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L ombra del ricatto (eLit): eLit
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E-book421 pagine5 ore

L ombra del ricatto (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Abbie DiAngelo è una donna indipendente e soddisfatta. Si è rifatta una vita dopo il divorzio, insieme al piccolo Ben. È una donna di successo che si è lasciata alle spalle gli sbagli propri e della madre. O così pensa, finché un giorno Ian McGregor, figlio del patrigno, le compare davanti con una rivelazione che trasforma subito in un ricatto. Una menzogna che potrebbe rovinare la vita di sua madre per sempre. Ma un pericolo ancora più grave minaccia lei e suo figlio. E stavolta forse, John Ryan, detective di polizia che si occupa del caso, non potrà fare nulla per salvarla.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2016
ISBN9788858956717
L ombra del ricatto (eLit): eLit
Autore

Christiane Heggan

Nata e cresciuta a Nizza, dove ha frequentato l'università, prima di dedicarsi alla scrittura ha lavorato come giornalista. Della stessa autrice Harlequin Mondadori ha pubblicato anche Sospetto, Voglia di giustizia, Il tempo del riscatto, Chat line, Fiducia cieca, Agguato nel parco, Complotto al potere, Striscia pericolosa e L'ombra del ricatto.

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    Anteprima del libro

    L ombra del ricatto (eLit) - Christiane Heggan

    piano.

    1

    3 giugno

    Princeton, New Jersey

    «Vai così, Ben!»

    Abbie DiAngelo balzò in piedi e applaudì entusiasticamente mentre la palla che suo figlio aveva appena colpito volava al di sopra del campo.

    «Vai, vai, vai!»

    La folla gridò e applaudì mentre due giocatori raggiungevano la casa base e Ben conquistava la terza base con uno spettacolare scivolone.

    L'arbitro allargò le braccia orizzontalmente per segnalare che l'azione era valida.

    Sorridendo, Ben si rialzò e ricevette le congratulazioni dell'allenatore, prima di guardare verso le tribune. Abbie gli indirizzò un segnale con il pollice alzato. In risposta, il bambino si toccò la visiera del caschetto, ma lei sapeva che, sotto tutta quella compostezza, era pazzo di gioia. La sua battuta era stata un po' scarsa, in precedenza, ma, grazie a Brady Hill, il giovane aiuto chef del Campagne che un tempo aveva sognato di giocare per gli Yankees, la tecnica di Ben era migliorata moltissimo nelle ultime due settimane.

    Un quarto d'ora dopo, gli imbattuti Princeton Falcons tornavano verso le tribune, dai loro orgogliosi genitori. Quando Ben si fermò a scambiare qualche parola con un compagno di squadra, Abbie lo osservò per un momento, provando il familiare nodo alla gola. Era così fiera di lui. A nove anni, era un bambino aperto, cordiale. Per un po', la paura di allevare un figlio da sola era stata così forte che aveva addirittura messo in dubbio la sua decisione di divorziare da Jack. Ma, come le aveva fatto notare sua madre, vivere le tensioni di un cattivo matrimonio era spesso molto più dannoso, per un bambino, che passare attraverso un divorzio. E se c'era una persona che sapeva quanto poteva essere distruttivo un cattivo matrimonio, quella era Irene.

    Era strano come la sua vita aveva seguito, in molti sensi, un corso simile a quella di sua madre, pensò Abbie. Entrambe avevano fatto alcune scelte sbagliate, eppure erano sopravvissute, concentrandosi esclusivamente sui figli, e uscendo dalle rispettive vicissitudini più forti di prima.

    Con la mazza sulla spalla, Ben corse verso di lei. Tranne che per il carattere solare, che aveva ereditato da Abbie, Ben era il ritratto di suo padre. Aveva gli stessi capelli color fiamma e i grandi occhi azzurri di Jack, e la stessa spruzzata di efelidi sul naso.

    «Hai visto quel triplo, mamma?» chiese, con gli occhi pieni di infantile eccitazione. «E il doppio di prima?»

    Il primo impulso di Abbie fu quello di abbracciarlo. Giusto in tempo ricordò che ora che aveva nove anni, abbracci e baci erano riservati a quando erano a casa, perciò si accontentò di arruffargli i capelli.

