’Eiger, ciò che trasparì nella discussione pubblica di Palazzo Saracini Cresseri fu meno significativo di quanto accadde dietro le quinte. A un certo punto durante il festival, Harlin e Haag – che parlava un inglese eccellente – si presero una birra insieme. A quel punto ognuno dei due sapeva che l’altro era intenzionato a seguire il percorso conosciuto col nome poliglotta di Eiger-Nordwand Direttissima, o più semplicemente Diretta dell’Eiger. Era uno degli argomenti più caldi di tutto l’alpinismo, perché si trattava di aprire una nuova via su una delle pareti più pericolose e segnate da tragedie di tutta l’Europa.

    La Parete Nord dell’Eiger restava per molti alpinisti la sfida finale. Appartiene a un trio di montagne nella fila frontale dell’Oberland Bernese, l’altopiano situato nel cantone svizzero di Berna, e quindi è il primo a essere colpito dalle tempeste che arrivano da nord. Gigantesche forze geologiche hanno scavato un anfiteatro largo un chilometro e mezzo che si erge dai prati verdi inclinati di Alpiglen e arriva fino all’apice di quel versante spaventosamente esposto, nei suoi 3970 metri di altezza complessiva.

    L’Eiger fu scalato per la prima volta nel 1858 da un esploratore irlandese di nome Charles Barrington, con due guide, che si avvicinò alla vetta dal Fianco Occidentale, più facile, fermandosi per guardare con stupore la vastità della Parete Nord. Un alpinista inglese, Adolphus Moore, autore della terza ascesa sull’Eiger nel 1864, scrisse del «carattere scabroso e scosceso della parete – una pietra lasciata cadere dalla sua sommità precipiterebbe per centinaia di metri prima di incontrare un ostacolo». Con la sua roccia friabile e i suoi vasti nevai e speroni, continuamente battuti da pietre cadenti, torrenti d’acqua e valanghe, la parete era considerata tanto difficile e pericolosa che fino agli anni Trenta nessuno scalatore si era mai avventurato su per essa. Nel giro di tre anni otto alpinisti morirono in diversi tentativi, soccombendo al freddo e allo sfinimento, cadendo, e in un orribile incidente un esploratore fu perfino strangolato dalla sua stessa corda. Alla fine la cima venne conquistata nel 1938 da una squadra di tedeschi e austriaci che ebbe la meglio su tempeste e valanghe, quattro giorni dopo aver lasciato le tende ad Alpiglen.

    Dopo la seconda guerra mondiale vennero effettuati altri tentativi. In quindici anni centonove scalatori ce la fecero e quindici morirono. John Harlin era il numero 86 della lista quando divenne il primo americano a raggiungere la vetta – e una settimana dopo la conquistarono i primi inglesi, Chris Bonington e Ian Clough. Ma Harlin non era soddisfatto. Praticamente mentre scendeva dalla parete stava già pensando a un piano per scalare di nuovo l’Eiger, ma seguendo un diverso percorso.

    L’itinerario del 1938 era ingegnoso e unico, per il modo in cui si inerpicava su per la parete, dando modo agli arrampicatori di testare la montagna in cerca della linea di minor resistenza: di traverso ai nevai e lungo le linee di faglia nelle stratificazioni rocciose, in un sentiero a zigzag che conduceva al Nevaio Sommitale. Al’inizio degli anni Sessanta un nuovo imperativo stava facendo presa nella mente degli alpinisti: evitare le traiettorie eleganti delle prime ascese, preferendo percorsi che tagliassero la strada verso la cima del grande monte alpino come fossero stati scalpelli. Si dice che l’ispirazione venne dall’italiano Emilio Comici, che dichiarò che il tragitto ideale era quello che seguiva l’esatta traiettoria di una goccia d’acqua lasciata cadere dalla vetta.

