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Un cuore di ghiaccio
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E-book420 pagine5 ore

Un cuore di ghiaccio

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller Dopo tutto sei arrivato tu

Innamorarsi del proprio capo non è mai una buona idea. Specialmente se si tratta di un re. Quando mi sono proposta come tata per una ricca famiglia aristocratica, non mi sarei mai aspettata di finire nel palazzo reale di Copenaghen. Adesso la custodia delle due adorabili principessine della Danimarca è affidata a me. Adattarmi alla mia nuova vita non è facile, ma la parte più difficile non è avere a che fare con le ragazze che ancora soffrono per la perdita della madre. È il loro padre. Freddo, misterioso e lunatico, re Aksel riesce a penetrare la mia anima con uno sguardo. E da come mi evita, sembra che voglia avermi intorno il meno possibile. Eppure più a lungo condivido con lui le mura del palazzo e più mi sento irrimediabilmente attratta da lui.

Un’autrice bestseller del New York Times di USA Today e del Wall Street Journal

Un amore proibito di proporzioni... Reali!

«Tutto quello che si può desiderare da un romanzo e anche di più!»
Carly Phillips

«Karina Halle riesce sempre a emozionarmi, a farmi sospirare e sorridere.»

«La favola giusta per trascorrere un pomeriggio di relax.»

Karina Halle
è cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo e ha collaborato con diverse riviste. È autrice di numerosi libri, tra cui la serie Dream (Patto d’amore, Offerta d’amore, Gioco d’amore, Bugie d’amore, Debito d’amore), il cui primo volume è stato in classifica per settimane sul «New York Times», sul «Wall Street Journal» e su «USA Today». Con la Newton Compton ha pubblicato anche Dopo tutto sei arrivato tu, Ricordati di me, scritto con Scott Mackenzie, e Il principe svedese.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2019
ISBN9788822734914
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    Anteprima del libro

    Un cuore di ghiaccio - Karina Halle

    Capitolo 1

    Aurora

    Oggi – Settembre

    Inizialmente, quando mi sono candidata per questo lavoro, in fondo non mi interessava molto. Tanto per cominciare, ho esitato a compilare la domanda. Dopo essere stata la tata di Etienne Beauregard per due anni, e dopo che quel francesino tirannico ha fatto tutto il possibile per rendermi la vita difficile, avevo iniziato a pensare che forse era il momento di smettere con questa vita. Negli ultimi sette anni, sono stata una ragazza alla pari, e poi una tata, per varie famiglie in tutta Europa. Anche una persona ottimista ed elastica come me può avere un leggero esaurimento, e a spingermi oltremare era stato innanzitutto il desiderio di qualcosa di nuovo.

    Ma nonostante mi fossi convinta a cercare un altro genere di attività (maestra di inglese? Insegnante privata? Artista di strada vestita da Maria Antonietta in un angolo di qualche città?), quando sono andata presso la mia agenzia di collocamento dicendo di voler cambiare lavoro, la mia consulente, Amelie, mi ha subito parlato di questo incarico.

    «È a Copenaghen», mi ha detto, ammiccando con le sopracciglia, come se fosse una città più affascinante di Parigi, dove ci trovavamo allora.

    «Ascolta, Amelie», le ho risposto, passando dal mio francese ancora un po’ incerto (per i loro parametri, cosa che imputo al mio accento australiano) all’inglese. «In realtà, pensavo che potremmo provare con qualcos’altro».

    Mi ha fissato con gli occhi sbarrati.

    Ho proseguito: «Non voglio fare la tata. O la governante. O niente del genere».

    Si è morsa un labbro per un attimo, aggrottando le sopracciglia. «Pourquoi?».

    Io ho scrollato le spalle. «Non lo so. Etienne era…».

    «Sì, era un ragazzino viziato, e suo padre era un verme. Ma hai fatto un buon lavoro, e quando hai potuto te ne sei andata. Non sono tutti come lui. Lo sai».

    «Lo so, ma forse potrei fare qualcosa di… diverso».

    Ha scosso la testa ed è tornata a osservare lo schermo del computer. «No. Non puoi. Sei venuta qui in cerca di lavoro, e da allora ti abbiamo trovato posto in quattro famiglie. Così hai potuto permetterti di rimanere e di lavorare in Europa. Sei una brava tata, Aurora. La tua energia è, come dire, contagiosa. Perciò questo incarico è tanto allettante». Ha sottolineato la frase cliccando sul mouse.