    «Sicuro che ho visto. Sono fiera di te, giovanotto.»

    «Jimmy dice che le mie tre battute ci hanno fatto vincere la partita.»

    Abbie scelse con cura le parole della risposta.

    «Sei stato fantastico, ma ricordi di che cosa abbiamo parlato, l'altro giorno? Il baseball è un gioco di squadra. Tutti i giocatori hanno contribuito alla vittoria.»

    Ben annuì, anche se un po' di malavoglia.

    «È quello che ha detto l'allenatore.»

    Abbie sorrise, assaporando quel momento con suo figlio. Anche se al Campagne l'ora di cena era cominciata da un pezzo, e sarebbe dovuta tornare al ristorante, non volle mettergli fretta. Brady l'avrebbe sostituita.

    «Penso che quel triplo meriti un premio speciale. Che ne dici di passare da Flo's per un cono gelato, prima che ti riporti a casa?»

    «Prima di cena?»

    «Per questa volta, vivremo pericolosamente» annunciò lei, convinta.

    Ben la compensò con un altro sorriso.

    «Fantastico.»

    Dimenticando la regola di non toccarlo davanti ai suoi amici, Abbie gli passò un braccio attorno alle spalle, e insieme si incamminarono verso la sua Acura rossa. Proprio in quel momento, fu colta da una sensazione che non provava da quando il suo ex marito aveva minacciato di toglierle Ben.

    Lievemente allarmata, si guardò attorno. Un uomo, a breve distanza da lei, era appoggiato alla recinzione che circondava il campo da gioco. Benché indossasse un paio di jeans, una polo e scarpe da tennis, l'abbigliamento tipo dei papà della Little League, c'era in lui qualcosa che non quadrava. Forse perché era solo. O forse era il modo in cui la guardava. Il buonsenso le diceva che probabilmente era del tutto inoffensivo, un appassionato di baseball giovanile. Ma, di quei tempi, con tanti predatori sguinzagliati per le strade, non era male essere prudenti. Se lo avesse rivisto alla prossima partita, lo avrebbe segnalato all'allenatore di Ben.

    Cercando di scacciare quel senso di disagio, Abbie accentuò la stretta sulla spalla del figlio, e non lo lasciò andare fino a quando non raggiunsero la macchina.

    Ian osservò Abbie salire in macchina, una Acura SUV rosso vivo, soddisfatto di vedere che l'aveva innervosita. Gli piaceva innervosire le persone. Rendeva le piccole sorprese che aveva in serbo per loro, quali che fossero, molto più gratificanti.

    Dal ristorante, aveva seguito la sorellastra al campo di baseball e si era reso rapidamente conto che aveva un figlio nei Falcons, la squadra in quel momento prima in classifica.

    Scoprire chi era, tuttavia, non era stato facile, poiché nessun giocatore aveva il nome DiAngelo scritto sulla maglia. Era stato solo quando aveva sentito Abbie applaudire e chiamare il suo nome che finalmente lo aveva visto: un ragazzino dai capelli rossi, con le lentiggini e un grande sorriso. Sulla maglia aveva il nome Wharton a grandi lettere nere.

    Il bambino era stato una sorpresa. Abbie non lo aveva menzionato, nell'intervista, e niente di ciò che Ian aveva letto sul sito Internet del ristorante, prima di lasciare l'Ohio, gli aveva fatto pensare che avesse un figlio.

    O che fosse sposata.

    Quell'idea non gli piaceva. Un uomo avrebbe complicato le cose. D'altro canto, non le aveva visto una fede al dito, perciò forse era divorziata. O vedova. O forse era una di quelle dannate femministe convinte che si facevano inseminare artificialmente, solo per dimostrare al mondo che non avevano bisogno di un uomo per crescere un figlio.

    In un modo o nell'altro, non si lamentava. Finora, tutto era andato più o meno secondo il suo piano. Perfino Rose, la buona, affidabile Rose, aveva finito per perdonarlo. Non lo aveva esattamente accolto a braccia aperte, però. Anzi, c'era voluto un certo impegno da parte sua per impedirle di sbattergli la porta in faccia. Ma alla fine lo aveva fatto entrare.

    «Intendo cambiare vita» le aveva detto, con tutta la sincerità di cui era capace. «Me ne vado da questa miserabile città e ricomincio da capo.» Le aveva lanciato una lunga occhiata seria. «E voglio che tu venga con me, Rose.»

