L'anello di Hellcity - Vol.1
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Anteprima del libro
L'anello di Hellcity - Vol.1 - Francesco Di Giulio
Ringraziamenti
I
L’assalto
Decisero di muoversi. Era già la terza volta che rimandavano. L’attesa era frenetica. La notte perfetta. L’assenza della luna e il cielo coperto erano a favore. L’assalto avrebbe fatto scuola: una chiara dimostrazione di come comportarsi durante un’incursione. I cinque rivoluzionari erano uomini e donne preparati e addestrati; selezionati tra i migliori componenti dei villaggi vicini. Un valoroso esempio, una speranza per tutti. Non erano ammessi errori. Il capo era stato chiaro: «Signori, ciò che stiamo per compiere è qualcosa che ci appartiene, che è dentro di noi. Siamo qui per agire nel migliore dei modi, e dobbiamo farlo perché ne siamo in grado. Sacrificheremo il nostro sangue, per salvare ciò che è parte di noi, se sarà necessario».
Tacquero. Non per timore riverenziale, ma perché condividevano gli intenti morali dell’impresa. Avevano marciato per circa due giorni e si erano accampati a venti minuti di strada dalla città fortificata. Quel vecchio hangar, che reggeva ancora, chissà per quale strana legge della fisica, fu sfruttato come copertura e bivacco durante l’attesa.
«È lì dentro, ci siamo!».
Sospirò il guardiano più anziano. Le mura illuminate dai grossi fari a led delimitavano il perimetro di HellCity. Con una voce attenuata ma piuttosto profonda, il giovane inventore presente sul luogo sentenziò: «Questa volta desidero battere ogni record, in tre ore dentro e fuori, ci stai Tommy?».
Quest’ultimo trovandosi impreparato alla sfida, rispose con un sorriso non troppo convinto. Tommy era alla sua prima esperienza, non aveva mai partecipato a un’incursione lampo. Il pugno alzato del leader attirò l’attenzione di tutta la squadra. Era il segnale! Partirono.
«Prendi la fune!».
Con un tono sottile ma deciso, il leader diede l’ordine. Il guardiano prelevò dalla sacca del vice leader una fune di canapa spessa. Avevano deciso di scavalcare dalla parte più lontana rispetto al centro città. Distante ma più sicura. Era stata individuata come un punto debole
, protetto solo da una sola telecamera a visione diurna. Lanciata la corda, il rostro fece subito presa sulla parte superiore della parete. Dopo circa due metri e mezzo di volo atterrarono sul suolo senza problemi. L’addestramento costante e quotidiano eseguito nei villaggi serviva proprio a questo. Sapere attutire le cadute e sfruttare ogni superficie, senza rompersi l’osso del collo, era una delle prerogative del gruppo. Il leader, appena atterrato, alzò gli occhi e si trovò di fronte le sagome dei palazzi scuri. I contorni delle costruzioni si perdevano nell’oscurità. Avvertiva nitidamente la sensazione che quello fosse il punto di non ritorno. L’inventore studiò rapidamente i luoghi. Calcolò in una manciata di secondi il tragitto più rapido: «Ci troviamo a quattro chilometri dall’obiettivo, abbiamo un’ora e venti minuti, tra andata e ritorno, senza soste. Se tutto va bene in meno di tre ore siamo fuori!».
Strizzò l’occhio al giovane Tommy, per riaccendere la sfida. Quest’ultimo, alla sua prima esperienza, chiese ingenuamente: «Ci saranno delle squadre di vigilanza a controllare, vero?››
«Qui no», rispose il guardiano più esperto: «Man mano che ci avvicineremo al centro ci saranno telecamere a rilevazione di movimento, videocamere termiche e zone controllate a infrarossi. Per non parlare di quando arriveremo ai moduli abitativi. Lì è un vero e proprio campo minato!».
«Ti riferisci al Nocciolo, vero?».
«Sì. Il Nocciolo: la zona dei container».
«Come faremo a non farci vedere?», chiese il ragazzo.
Con tono saccente, uno di loro disse: «Abbiamo i nostri metodi ragazzo!».
Un sorriso ironico spezzò la tensione del gruppo.
«Andiamo!», ordinò il leader.