    All’improvviso, nella mia mente, tutte le altre nuove strade e tutte le esistenze che avrei potuto intraprendere erano sfumate. «D’accordo», ho detto, con un sospiro, facendo un sorriso di circostanza. «Di che si tratta?»

    «Alors». Mi ha fatto un risolino furbo. «È per una famiglia danese molto importante. Un periodo di un anno, per cominciare. Due bambine, di cinque e sei anni. Il padre è, be’… single».

    Un padre single? Questa era una novità. «Dov’è la madre?»

    «Morta», mi ha spiegato. Ricordo l’espressione sul suo viso, come se la conoscesse di persona. «Un vero peccato. Quindi, sì, è chiaro che il padre ha bisogno di aiuto».

    Ha proseguito con altri dettagli, ma non troppi. Non tanti da rivelare tutto. Del resto, Amelie mi conosceva e mi apprezzava, e sapeva per quali famiglie potevo andare bene. Per quell’energia contagiosa, qualsiasi cosa intendesse. Ma era evidente che doveva tenere segrete alcune informazioni fino all’ultimo.

    Il primo colloquio si è svolto in un’anonima caffetteria accanto all’Hotel Peninsula. L’intervistatrice si chiamava Maja: una donna molto raffinata sulla settantina inoltrata, con una pelle straordinariamente liscia e i capelli biondo cenere raccolti in una lunga treccia. Mi ha sorpreso che fosse venuta lei: in genere erano i genitori a intervistarmi, e immaginavo che in questo caso ci sarebbe stato almeno il padre. Non era neanche un’ex tata.

    Non mi era chiaro il suo ruolo all’interno della famiglia, e anche le sue domande erano strane. Non mi ha detto nulla delle bambine, tranne i loro nomi – Freja e Clara –, invece mi ha fatto molte domande sulle mie abitudini. La mia educazione. I miei princìpi. Era un colloquio, ma sembrava che non fosse finalizzato tanto per un lavoro quanto per stabilire se fossi una persona rispettabile. Forse anche più che rispettabile.

    Non ero certa di aver superato la prova.

    Non provengo da una famiglia rispettabile.

    Poi, due giorni dopo, Amelie mi ha chiamato. Voleva incontrarmi fuori dal negozio di Chloé, in Rue Saint-Honoré, e ho pensato che fosse uno strano luogo per un incontro, dato che si trattava di una zona costosa di Parigi ed era lontana dal suo ufficio.

    L’ho trovata lì che fumava una sigaretta.

    «Che succede?», le ho chiesto.

    Lei lanciava occhiate a destra e a sinistra, come se temesse di essere stata pedinata. Poi mi ha fatto un cenno con il capo. «Vieni con me».

    Sorpresa, l’ho seguita in una strada laterale finché non si è fermata, appoggiandosi a un muro. Continuava a puntare lo sguardo in ogni direzione, e stavo quasi per chiederle se stesse bene, quando mi ha detto: «Devi prendere un volo per Copenaghen domani».

    «Cosa?». Fino a quella mattina, Amelie non aveva più accennato all’incarico. Mi ero convinta di non aver superato il colloquio.

    Ha dato un rapido tiro di sigaretta. «Poco preavviso. Ma vogliono presentarti alle bambine. Se va bene, allora avrai il lavoro. Maja è sembrata colpita. A meno che non avesse qualcosa in un occhio».

    «L’hai incontrata di persona?»

    «Prima. Oggi abbiamo pranzato insieme in fondo a questa strada».

    «Perché si trova ancora a Parigi?»

    «Non penserai che fossi l’unica candidata, o sì?».

    Non ci avevo pensato.

    Mi ha sorriso divertita. «Tu eri la mia sola candidata. Ma ne ha viste altre provenienti da varie zone d’Europa. Le ha incontrate tutte qui perché è un luogo centrale. Almeno così mi ha detto. Germania, Austria, Belgio. Aveva già fatto dei colloqui in Inghilterra. E in Danimarca, ovviamente».

    «Non può essere tanto difficile trovare una tata. Perché sta scandagliando mezzo continente?».

    Amelie ha allargato il sorriso. «Perché non è facile trovare una persona adatta alla famiglia reale».

    Ed è stato allora che finalmente ho scoperto tutta la verità riguardo all’incarico.

    Non sarei stata semplicemente la tata di una qualunque famiglia ricca e prestigiosa.

    Sarei stata la tata della famiglia reale, cazzo!

    Ed ecco perché ora mi trovo su un aereo diretto a Copenaghen, tentando di mantenere il più possibile la calma. Non contribuisce il fatto che continuiamo a incrociare sacche di turbolenza e che la donna seduta accanto a me tenga stretto un rosario e mormori febbrilmente una preghiera in italiano.