    A quel punto, le aveva spiegato che aveva rintracciato la sua sorellastra, e sperava che gli prestasse un po' di denaro... abbastanza per affittare un appartamento decente e comprare degli indumenti nuovi, in modo da poter cominciare a cercare un lavoro. Non le aveva detto niente di più. Rose era un tipo strano. Era esageratamente onesta, e meno sapeva, meglio era.

    Alla parola lavoro, lei aveva assunto un'aria dubbiosa, e a ragione. In passato, l'incapacità o, come la definiva lei, l'indisponibilità di Ian a trovare un lavoro erano state oggetto di interminabili discussioni fra loro.

    Ma anche se Ian era convinto di meritare un Oscar per la sua commedia, c'era voluto un bel po' per convincere Rose a lasciare Toledo, dov'era nata e cresciuta. E ancora di più per indurla a finanziare il viaggio a Princeton, New Jersey.

    «Consideralo un investimento» le aveva detto Ian, accarezzandole una gamba in quel modo lento, sexy, che a Rose piaceva tanto. «Un investimento su di noi, sul nostro futuro insieme.»

    Quelle ultime parole avevano operato la magia. Rose si era sciolta nelle sue braccia, e due giorni dopo aveva dato la disdetta al padrone di casa e si era licenziata dal salone di bellezza dove lavorava come manicure.

    La cattiva notizia era che Rose non aveva un gruzzolo sostanzioso, come lui aveva sperato.

    E poiché non sapeva quanto avrebbe impiegato Abbie a trovare il denaro, avrebbero dovuto economizzare ogni centesimo. Anche quel meschino motel sulla statale costava un occhio.

    Dopo essersi registrati al motel, quello stesso giorno Ian aveva preso in prestito la vecchia Oldsmobile di Rose ed era andato a Palmer Square per dare un'occhiata da vicino al ristorante di Abbie. Era rimasto molto colpito. La piazza era uno di quegli eleganti centri commerciali costruiti attorno a un piccolo parco che gli abitanti locali chiamavano il Green, e circondato da boutique alla moda e costosi ristoranti.

    Dal ristorante era andato all'ufficio delle imposte in cerca dell'indirizzo della sorellastra, e anche di quello di Irene. Rendendosi conto che era un forestiero, un impiegato sollecito aveva tirato fuori una mappa e gli aveva mostrato dove si trovavano entrambe le strade.

    Se il successo si poteva misurare dalle dimensioni di una casa, allora Abbie aveva davvero fatto fortuna. La sua casa era grande il doppio di quella dei McGregor a Palo Alto ed era circondata da diversi acri di terreno, per la maggior parte fittamente alberati. Irene, d'altro canto, viveva in una casetta a due piani, ben tenuta, ma modesta, in un quartiere popolare.

    Staccandosi dalla recinzione, Ian si diresse verso la Oldsmobile. Aveva sentito abbastanza della conversazione di Abbie con suo figlio da sapere che lo stava portando a prendere un gelato, e poi a casa. Non aveva detto che cosa intendeva fare dopo, ma lui avrebbe scommesso che sarebbe tornata al ristorante per l'ora di punta serale.

    Non avendo nient'altro da fare, salì in macchina e tornò a Palmer Square, trovò un posto in un piccolo parcheggio sul retro del ristorante e aspettò. Infatti, mezz'ora dopo, vide arrivare la Acura rossa.

    Fingendo di consultare una carta stradale, Ian osservò la sorellastra scendere dalla macchina e affrettarsi verso il ristorante. Sarebbe stata una lunga attesa, fino all'ora di chiusura, ma non gliene importava. Ian era un uomo paziente... quando la posta era abbastanza alta.

    3 giugno

    El Paso, Texas

    «No, Arturo.» Tony Garcia si interpose tra il fratello maggiore e la borsa da viaggio sul letto. «Tu non andrai a cercare McGregor.»

    Arturo, una spanna buona più alto di lui, e cinquanta chili più pesante, lo spinse da parte.

    «E chi me lo impedirà?»

    «Io.»

    «Lasciami perdere, Tony, okay?» Arturo gettò una manciata di indumenti nella borsa. «Ho aspettato dieci anni per farla pagare a quel bastardo e, perdio, la pagherà.»