Attraversarono una vecchia pista di decollo e atterraggio di velivoli. Alcuni fori di arma da fuoco di grosso calibro attorniavano la scritta Off Limit Zone
sopra un cartello arrugginito. La pista si presentava in completo stato di abbandono e, situata lateralmente a circa duecento metri a Est, c’era la vecchia torre di controllo. Il radar era crollato adagiandosi su di un lato, anche i vetri che circondavano l’edificio erano ormai inesistenti, frammentati come ricordi sbiaditi. Il vecchio aeroporto privo di luci e telecamere di sorveglianza era un tratto perfetto da attraversare. Ampio e privo di ostacoli se non fosse stato per i grandi crateri che si erano formati in seguito ai bombardamenti del passato. Le erbacce erano alte intorno ai tratti non asfaltati e molte radici che vivevano sotto la lingua di cemento spingevano verso l’alto alla ricerca di ossigeno. La natura sa riprendersi ciò che in passato le è stato negato. Il gruppo si muoveva veloce, in maniera strategica e uniforme. Nessuno di loro era mai stato un soldato ma era come se tutti ne avessero innate doti. Avevano avuto le nozioni principali nel Villaggio dei Maestri. Un villaggio nel quale oltre a uomini colti e studiosi, risiedevano circa venti veterani che avevano vissuto in prima linea gli anni dell’ultima terrificante guerra nucleare.
«Nessuno può insegnarti a fare la guerra, portatrice di morte, ma è la guerra che ti insegna come poter vivere».
Era un pensiero che spesso giungeva nella mente di alcuni di quei combattenti. I rivoluzionari erano stati costretti dagli eventi a trasformarsi in incursori quasi quanto le temibilissime teste di cuoio della città. Continuarono l’avvicinamento a passo spedito verso la meta. La notte era ancora fonda e avevano senza dubbio più di quattro ore, prima che la luce dell’alba li rendesse visibili, stanandoli. D’un tratto i tre che erano in avanscoperta si immobilizzarono. Il leader alzò la mano e con il pollice verso il basso, ordinò al gruppo di stendersi immediatamente. Tommy che si muoveva a circa quindici metri dalla testa del gruppo, trovandosi anche lui disteso, decise di sbirciare. Il suo sguardo si pietrificò, il cuore prese a battere velocemente mentre il viso impallidì. Ciò che vide di fronte a sé e ai compagni era un branco composto da cinque grossi cani imbastarditi con dei lupi di montagna. Erano dinnanzi a loro e ringhiavano in maniera minacciosa. Digrignavano i denti mostrando gli affilati canini che non assaporavano carne e ossa da diverso tempo. Pronti a sferrare un feroce attacco. Il primo pensiero che Tommy ebbe fu quello di non voler essere il banchetto per quelle bestie inferocite. Pur essendo il più piccolo non era di certo il più timoroso. Il leader si avvicinò strisciando al terzo commilitone, una donna che non faceva trapelare alcuna preoccupazione. Anche quello che stava accadendo era un inconveniente calcolato. Avevano una soluzione alternativa. Senza neanche parlare, la ribelle prese dei bocconi di carne mista a una soluzione calmante di valeriana e radici di iperico; un preparato che avrebbe abbassato i livelli di adrenalina. La dose era calibrata per non essere letale ma efficace. Lanciò quel pastone che emanava odore di carne e di olio. Tutta la squadra sapeva che quei cani non erano affatto curati dagli uomini della città. Solitamente venivano crudelmente abbattuti.
«L’odio ha lentamente portato la natura ad alienarsi», rifletté ad alta voce il guardiano. Il divieto del regime cittadino proibiva il possesso di quegli animali un tempo erano considerati domestici. Chiunque avesse trasgredito a ciò avrebbe avuto come pena la reclusione nelle celle della città per almeno un mese e la soppressione dell’animale. Mentre quei cani affamati divoravano voracemente quel miscuglio, la squadra si allontanò. Fu allora che Tommy chiese perché ci fosse quella strana norma di vietare la compagnia di animali. Il leader rispose: «Gli animali fanno compagnia, distraggono l’uomo dai problemi e sono fedeli amici. Molte persone in passato riuscivano a guarire da forti crisi depressive semplicemente avendo accanto un cucciolo da curare. Il cuore di chi possiede animali e li cura si intenerisce e di controparte gli animali donano amore incondizionato. Il regime non vuole che la gente della città venga distratta o abbia compagnia e amore. Semplice».
«Come si può pensare di vietare la compagnia di un animale! Ma allora perché i cittadini non si lamentano di questa situazione?».
La risposta arrivò immediatamente ma il contenuto fu spaventoso: «Perché non sanno che è un incubo! Stanno privando questi cittadini di ogni gioia e la cosa terrificante è che loro non se ne rendono conto. I cambiamenti radicali e repentini vengono avvertiti dalla popolazione ma la lenta e progressiva stretta della cinghia, viene percepita troppo tardi, quando ormai non ci si può più liberare».