    Cerco di non pensare al mio stomaco in subbuglio ripassando tutte le informazioni che ho accumulato all’ultimo minuto sulla Danimarca e sulla famiglia reale danese. Ho avuto soltanto ventiquattro ore per studiare in fretta e furia prima di salire in aereo, ma non volevo presentarmi impreparata in quel dannato palazzo reale.

    Ho sempre desiderato visitare la Danimarca, e mi diverto a fare delle ricerche, quindi per fortuna so già qualcosa sul paese, ma non sapevo nulla sulla famiglia reale.

    Dopo aver studiato, be’… Posso dire che la storia dei reali danesi è piuttosto triste.

    Il re Aksel ha quarant’anni, ed è uno dei re più giovani della storia recente.

    È il primogenito del re Felix e della regina Liva, e ha una sorella più giovane, la principessa Stella. Ha ereditato il trono dopo che suo padre è morto di infarto quattro anni fa. Da allora, la regina vedova non è stata più la stessa, e ha trascorso la maggior parte del tempo in ospedale per vari motivi, sui quali internet fornisce informazioni contrastanti.

    Ma i drammi nella vita del re Aksel non finiscono qui.

    Due anni fa, sua moglie, la regina Helena, è morta in un incidente d’auto sull’isola di Madera, dove il re e la regina erano in vacanza, e Aksel è rimasto padre single di due bambine: Clara e Freja. Dopo i funerali di Stato, le bambine sono state viste in rarissime occasioni, e le apparizioni in pubblico dello stesso Aksel sono diminuite.

    Si dice che il re sia affranto dal dolore, ed è comprensibile. Oltretutto, l’intera nazione è ancora in lutto. In effetti, fin da quando è diventata principessa, la regina Helena è stata spesso paragonata alla principessa Diana. Non tanto perché fosse la principessa del popolo. Anzi, la regina Helena era un’aristocratica, dato che discendeva da una stirpe di nobili danesi e svedesi. Ma faceva molta beneficenza, era bellissima, alla moda e spiritosa, e il popolo la adorava. Anche se non sapevo molto della famiglia reale danese, ricordavo qualche titolo di giornale sulla principessa Helena.

    Quindi, le cose stanno così. Non solo sono diretta a quel cacchio di palazzo reale per conoscerli tutti, ma devo tenere conto di ciò che questa famiglia ha vissuto. I bambini di cui mi sono occupata in passato avevano tutti, chi più chi meno, dei problemi e delle difficoltà (non fatemi iniziare a parlare di Etienne), ma nessuno di loro ha dovuto affrontare un dolore più grande della morte di un pesce rosso.

    Per quanto riguarda me, be’… diciamo soltanto che conosco il dolore sotto molte forme.

    L’aereo atterra con un brusco colpo, scuotendomi letteralmente dai miei pensieri.

    La donna accanto a me smette di pregare, e io scruto fuori dall’oblò la pista di atterraggio dell’aeroporto di Copenaghen.

    Sono arrivata.

    Sono in preda alla nausea, come se fossimo di nuovo in volo.

    La cosa buffa è che nonostante qualche giorno fa pensassi di cambiare lavoro, pronta a fare qualunque altro mestiere tranne questo, e a dare una svolta alla mia vita, ora conto sul fatto di ottenere questo incarico più di qualsiasi altro.

    Non sono un tipo raffinato. Non ho alcun interesse per le casate reali.

    Non c’è assolutamente nulla che mi faccia pensare di essere adatta a questa mansione. Ho sempre dato per scontato che chi lavora per la famiglia reale – soprattutto una tata – debba a sua volta discendere da un casato nobile. Dio! Spero di non dover parlare delle mie origini, perché sono quasi certa che mi metterebbero alla porta in una frazione di secondo.

    Eppure, se mai dovessi ottenere il lavoro, già vedo che potrebbe aprirmi delle porte, darmi un futuro migliore, e rendere finalmente accessibile un obiettivo che mi è sempre sfuggito.

    Se ottengo il lavoro, ovviamente.

    Grande, enorme se.

    Giunti al gate, afferro il mio piccolo bagaglio a mano dalla cappelliera e avanzo lungo il corridoio che conduce all’uscita. La famiglia reale mi ha pagato il viaggio, ed è stato gentile da parte loro. Negli anni ho messo da parte dei risparmi e me lo sarei potuta permettere, ma nonostante ciò cerco di essere parsimoniosa con i miei soldi.