    «Non vale la pena di tornare in galera per lui.»

    «Non tornerò in galera.»

    «Ci tornerai, se lo uccidi.»

    Arturo andò a piazzarsi davanti a Tony. Era un omone enorme, con la forza di un toro e lo stesso caratteraccio. Appariva ancora più minaccioso, adesso che si era rasato la testa e si era fatto crescere una barbetta da capra.

    «Quello che faccio a McGregor è affar mio, fratello.»

    Purtroppo, non era solo affar suo, pensò Tony con un sospiro. Non che lui volesse essere la balia di suo fratello, ma non aveva scelta. Sei mesi prima aveva promesso al loro padre, in punto di morte, di tenere Arturo fuori dai guai, e intendeva mantenere la parola data.

    «Arturo, sii ragionevole» disse, facendo appello a un lato di suo fratello che non esisteva. «Sono passati dieci anni. È tempo di perdonare e dimenticare.»

    Arturo lo fulminò con lo sguardo.

    «Se lo facessi, l'intero barrio riderebbe di me. Perderei la mia influenza.»

    «Allora lo fai solo per salvare la faccia?»

    «Lo faccio per riavere il mio denaro. Trentamila bigliettoni che quel verme mi ha rubato. Li rivoglio, amico.»

    «Mi stai dicendo che tutto quello che vuoi sono i tuoi trentamila dollari?»

    Arturo gettò nella borsa un paio di stivali malconci.

    «Tanto per cominciare.»

    «Allora dammi la tua parola che non lo ucciderai.»

    «Questo dipende da McGregor. Se non mi prenderà in giro, forse lo lascerò vivere. In caso contrario...»

    Arturo si strinse nelle spalle.

    «E dopo? Sarai arrestato e tornerai in prigione. Che cosa ne sarà della mamma? L'ultima volta è quasi morta per il dispiacere.»

    «Starà benissimo, ha te.»

    «Niente affatto.»

    Arturo si fermò, con una maglietta in mano.

    «Che cosa diavolo intendi dire?»

    «Intendo dire che non sarò qui, Arturo. Se insisti per andare a cercare McGregor, allora verrò con te.»

    «Non ho bisogno di una babysitter!» sbraitò suo fratello.

    «Abituati all'idea, perché io ci sarò.» Tony gli puntò l'indice contro il naso. «Alle tue costole, per farti rigare diritto. Hai capito?»

    Prima che Arturo potesse rimettersi dalla sorpresa, Tony uscì dalla camera di suo fratello, desiderando di poter semplicemente proseguire per la sua strada e lasciare Arturo al suo destino. Ma la verità era che Tony voleva bene a quel grosso farabutto. Ed era in debito con lui per averlo sempre protetto quando erano bambini, sempre pronto ad andare in sua difesa e spaventare a morte chiunque avesse avuto l'audacia di assestare un pugno al più giovane dei Garcia.

    Cresciuti nel barrio, entrambi i ragazzi si erano lasciati convincere a unirsi a una banda di strada quando Tony aveva solo quattordici anni e Arturo diciannove. Quattro anni dopo, disgustato da tutta quella violenza, Tony aveva lasciato i Blades ed era andato a lavorare nel negozio di alimentari dei genitori. Aveva perfino cominciato a seguire alcuni corsi al college locale. Arturo, d'altro canto, aveva già in programma di diventare il prossimo capo della banda. Poco dopo la sua iniziazione come nuovo jefe dei Blades, un uomo ben vestito, dalla parlantina sciolta, aveva avvicinato Arturo e gli aveva detto di essere un potente signore della droga, che cercava qualcuno che avesse del fegato per gestire il suo centro di distribuzione a Toledo, Ohio.

    Preoccupato che il fratello fosse destinato a una vita di crimine, Tony aveva cercato di impedirgli di accettare l'offerta, ma Arturo aveva riso di lui.

    «Sei impazzito, Tony?» Aveva allargato le braccia, deciso a spiegargli il suo punto di vista. «Eccomi qui, un qualunque capo di una banda, senza soldi e senza futuro. Non ho intenzione di rimanere povero per tutta la vita.»