La notte era nerissima, il freddo pungente. Proseguirono il cammino fino ai primi palazzi che una volta ospitavano uffici e agenzie commerciali. Adesso non erano altro che magazzini stracolmi di scartoffie, spazzatura risalente a decenni di incuri; erano il quartier generale dei ratti. La prima videocamera collegata a circuito chiuso era una FaberOne fissa a infrarossi che inquadrava la strada centrale con un’apertura d’angolo di circa centoventi gradi. Significava che vi era certamente un’estremità cieca. Il dettaglio di quella falla del sistema era noto ai rivoluzionari, in particolar modo agli inventori del commando che, calcolando l’angolo di puntamento, riuscirono a trovare quale parte fosse scoperta. Superato l’angolo buio, la squadra arrivò di fronte al muro di un vecchio ospedale. L’ambiente che si presentava era desolatamente dimenticato. Un’esatta fotografia scattata al momento della fuga, l’immagine cupa della distruzione rimasta sepolta negli anni. Il leader si voltò: «A che distanza siamo dall’obiettivo?».
«Circa venticinque minuti di cammino», rispose l’inventore.
«Saliamo su questa scala di emergenza e arrampichiamoci. Dai tetti saremo meno vulnerabili», replicò il capo.
Fu Tommy il primo a salire. Il ragazzo agitato dall’adrenalina della sua prima azione, sentiva il metallo sotto le mani e poteva avvertire l’odore acre della ruggine. Arrivato in cima rimase di stucco alla vista della città. Per lui, appena ventenne e da poco nel mondo dei rivoluzionari, l’incursione all’interno delle mura era il sogno che aveva sempre voluto vivere. Finalmente si trovava lì e sentiva di essere un elemento importante del gruppo. Fu sorpreso da quella visione nonostante gli anziani gli avessero anticipato la storia della maledetta città. La sua curiosità prese parola: «Quindi ora qui sui tetti siamo totalmente al sicuro?».
La voce ravvicinata del leader dietro di lui lo sorprese, facendolo sobbalzare: «Sì Tommy. Sono talmente convinti che le loro regole siano così intimidatorie che non considerano l’ipotesi che qualcuno le infranga».
«E invece noi le stiamo infrangendo!».
«Noi non siamo cittadini, siamo rivoluzionari, non scordarlo mai giovanotto!».
Giunsero sopra il Nocciolo, il luogo designato. Un complesso di centinaia di unità abitative uniformi e terrificanti. Un luogo privo di anima. Precisamente il nome per gli addetti alla sicurezza era Dormitorio 14
. Tommy ne era stupito. Una struttura ad alveare composta di cemento e ferro. Sicuramente era una costruzione del secolo passato, ma con ogni probabilità era stata rinnovata e ridefinita dagli uomini del regime. In ogni unità abitativa si trovavano rispettivamente uno o due individui. Le famiglie che vivevano in queste unità non condividevano gli stessi vani, questo era realizzato per spezzare volutamente il vecchio concetto di struttura e unione familiare. Separare forzatamente persone che si amano crea, in loro, insicurezza e alienazione. Presero due corde per discendere in arrampicata. Si calarono rispettivamente il vice leader e il robusto guardiano. Contarono la decima finestra a partire dall’alto. L’obiettivo era lì, lo videro. Dormiva teneramente. Si trovavano a circa tre metri dal suolo e altrettanti sei dal tetto quando la loro attenzione fu attirata da un ronzio proveniente dalle loro spalle. Inizialmente quel sibilo divenne più forte quasi a ricordare una vibrazione dell’aria in quel cielo nero e impenetrabile. Dal cornicione del tetto le uniche parole lanciate dal leader furono secche e dirette ai due compagni appesi alla fune: «Droni! Lanciatevi».
I due improvvisati scalatori, senza pensarci troppo, lasciarono la presa cadendo rovinosamente a terra. Si lanciarono verso un angolo buio della strada sottostante. Individuarono una grata in ferro, utilizzata in passato per l’ispezione dei condotti sotterranei. Riuscirono ad alzarla facendo leva con un attrezzo a uncino. Entrarono con l’affanno della paura e l’impeto della fuga. Una volta dentro e poco prima di chiudere quella che sarebbe stata la loro gabbia, videro corrergli incontro altri tre membri del commando. Ayda il leader, Tommy che correva come se avesse incontrato la morte in faccia e per ultimo l’inventore. Arrivarono tutti di corsa, la grata fu sollevata per lo spazio necessario all’entrata. I cinque si ritrovarono nuovamente uniti. Salvi. Prigionieri di se stessi al di sotto del nocciolo. Prigionieri, ma ancora liberi.
II
Io sono Jayson
Erano le sette del mattino e il suo polso