    Nell’ottobre del 1965, quando incontrò Haag a Trento, Harlin era stato sulla Parete Nord in cerca della Diretta già una mezza dozzina di volte. Alcune di queste incursioni erano state di ricognizione, nel tentativo di individuare una traiettoria di salita. Per due volte aveva tentato la scalata vera e propria, in squadra con esperti arrampicatori francesi e italiani, arrivando fino a metà altezza. Non c’era alcun dubbio, disse suo figlio John, che la ricerca della Diretta era diventata la sua ossessione. Fu anche lo stesso termine usato da Barbara, la moglie di Haag, che ricordò la loro visita alla parete nell’estate del 1965, quando il marito indicò le possibili vie da percorrere. «Non aveva né mappa né macchina fotografica», disse lei. «Era tutto nella sua testa».

    Quella volta, a Trento, davanti a vino e grappa, si misero a discutere dei loro progetti, sulle prime con una certa diffidenza. Entrambi erano intenzionati a tentare un’ascensione invernale, quando le rocce instabili sono incastonate nel ghiaccio e la parete non è più battuta da torrenti d’acqua di fusione – anche se le tempeste possono raggiungere il loro picco di intensità, con venti a oltre centoventi chilometri orari e temperature che piombano oltre i venti gradi sotto zero. Ma scoprirono presto che nei loro approcci c’era una diversità sostanziale. Harlin voleva compiere il suo tentativo con una squadra composta da tre persone: lui stesso, Chris Bonington, il più bravo alpinista inglese, e un personaggio di spicco nella nuova generazione dei rocciatori americani: Layton Kor. Il piano di Haag era di scalare con un team di otto componenti, guidato da lui e da Jörg Lehne, un alpinista tedesco che aveva preso parte alla prima grande direttissima alpina, sette anni prima. I loro sei colleghi, al pari di Haag, venivano tutti dalla Svevia, regione nel Sud della Germania. Nessuno di loro aveva una reputazione internazionale paragonabile a quella della squadra di Harlin, ma godevano del rispetto dei circoli alpinisti per le loro capacità di resistenza e per la determinazione a non darsi mai per vinti.

    Una fotografia scattata a Trento mostra Harlin coi suoi inconfondibili capelli biondi ben pettinati all’indietro, la giacca sbottonata che rivelava la cravatta, in un gruppo che comprendeva il rocciatore inglese Bev Clark, che in seguito avrebbe avuto un ruolo piccolo eppure significativo nella Diretta dell’Eiger. All’altro lato del gruppo c’è Peter Haag, con uno stile da ragazzino che smentisce i suoi ventotto anni, e la mano alzata in un gesto curioso, come se volesse impedirsi di vedere Harlin. È un’immagine fuorviante, perché secondo il racconto di Barbara Haag il rapporto che Peter strinse con Harlin lo riempì d’entusiasmo, almeno a giudicare dal racconto che di quell’incontro lui fece alla moglie. «Di sera se ne stavano seduti a bere e fumare, e chiacchieravano e facevano piani», racconta nel 2014. «Disse che era tutto meraviglioso». In una lettera a Barbara, Haag le raccontò che Harlin e Clark avevano bevuto due litri di grappa in due. Haag tirò fuori le sue canzoni e «suonò il piano per metà di quella notte». Quando Haag si fermò per riposare, Clark lo riportò di peso al pianoforte per farlo suonare ancora – togliendo di mezzo un giornalista che gli aveva preso il posto. Era tipico di Haag, che aveva un carattere socievole, faceva facilmente amicizia e detestava conflitti e antagonismi. Benché non lo avesse mai detto chiaramente, Barbara ritiene che lui avrebbe voluto formare una spedizione congiunta con Harlin e tentare la Diretta insieme.