    Aveva visto giusto circa il denaro, perché, nel giro di un mese, aveva cominciato a guadagnare mille dollari alla settimana, esentasse, e a fare la bella vita. Gli affari andavano così bene, a Toledo, che si era trovato un socio, un certo Ian McGregor.

    Due anni dopo, McGregor era stato arrestato, e poi rilasciato quando aveva consegnato Arturo al procuratore distrettuale su un piatto d'argento.

    Benché Arturo avesse giurato di saldare il conto con McGregor, un giorno o l'altro, Tony aveva sperato che il fratello a un certo punto avrebbe dimenticato il tradimento dell'ex socio e continuato la sua vita. Ma non aveva avuto tanta fortuna. Non appena Arturo aveva sentito dire che McGregor era uscito di prigione, aveva cominciato a preparare la valigia.

    Imprecando fra i denti, Tony entrò in camera sua, prese la propria borsa da viaggio dall'armadio e la gettò sul letto. Impedire a suo fratello di uccidere McGregor non era un compito a cui aspirava, ma, se non ci pensava lui, chi lo avrebbe fatto?

    Abbie definiva la cucina del Campagne il centro nevralgico del ristorante, e chiunque ci fosse entrato sarebbe stato d'accordo. Era un posto rumoroso, dove i ritmi frenetici erano sufficienti a far pensare al visitatore che era una fortuna non avere scelto di entrare nel ramo della ristorazione.

    Lei era del parere opposto. Per quante ore passasse quotidianamente in cucina, o per quanto fosse esausta alla fine della giornata, non era mai stanca dell'ambiente e delle sfide che erano diventati una parte così integrante della sua vita.

    Soddisfatta di vedere che la cucina funzionava con l'efficienza e la precisione di una macchina bene oliata, prese il grembiule da un gancio e sorrise a Brady.

    «Com'è andata?» le chiese lui ansiosamente.

    Il suo aiuto chef era un ragazzo dalla spiccata personalità, bello come una star del cinema, con corti capelli biondi alla Brad Pitt e un sorriso accattivante. Un gomito fratturato aveva messo fine a una promettente carriera nel baseball, e costretto Brady a esaminare nuove opzioni. Spinto dagli amici, che amavano la sua cucina, si era iscritto a una scuola locale e, dopo il diploma, aveva accettato un posto di secondo assistente dello chef in un ristorante di Philadelphia. Tre anni prima, quando Abbie aveva aperto il Campagne e stava cercando un aiuto chef, le era capitato fra le mani il suo curriculum e aveva immediatamente fissato un colloquio. Dopo i primi dieci minuti, aveva saputo di avere trovato il suo uomo. Andavano talmente d'accordo che ben presto la barriera fra datore di lavoro e dipendente era crollata, ed erano diventati ottimi amici.

    Brady aveva passato lunghe ore con Ben, aiutandolo a migliorare la sua battuta, perciò Abbie gli fece un dettagliato resoconto della partita, sapendo che lui non si aspettava niente di meno. Quando gli raccontò lo spettacoloso triplo di Ben nell'inning conclusivo e delle tre battute vincenti, Brady sorrise da un orecchio all'altro.

    «È pronto per l'all star team» affermò con sicurezza.

    Abbie si legò il grembiule attorno alla vita.

    «Non dirlo a lui, okay? Non voglio che rimanga deluso, se non sarà scelto.»

    «Se non sarà scelto, dirò due paroline al suo allenatore.»

    Abbie gemette.

    «Oh, no. Stai diventando uno di quei padri che pensano che il loro figlio sia il migliore della Little League

    Brady rise.

    «Va bene, va bene, starò zitto.»

    Insieme, Abbie e Brady fecero il giro del grande locale pieno di attrezzature in acciaio inossidabile, consultando i vari foglietti delle ordinazioni, sollevando coperchi, fiutando, assaggiando, sbirciando di tanto in tanto nel forno.

    «È successo qualcosa di insolito, mentre ero via?» chiese Abbie, lanciando un'occhiata alla sala affollata del ristorante da sopra le porte oscillanti.

    «Il rettore dell'università e sua moglie sono al tavolo tre. Oggi festeggiano il venticinquesimo anniversario di matrimonio.»