    Nella zona degli arrivi vedo di nuovo Maja, e accanto a lei c’è anche un uomo sull’attenti che deve essere l’autista. Come l’ultima volta, ha i capelli raccolti in una treccia e indossa abiti sobri di colore scuro.

    Mi dirigo verso di loro.

    «Salve, di nuovo», esordisco, tendendo la mano. «La ringrazio molto per l’invito».

    Maja ha una stretta decisa e sorride a labbra serrate. «Venga da questa parte», dice con il suo forte accento, prima di voltarsi e allontanarsi, con l’autista accanto.

    D’accordo. Quindi, anche se mi ha richiamato per un secondo colloquio, di certo non siamo ancora migliori amiche. Va bene. Con il tempo riuscirò a conquistarla.

    Se avrai tempo, ricordo a me stessa. Pensa prima di parlare.

    Li seguo fuori fino alla limousine nera che ci attende, e lì l’autista prende la mia borsa e la mette nel portabagagli, poi apre lo sportello posteriore. Maja mi fa cenno di salire a bordo, e mi sento scossa da un leggero brivido. Non è certo la prima volta che entro in una macchina simile, ma ho il leggero sospetto che questi due potrebbero gettare il mio cadavere nel fossato del castello. Nonostante tutte le mie ricerche, non ho trovato alcuna informazione su Maja.

    Ho un gran desiderio di chiederle qualcosa di personale, soprattutto perché né lei né l’autista parlano per tutto il viaggio. A me piace parlare, innanzitutto perché sono curiosa, e anche perché non sopporto i silenzi imbarazzanti.

    Fisso Maja, cercando di capire la sua strategia.

    Lei mi osserva a sua volta, con un sopracciglio alzato.

    Merda! Sto già rovinando tutto. Tendo a fissare a lungo le persone, ma lo faccio per curiosità, non per maleducazione. Si possono imparare molte cose sulla gente anche soltanto restando a guardarla in silenzio.

    Purtroppo, a volte ho dei problemi a restare in silenzio.

    «Mi sembra di capire che vorrebbe domandarmi qualcosa», fa lei dopo un attimo.

    «È vero», ribatto. «Voglio dire, non ho ancora ben capito quale sia il suo ruolo in tutto questo».

    «Il mio ruolo?».

    Mi mordo un labbro, chiedendomi se non stia ficcando troppo il naso. «Sì. Lei… lavora per la famiglia reale?»

    «Sono la sorella della regina», dice freddamente. «La regina vedova».

    Che ora so essere un titolo acquisito con il matrimonio, e non per diritto di nascita; quindi, Maja è la sorella della regina Liva e, di conseguenza, è la zia del re Aksel. «Sto gestendo questa faccenda per conto di sua maestà».

    Annuisco. «Scommetto che non è facile. Trovare qualcuno, intendo».

    «No», replica lei. «Non lo è. Da quando Helena è morta abbiamo avuto una tata o due, ma non erano affatto all’altezza».

    «Sarebbe troppo audace domandare cosa non ha funzionato?».

    Mi osserva con le labbra tese. «È audace», risponde, dopo avermi squadrato per un momento. «Ma glielo concederò». Sospira, guardando fuori dal finestrino, ed è chiaro che sta cercando di trovare le parole giuste. «Come ben sa, la famiglia ha attraversato un periodo molto difficile negli ultimi quattro anni. Innanzitutto c’è stata la morte del re, il padre di Aksel. Poi la mia cara sorella Liva… Da allora non è stata più la stessa. Aksel si è ritrovato a diventare re molto prima di essere pronto, ed è come se avesse perduto entrambi i genitori nello stesso momento. Infine l’incidente d’auto di Helena… Comprenderà che di tanto in tanto possa essere piuttosto antipatico».

    Ho l’impressione che le donne come Maja usino il termine antipatico per dire stronzo furioso, ma sarà il tempo a dirlo.

    «Ho lavorato bene con persone dai caratteri più disparati», le assicuro. Compreso il padre di Etienne, che ci provava continuamente con me. Quel coglione era uno dei motivi per cui ho lasciato il mio ultimo lavoro. «Nulla mi spiazza».

    Insomma, tranne le molestie sessuali e i mocciosi che tentano di darti fuoco ai capelli.