    Non ci sono resoconti analoghi dal lato di Harlin. Non tornò a casa entusiasta a raccontare il suo incontro con Haag. La moglie Marilyn non ricorda proprio di averlo sentito menzionare i tedeschi, di ritorno da Trento. Neanche ne parlò con i suoi compagni di impresa, che rimasero sbalorditi quando alla fine scoprirono che una squadra tedesca aveva iniziato a seguire un percorso che consideravano territorio loro. Il figlio di Harlin, John Junior, riteneva che suo padre non avesse fatto menzione dei tedeschi «fin quando non fu costretto». Suo padre, aggiunse, era molto competitivo e non rivelava mai le proprie carte. Si era assicurato un accordo molto vantaggioso con il «Daily Telegraph» e non voleva dividerlo con altri. Inoltre si sarebbe opposto a un’ascesa cooperativa per molteplici ragioni. Come suggeriva la differente composizione delle due squadre, Harlin aveva una concezione radicalmente differente riguardo il modo di affrontare la scalata. Avendo provato già una mezza dozzina di volte quell’itinerario, mostrava al riguardo un atteggiamento possessivo, cosa che la maggior parte degli alpinisti poteva comprendere. Al contrario, i tedeschi erano nuovi arrivati, forse anche intrusi o outsider. Quando incontrai Harlin per la prima volta, nel 1965, un mese dopo Trento, mi disse che non si sarebbe scomposto minimamente se un altro team avesse scalato per primo l’Eiger aprendo una via diretta. Non ero sicuro se credergli o meno. Adesso mi sembra un’altra delle finzioni tipiche di Harlin.

    Per farla breve, due uomini molto motivati si trovavano uno di fronte all’altro nel tentativo di raggiungere lo stesso traguardo. La posta in gioco era enorme: l’ascesa si sarebbe svolta, come sempre nel caso dell’Eiger, al centro di un’arena mediatica. Sin dai primi tentativi degli anni Trenta, gli spettatori dietro i telescopi di Alpiglen e Kleine Scheidegg hanno osservato quelle figure piccole come formiche mettere in scena il dramma della vita e della morte sulla parete. Erano sempre presenti giornalisti in gran numero, avidi di brandelli di notizie e perfino pronti a inventarsele, se la realtà si fosse rivelata deludente. Le decisioni dei capi spedizione venivano sottoposte a severo giudizio, gli errori esaltati, i successi o le sconfitte descritti in termini così melodrammatici che, se li avessero sentiti, avrebbero potuto mettere in dubbio quanto stavano facendo.

    C’era anche un’altra prospettiva da cui considerare la rivalità, che la rendeva storicamente significativa. Si trattava di squadre appartenenti a Paesi che erano stati avversari durante la seconda guerra mondiale, terminata appena due decenni prima. Da un lato c’erano scalatori appartenenti a due nazioni vittoriose, l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Dall’altro, alpinisti che provenivano da una nazione devastata dalla sconfitta, in lotta con le avversità del periodo postbellico, i quali vivevano in uno Stato diviso, ancora lontano decenni dall’imporsi come leader nell’economia europea. Sia Harlin che Kor avevano trascorso gli anni della guerra in America, lontani da ogni scontro; Bonington, invece, si trovava a Londra quando i razzi V2 caddero nel 1945, e aveva vissuto le privazioni dei razionamenti alimentari sia durante che dopo il conflitto. Nella memoria degli scalatori tedeschi c’erano i bombardieri alleati che mettevano a ferro e fuoco le città della Svevia, le fughe nelle cantine, l’invasione dei carri armati americani, il terrore per l’Armata Rossa che si avvicinava a Berlino. Avevano conosciuto razionamenti e privazioni durante l’occupazione degli Alleati e le sue conseguenze, ed erano convinti che queste esperienze fortificanti sarebbero tornate molto utili sull’Eiger.

    Il festival di Trento si concluse il 2 ottobre. Harlin tornò a Leysin nel cantone Vaud, e Haag in Svevia. Mancavano tre mesi all’inizio delle scalate. Entrambi dovevano programmare le proprie strategie e stilare la lista degli equipaggiamenti. Harlin era in vantaggio finanziario: mentre lui si era assicurato i soldi del «Daily Telegraph», Haag si domandava quanto avrebbe dovuto chiedere ai suoi compagni come contributo alla cassa comune.

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