    Abbie riconobbe il professore dai capelli argentei. Sia lui sia la moglie erano clienti abituali e generosi sponsor dell'annuale festival della cucina, i cui proventi andavano al rifugio per donne maltrattate della città.

    «Mandagli una bottiglia di champagne, per favore. Omaggio della casa. E digli che più tardi passerò ad augurargli un felice anniversario.»

    Brady fece schioccare le dita all'indirizzo di un cameriere di passaggio e ripeté le istruzioni di Abbie.

    «Oh» continuò poi, ammiccando. «Quasi dimenticavo. C'è il tuo ammiratore.»

    Abbie sollevò un sopracciglio con aria interrogativa.

    «Ho un ammiratore?»

    «Non fare l'innocentina con me. Sai benissimo di chi sto parlando. Non ce l'ha fatta a venire a pranzo, oggi, perciò è venuto a cena. E naturalmente ha insistito per sedersi al solito tavolo. Ho dovuto fare qualche spostamento, ma ho pensato che ne valesse la pena, visto che è un così buon cliente.»

    Lei non ebbe difficoltà a scorgere l'elegante professore in pensione seduto in una piccola alcova. Oliver Gilroy, che aveva lasciato la natia Inghilterra quindici anni prima per insegnare letteratura inglese negli Stati Uniti, era un uomo che apprezzava la buona cucina e tutto ciò che rendeva piacevole la vita. In una sala affollata, non spiccava in modo particolare. Era piccolo e snello, con i capelli grigi ben pettinati e il tipo di lineamenti che si dimenticava in fretta. Tuttavia, in qualche modo era eccentrico, arrivando sempre al ristorante alla medesima ora, mezzogiorno in punto, chiedendo lo stesso tavolo e ordinando sempre lo stesso vino, un esclusivo chardonnay australiano, indipendentemente da ciò che mangiava.

    Era vero che sembrava essersi affezionato ad Abbie, ma lei sospettava che quell'attaccamento nascesse piuttosto dalla somiglianza con sua figlia, di cui le aveva mostrato una fotografia, che da idee romantiche. Erano state le sue buone maniere, unite al raffinato accento inglese, a indurre Brady a soprannominarlo professor Higgins, il nome dell'indimenticabile personaggio di My Fair Lady.

    «Credo che abbia portato un altro regalo a Ben» bisbigliò Brady.

    Abbie guardò il modellino in legno di carrozza ferroviaria accanto al bicchiere del professore. Ora che era in pensione, Gilroy poteva dedicare più tempo a una sua vecchia passione, i trenini, che lui costruiva pazientemente usando kit prefabbricati.

    Dopo aver scoperto che Abbie aveva un bambino, aveva portato a Ben una locomotiva Big Boy che aveva appena completato, e in seguito un tender per la legna da ardere, un vagone per il bestiame, e diversi tipi di carri merci.

    Benché Abbie avesse tentato di scoraggiarlo, lui continuava ad accrescere la collezione, affermando che lo avrebbe fatto fino a quando Ben non avesse posseduto un set completo dei vagoni della Southern Pacific Railroad, uno dei preferiti del professore.

    Sarebbe passata dal suo tavolo, più tardi, e visto che conosceva la sua passione per i cream puffs, avrebbe chiesto a Brady di riempire una scatola dei suoi dolci favoriti da portare a casa.

    Brady ridacchiò.

    «Non c'è niente come fare delle gentilezze al figlio per arrivare alla madre, eh?»

    «Per l'amor del cielo, Brady, vuoi smetterla una buona volta? Quell'uomo è abbastanza vecchio da poter essere mio padre.»

    «E allora? È istruito, non brutto, ricco, a quanto ho sentito. E non è che una piccola storia d'amore guasterebbe, nella tua vita.»

    Abbie fece una smorfia.

    «Grazie per avermelo ricordato.»

    «Sai che cosa intendo dire.»

    «Sì, sei convinto che conduca una vita noiosa.» Abbie gli assestò una pacca scherzosa sul braccio. «Mettiamo al lavoro la tua mente creativa su qualcosa di realmente valido... come quell'oca arrosto per il tavolo uno.»

    Verso le undici, l'ultimo cliente soddisfatto era finalmente uscito, il personale se n'era andato e la cucina era immacolata come lo era stata al mattino. Sola nella sala deserta del ristorante, Abbie era in piedi al registratore di cassa a contare gli scontrini della giornata. Quattordicimila dollari. Non male per un lunedì sera.