    Mi fa un sorriso a labbra strette. «E questa è una delle ragioni che mi hanno spinto a richiamarla. Le ultime due tate erano troppo permissive, troppo sensibili, e troppo sensibili allo stress. Ciò di cui ha bisogno il re, ciò di cui le bambine hanno bisogno, è qualcuno che riesca a gestire qualsiasi… turbolenza. In inglese si dice Togliere l’acqua dalla schiena della papera, non è vero? Cioè farsi scivolare tutto addosso».

    «Proprio così».

    «E lei è in grado di affrontare tutto questo?»

    «Assolutamente».

    «Godt», dice Maja, congiungendo le mani in grembo. «Bene», traduce poi, facendomi capire che devo iniziare a imparare un po’ di danese.

    Non parliamo per il resto del viaggio, ma non mi dispiace, poiché la mia attenzione è completamente rapita dalle vie di Copenaghen. Fino a oggi non ero mai stata nel Nord Europa, quindi, questa è la prima volta che vedo qualcosa di vichingo e di hygge.

    Per ora, Copenaghen si è dimostrata all’altezza di tutti i miei sogni sulla Scandinavia. È decisamente incantevole, con le strade lastricate di ciottoli tra gli edifici tutti colorati di giallo, rosso corallo, e verde, e direi che qui ci sono le persone più attraenti che io abbia mai visto. Sono per lo più alti e biondi, con zigomi tanto marcati da poterci tagliare il vetro. La maggior parte di loro tiene in mano un cono gelato, mentre ti sfreccia spensieratamente accanto in bicicletta. Sembrano tutti molto sorridenti e felici. Immagino che sarei anch’io molto felice di mangiare un gelato e avere un fisico da top model.

    «Ed ecco il palazzo», dice Maja all’improvviso, facendomi subito guardare di nuovo in avanti. Non avevo idea che il palazzo fosse tanto vicino al centro della città. Per qualche motivo mi aspettavo che il palazzo reale fosse in una zona periferica: non proprio accanto al porto.

    Ma eccolo qui.

    «Questo è il palazzo di Amalienborg», dice Maja, mentre l’autista svolta su una strada laterale che costeggia un’imponente chiesa con cupola e un’ampia piazza, piena di turisti con il sorriso pronto per farsi scattare delle fotografie. La piazza è circondata da edifici. «Ci sono quattro palazzi, ma noi alloggiamo soltanto nell’ultimo: il palazzo di Cristiano ix».

    «È così vicino a… tutto», dico, guardando a bocca aperta dal finestrino i quattro palazzi identici costellati di magnifiche finestre e colonne di pietra. Non riesco a credere che si affaccino tutti in questo modo su una piazza pubblica. «Come fate a garantirvi un po’ di riservatezza? Dove giocano le bambine?»

    «Sul retro c’è un piccolo giardino. È sufficiente. E a dire il vero siamo tornati appena un mese fa. Questa è la nostra residenza d’autunno e d’inverno. L’estate la trascorriamo altrove».

    So solo che, se facessi parte della famiglia reale, non abiterei certo in un palazzo circondato da turisti che cercano di sbirciare da lontano in tutte le finestre. Me ne starei rintanata da qualche parte in un castello. Preferibilmente sulla spiaggia. Con un margarita in mano. E un maggiordomo a petto nudo tipo Jason Momoa.

    «Siamo arrivati», dice Maja quando l’auto si ferma in un piccolo cortile dietro al palazzo, mentre un cancello ben sorvegliato si chiude alle nostre spalle.

    D’accordo, basta con questi strani sogni a occhi aperti. Sono qui. E sono tremendamente nervosa.

    Esco dalla macchina, e Maja mi fa attraversare una grande porta di legno.

    Siamo in un piccolo ingresso e da qui mi guida, lungo pavimenti barocchi dalle ricche decorazioni, fino a una sala meravigliosa.

    «Si accomodi», mi invita Maja mentre entriamo, indicando una poltrona foderata di velluto turchese accanto a una scrivania d’epoca.

    Faccio come dice e mi guardo intorno. La stanza ha una forma allungata, ed è piena di libri che rivestono le pareti fino al soffitto, tra elaborate modanature, con a un’estremità un divano che pare molto comodo.

    «Questa è la biblioteca?», domando, fremendo dalla voglia di dare un’occhiata al dorso dei volumi. Probabilmente sono tutti scritti in danese, ma non m’importa. I libri sono una delle mie manie.

    «Questo è soltanto uno studio», risponde lei, sventolando la mano verso le pareti della sala come se fosse una cabina armadio.

    Oh. Soltanto uno studio.

    «Vado a prendere le bambine».

    «Le bambine?»