    Prese da sotto la cassa la busta che usava per fare il quotidiano versamento in banca. Mentre vi introduceva il denaro, si guardò attorno nella sala. Anche ora, dopo tre anni che era proprietaria del Campagne, provava sempre un senso d'orgoglio al pensiero di tutto ciò che aveva realizzato in un tempo così breve. Le circostanze, piuttosto che una scelta precisa, avevano fissato la strada imboccata dal suo lavoro. Come moglie e madre di un bambino piccolo, era stata soddisfatta di gestire un servizio di catering che le permetteva di scegliere i propri orari. Ma, dopo il divorzio da Jack, si era resa conto che per guadagnare sul serio doveva porsi obiettivi più alti. E questo significava aprire un suo ristorante, un sogno che aveva accarezzato fin dal suo primo giorno al Culinary Institute.

    Sulle prime, il pensiero di correre un simile rischio l'aveva spaventata, però, a poco a poco, mentre faceva l'inventario delle sue capacità, della sua determinazione e delle sue finanze, la paura si era trasformata in eccitazione. Poteva farlo. Lo avrebbe fatto.

    Usando il denaro ottenuto con l'accordo di divorzio, più quello che era riuscita a risparmiare nel corso degli anni, aveva finanziato una parte dell'iniziativa e convinto la sua banca a prestarle il resto.

    Il primo anno non era stato facile. E neppure il secondo. Con tanti ristoranti già bene avviati nell'area di Princeton, il Campagne aveva impiegato parecchio tempo ad attirare l'attenzione della clientela. Ma, grazie ad alcune buone critiche e al passaparola, adesso era uno dei locali più alla moda nel raggio di oltre trenta chilometri.

    Diversamente da alcuni proprietari di ristoranti tipici francesi, Abbie aveva resistito alla tentazione di riempire la sala con i prevedibili vasi di terracotta, mazzi di lavanda e altri manufatti campagnoli. Invece era andata in Francia e aveva comprato diverse pezze di souleiado, un tessuto provenzale prodotto nei toni del blu, rosso, verde e giallo, e ne aveva fatto delle tovaglie. Anche i piatti, di lucida ceramica ocra, provenivano dal Sud della Francia, come pure i calici in vetro soffiato. Tranne che per un arazzo antico che aveva scovato a un mercato delle pulci locale anni prima, aveva lasciato nude le pareti color zafferano. L'effetto era assolutamente spettacolare.

    «Va bene, ragazza» disse, infilando la busta con il denaro nella borsa. «Basta congratularti con te stessa, per stasera. È ora di andare a casa.»

    Canterellando fra sé, lasciò la sala e attraversò la cucina, spegnendo le ultime luci prima di uscire dalla porta posteriore.

    Aveva quasi raggiunto la sua macchina, quando una figura emerse dall'ombra.

    Abbie represse un grido d'allarme. Stringendosi al petto la borsa, si rammentò che Princeton era una delle comunità più sicure del New Jersey. In tre anni, da quando aveva aperto il ristorante, non aveva mai avuto motivo di avere paura, neppure a quell'ora.

    Fu solo quando lo sconosciuto fece un altro passo avanti, per mettersi direttamente sotto il lampione, che lo riconobbe.

    L'uomo del campo da baseball.

    Abbie si guardò attorno. Il posteggio era deserto. Era sola. Brady, da quel vero gentiluomo che era, si era offerto ripetutamente di restare con lei fino alla chiusura e di accompagnarla alla macchina, ma lei aveva sempre rifiutato.

    «Chi è lei?» chiese, cercando di parlare con voce ferma. «Che cosa vuole?»

    La risposta più ovvia era: Denaro, eppure sentiva che quella era qualcosa di più di una rapina. Se voleva solo il denaro, che cosa ci faceva al campo da gioco? Il pensiero di poter essere stuprata le provocò un'ondata di panico, ma non la rese impotente. Se era quello che l'uomo voleva, non avrebbe avuto vita facile. Grazie al corso di autodifesa che aveva seguito dopo il divorzio, sapeva badare a se stessa.

    «Che c'è? Sembri nervosa.» Mentre parlava, l'uomo frugò nel taschino della camicia e tirò fuori una sigaretta e un accendino. Senza distogliere gli occhi da lei, batté delicatamente la sigaretta sul lato piatto dell'accendino. Il gesto era vagamente familiare, ma Abbie non riuscì a ricordare dove lo avesse già visto. E neppure l'uomo. «Non hai paura di me, non è vero, Abbie?»

    Conosceva il suo nome. Era un bene o un male?

    Mostrandosi più coraggiosa di quanto si sentisse in realtà, lo esaminò attentamente, cercando di ricordare dove e quando poteva averlo incontrato. Al ristorante, forse? O ai tempi in cui gestiva il catering? Adesso che era più vicino, vide che gli occhi erano scuri, neri o marroni. I capelli erano dello stesso colore, un po' troppo lunghi per i suoi gusti, e pettinati all'indietro, mettendo in risalto i lineamenti marcati e la fronte stretta. Doveva essere sulla quarantina.

    Abbie era certa di non averlo mai incontrato prima, ma, a quanto pareva, lui la conosceva. O forse gli era capitato di vedere l'intervista che aveva fatto per la CBS un paio di settimane prima. Era possibile. Gente che non conosceva ora la fermava per la strada, o al mercato dove faceva gli acquisti, per congratularsi per il suo premio.

    Curiosa, e non volendo offendere un potenziale cliente, anche se un po' bizzarro, disse: «Temo di trovarmi in una posizione di svantaggio, signor...».

    Con aria divertita, l'uomo si mise in bocca la sigaretta.

    «Bel posticino hai, laggiù» osservò, accennando con la testa verso il ristorante. «Quanto incassi ogni sera?» Parlava con la sigaretta stretta fra i denti. «Cinquemila? Dieci?»

    La fiammella si accese e, mentre l'uomo l'avvicinava alla sigaretta, Abbie vide il suo sguardo posarsi sulla borsa. Lui ridacchiò come se sapesse esattamente che cosa c'era dentro. E che cosa lei stava pensando.

    Eppure, l'istinto le diceva che non era un rapinatore. Era troppo loquace, troppo preoccupato dell'impatto dei suoi commenti per farle davvero paura. Quel pensiero le diede un po' di coraggio.

    «Quello che incasso non è affar suo.» Mentre parlava, Abbie prese il telefono cellulare dalla borsa. «Quindi, si tolga dalla mia strada. O preferisce che chiami la polizia?»

    Imperturbabile, l'uomo aspirò una profonda boccata dalla sigaretta ed esalò lentamente il fumo nella sua direzione. Poi, appoggiandosi contro l'Acura, disse: «Via, via, Abbie, è questo il modo di accogliere il tuo fratello maggiore?».

    2

    Il primo impulso di Abbie fu di chiamare il 911. Ma si fermò con il dito sulla tastiera. Qualcosa in quell'uomo, forse il modo imperturbabile in cui continuava a guardarla, la spingeva a chiedersi se era possibile che dicesse la verità.

    Ian McGregor aveva quindici anni l'ultima volta che lo aveva visto, il che significava che ora ne aveva quarantatré. Aveva i capelli neri, ondulati, e occhi scuri che si accendevano sempre di uno scintillio cattivo, come peraltro in quel preciso momento, quando era sul punto di giocare un brutto scherzo a qualcuno.

    «Proprio così.» Ian aspirò un'altra boccata dalla sigaretta. «Sono io. Ian McGregor. In carne e ossa. Scommetto che pensavi di non rivedermi mai più, eh?»

    Abbie non seppe che cosa rispondere a quella domanda. Quando lei e sua madre avevano lasciato la California, dopo il disastroso incendio nella casa dei McGregor, Ian e sua sorella, Liz, erano rimasti a Palo Alto con la loro zia Lucinda. A otto anni, Abbie, che aveva dovuto subire i sarcasmi di Ian e l'indifferenza di Liz per due lunghi anni, aveva ben presto smesso di pensare ai due adolescenti.

    «Che c'è, principessa?» chiese Ian, usando il nomignolo che le aveva dato anni prima. «Il gatto ti ha mangiato la lingua? O sei troppo sopraffatta dall'emozione per parlare?»

    «Come faccio a sapere che tu sei quello che dici di essere?»

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