    «Conoscerà prima Clara e Freja», risponde, e potrei giurare di vederla accennare un sorriso. «Sanno valutare le persone meglio del re».

    Scompare, chiudendosi la porta alle spalle.

    Ottimo. Direi che ho fatto una buona impressione su Maja, altrimenti non sarei qui. Ma ora il mio lavoro è nelle mani di due ragazzine. In genere, tendo a piacere più alle femmine che ai maschi, e la maggior parte dei bambini mi trova simpatica dal primo momento. Anche se ci sono sempre delle eccezioni per cui occorre un bel po’ di persuasione. Di solito, in questi casi funzionano bene i dolciumi, ma non sono certa che la corruzione rientri nel protocollo del palazzo reale.

    Mentre rifletto su che tipo di caramelle esistano in Danimarca, si aprono le porte, e Maja entra tenendo per mano una bambina su ciascun lato.

    Non sono certa di cosa preveda l’etichetta quando si incontrano delle principesse, ma opto per la prudenza e mi alzo in piedi, facendo subito un inchino. Forse sarebbe stato meglio indossare un bell’abitino come loro, anziché i pantaloni del mio completo nero e la camicia incrociata blu. Vorrei sentirmi molto più sicura di me in ciò che sto facendo. Il modo in cui le accolgo mi fa quasi cadere.

    Una delle bambine, quella leggermente più alta, sembra esserne divertita. L’altra resta stretta al fianco di Maja, evitando di guardarmi negli occhi.

    «Signorina Aurora, ho il piacere di presentarle sua altezza la principessa Clara e sua altezza la principessa Freja della casata Eriksen», dice.

    «Onorata di conoscervi», le saluto, cercando di non avere la voce tremante per dissimulare la paura. Non ho alcuna esperienza di vere e proprie principesse, e benché queste siano ancora delle bambine, ho una fifa tremenda. «Io sono la signorina Aurora, della casata James».

    «Hai un accento strano», dice Clara, la più alta, in un inglese perfetto.

    «Anche voi», sottolineo con un sorriso.

    «Davvero?», domanda, alzando lo sguardo verso Maja per conferma.

    Maja fa un leggero cenno col capo. «La signorina Aurora viene dall’Australia».

    «Come i canguri?», chiede Freja a bassa voce. È la copia perfetta della sorella: ha solo la pelle leggermente più chiara e i capelli più biondi.

    «Eh sì, conosco tante storie sui canguri», la informo, e mi rendo conto di parlare con un tono alla Mary Poppins. Da dove mi sarà uscito?

    «Hai fatto tanta strada», dice Clara. «È dall’altra parte del mondo. Nell’altro emisfero».

    «Hai ragione», le rispondo. «Ma mi trovavo già qui vicino, in Francia. Sono in Europa da sette anni, e mi sono presa cura di molti bambini e bambine proprio come voi».

    «Oh», esclama Clara, alzando le sopracciglia sorpresa. «E a quale casa reale appartieni?».

    Scambio un’occhiata con Maja, che trattiene un sorriso. Questa è una ragazzina intelligente.

    «Vi lascio da sole perché possiate conoscervi», mi informa, avviandosi verso la porta. «Tornerò fra poco». Poi dice qualcosa in danese a Clara e Freja, che annuiscono obbedienti.

    La porta si chiude, e ora sono sola con loro.

    Faccio un respiro profondo e continuo a sorridere.

    Dato che Clara è stata la più loquace, pensavo che continuasse a chiacchierare e a farmi delle domande, ma entrambe si limitano a fissarmi, come in attesa. Come se dovessi fare qualche giochetto o chissà cosa.

    Per fortuna, sono brava a rompere il ghiaccio.

    «Quindi, tu ti chiami Clara», le dico, poi guardo la sorella. «E il tuo nome è Freja».

    Annuiscono insieme.

    «Lo sapevi che sei una dea, Freja?».

    Freja sbatte le palpebre.

    «Una dea?», ripete Clara. Osserva con circospezione sua sorella dalla testa ai piedi.

    «Freyja, certo. Nei paesi del Nord è la dea dell’amore e della bellezza».

    «Che schifo», commenta Clara, arricciando il naso.

    Ho fatto bene a non accennare al sesso e alla fertilità.

    «E anche dell’oro», aggiungo. E della guerra. E della morte. «E guida un carro trainato da gatti»,

    «Fico», dice con un sospiro Freja.

    Clara sembra ragionarci su. «Se Freja ha preso il nome di una dea, lo stesso deve valere per me. La mamma deve aver dato a tutte e due il nome di una dea».

    Uhm… Non esistono dee di nome Clara, ma se non l’assecondo si sentirà inferiore o, peggio, si arrabbierà con la madre defunta.

    Sarò costretta a tirare fuori una bugia dalla mia borsa di Mary Poppins.

    «Clara significa luminosa», le dico, e in fondo è la verità. «Tra gli dèi dell’antica Grecia, Elio era il dio del sole, ed era molto potente». E anche questo è vero. «La dea Clara era una delle sue figlie. Tu sei una figlia del sole». Falso.

    Clara è raggiante, e guarda Freja con fierezza. «Io sono una figlia del sole; tu sei una figlia dell’oro». Poi si volta verso di me e assottiglia lo sguardo. «Ma anche tu devi essere una dea. Aurora sembra un nome da dea».

    «Lei è una principessa», sussurra Freja. «La bella addormentata nel bosco. La principessa Aurora».

    «Di principesse qui ci siete solo voi due meraviglie», dico. Faccio loro un sorriso ammiccante. «Ma se volete considerarmi una dea, non farò obiezioni. Potrei essere una dea onoraria».

    «Vuoi venire a vedere la nostra camera?», domanda Clara, spalancando gli occhi verdi per l’eccitazione.

    «Sì, voglio mostrarti le mie bambole», dice Freja. «Ne ho avuta una nuova la settimana scorsa».

    «Tutte e due ne abbiamo ricevuta una nuova», sottolinea Clara, con una mano sul fianco.

    «Be’… Mi piacerebbe molto vedere le vostre bambole e la vostra camera, ma penso di dover restare qui».

    «Perché?», chiede Clara, guardandosi intorno. «Questa stanza è noiosa. Non ci viene mai nessuno».

    Alzo un sopracciglio. Chi mai potrebbe definire noiosa una stanza piena di libri?

    Oh, be’… La maggior parte della gente. E di certo delle bambine di cinque e sei anni. No, principesse.

    Domino l’impulso di dire che alla loro età i libri erano tutto ciò che desiderassi. Volevo imparare. Invece, vivevo al centro del terribile entroterra del Queensland, e per andare a scuola e tornare ero costretta a pedalare per un’ora sulla mia bicicletta sgangherata. La biblioteca era addirittura più distante, ed era l’unico posto in cui trascorrevo il mio tempo libero, cercando di apprendere quanto più potessi sul mondo. La conoscenza era tutto. Ed è ancora così.

    «Sono certa che la trovereste meno noiosa se provaste a leggere qualche titolo», dico.

    Clara attraversa la sala saltellando, facendo svolazzare l’abito in tessuto scozzese verde chiaro. Con la lingua stretta tra le labbra per la concentrazione, prende un libro dallo scaffale.

    «Stai attenta», l’avviso. «Non vorrai strapazzare i libri di tuo padre».

    «Strapazzare?», ripete, rivoltando tra le mani il pesante volume rilegato in pelle. «Non so cosa significa».

    «Ora che ci penso, è una parola sciocca. Non ci pensare».

    Mi mostra il libro. «Vedi? Questo è sul Diritto agli…». Osserva il titolo da più vicino. «…inizi dell’Ottocento in Germania. A me sembra noioso».

    D’accordo. Ha ragione. È probabile che questi libri si trovino nel palazzo reale fin dalla sua costruzione. Eppure, mi sorprende che sia in grado di leggere con tanta sicurezza.

    «Andiamo a vedere le mie bambole», dice Freja, avvicinandosi a Clara. «Andiamo, signorina Aurora».

    Le raggiungo, prendo il libro dalle mani di Clara e lo rimetto nella libreria: non si sa mai. Potrebbe trattarsi di un test per cui alle bambine è stato detto di prendere libri di valore inestimabile dagli scaffali. Forse intorno a noi ci sono delle telecamere e il re ci sta osservando da qualche sala di controllo centrale.

    «Dobbiamo restare qui», ripeto loro.

    «Perché?», domanda Clara.

    «Perché questo fa parte del colloquio. Capite? Perché vostro padre possa scegliere la vostra tata».

    «Colloquio? Pensavo che ora fossi tu la nostra tata».

    «No», dico prudentemente. «Sono certa che finora abbiate visto diverse tate o signore che volevano diventarlo. Non le avete incontrate per conoscerle proprio come stiamo facendo noi adesso?»

    «Sì, ma non ci piacevano», dice Clara, buttandosi a sedere sul divano. Freja la raggiunge. «Erano troppo vecchie e noiose, proprio come questi libri. Una sembrava addirittura una strega».

    «Era davvero una strega», interviene Freja con la sua vocina.

    «E puzzava», sottolinea Clara. «Neanche a nostro padre sono piaciute. Ma tu ci piaci, quindi ora sei tu la nostra tata».

    Le faccio un sorriso obliquo. Se solo fosse così facile. «Aspettiamo di vedere cosa ne pensa vostro padre».

    «Va bene», dice Clara radiosa, e poi corre verso la porta. Afferra il pomello con entrambe le manine, apre la porta e grida: «Maja! Padre! Venite a conoscere la nuova tata!».

    Oh cielo!

    Maja compare sull’uscio, ed è chiaro che stava aspettando appena fuori dalla porta. «Non c’è bisogno di gridare, Clara», la redarguisce, aggiungendo poi qualche parola in danese. Mi guarda con aria fiduciosa, con le mani giunti davanti a sé. «Devo supporre che sia andato tutto bene. In genere le tate vengono fatte uscire nel giro di pochi minuti».

    Lancio un’occhiata alle bambine. «Lo spero».

    «D’accordo, ragazze», dice loro Maja. «Tornate nelle vostre camere».

    «Possiamo portare la signorina Aurora?», chiede Freja.

    «No, lei deve restare qui per incontrare vostro padre. Ora andate».

    Le bambine trottano via lungo il corridoio.

    Gulp!

    Mi ero talmente adagiata sul fatto di avere instaurato un bel rapporto con le bambine da aver dimenticato l’ultimo, importantissimo, pezzo del puzzle.

    Il padre.

    Il re.

    Mi sento il corpo ricoperto di aghi e di spilli. Faccio un profondo respiro dal naso, mentre Maja mi comunica che andrà a chiamare il re. Scompare, e mi resta poco tempo per ricompormi prima che tornino.

    E ora che faccio?

    Mi siedo di nuovo sulla poltrona per potermi alzare ancora al suo ingresso?

    Faccio un inchino?

    Mi piego solo un po’?

    So di aver passato le ultime ventiquattro ore a fare ricerche al riguardo, ma ora non mi ricordo più nulla.

    Merda! Be’… Penso che mi siederò, e poi alzandomi farò una specie di inchino, e forse potrei anche inginocchiarmi su una gamba. Un attimo. L’inchino non prevede forse l’inginocchiarsi? Io…

    Rabbrividisco al suono acuto dei passi lungo il corridoio oltre la porta.

    Oh Dio!

    Mi siedo in fretta sulla poltrona, ricordandomi di piegare le gambe di lato e incrociarle all’altezza delle caviglie, alla Kate Middleton, e proprio in quel momento appare Maja.

    «Signorina Aurora, ho il piacere di presentarle sua maestà, il re Aksel della casata Eriksen».

    Fa un passo di lato.

    Entra il re.

    Mi sembra di vivere la scena fotogramma per fotogramma.

    Ho guardato decine di volte la sua foto prima di venire qui, quindi non dovrei essere sorpresa, ma lo sono.

    Sono quasi senza parole.

    Non solo perché è molto bello, con i tratti scolpiti e l’aspetto imponente. Ma anche per il mento volitivo e lo sguardo freddo e altero. Per il modo in cui al suo ingresso cambia l’energia nella sala, costringendoti a guardarlo e al tempo stesso rimproverandoti per averlo fatto.

    Ed è esattamente ciò che sto facendo: lo fisso a bocca aperta come una folle squinternata.

    «Piacere», riesco a dire, alzandomi in piedi e accennando un inchino. Non so neanche cosa preveda in questi casi il protocollo riguardo alle strette di mano, ma certo non tenderò la mia finché non lo farà lui per primo.

    Si ferma davanti a me, fissandomi quasi fossi una strana creatura in cui si è imbattuto durante la passeggiata mattutina. Mi guarda negli occhi, e mi mozza il respiro, come se le sue glaciali iridi azzurre fossero imbevute di magia nordica.

    Poi curva le labbra in un ghigno inconfondibile.

    «No, non lei. Non andrà affatto bene», dice concisamente in inglese. Prima che mi renda conto di cosa sta accadendo, si volta di scatto e si avvia ad ampie falcate verso la porta, passando accanto a Maja. «Chi altro c’è? Portamene un’altra».

    Resto a bocca spalancata, avvampo, e Maja mi lancia uno sguardo solidale, per poi voltarsi verso di lui che sta uscendo dalla sala. «Signore?»

    «Un’altra», lo sento dire seccamente mentre si incammina lungo il

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