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Il seme del male (eLit): eLit
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E-book379 pagine5 ore

Il seme del male (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Krewe of Hunters 1

La moglie di un senatore muore in circostanze misteriose. Il caso viene archiviato come suicidio, ma il marito è convinto che qualcuno l'abbia assassinata. Altri invece sostengono che a uccidere la donna siano stati gli spettri che infestano la casa, le vittime del serial killer che un tempo vi abitava. Jackson Crow, incaricato di far luce sull'accaduto, non esclude a priori nessuna possibilità, ma è convinto che i responsabili siano assolutamente vivi. Angela Hawkins, invece, è certa che i fantasmi esistano... perché può vederli. E sa anche che quell'affascinante e in apparenza freddo detective nasconde qualcosa nel profondo di quegli straordinari occhi blu, qualcosa che lei è decisa a svelare. E mentre l'attrazione tra loro si fa irresistibile, dalle indagini emerge un quadro agghiacciante, in cui si intrecciano passato e presente, menzogne e verità. E una rete di efferati crimini e meschini giochi di potere che metteranno in pericolo le loro vite... e le loro anime.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2019
ISBN9788858997857
Il seme del male (eLit): eLit
Autore

Heather Graham

New York Times and USA Today bestselling author Heather Graham has written more than a hundred novels. She's a winner of the RWA's Lifetime Achievement Award, and the Thriller Writers' Silver Bullet. She is an active member of International Thriller Writers and Mystery Writers of America. For more information, check out her websites: TheOriginalHeatherGraham.com, eHeatherGraham.com, and HeatherGraham.tv. You can also find Heather on Facebook.

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    Anteprima del libro

    Il seme del male (eLit) - Heather Graham

    Immagine di copertina:

    Erstudiostok / iStock / Getty Images Plus

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Phantom Evil

    Mira Books

    © 2011 Slush Pile Productions, LLC

    Traduzione di Donatella Rizzati

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A..

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5899-785-7

    Prologo

    La casa su Dauphine

    «Mamma.»

    Si era assopita, pensò Regina Holloway. I lavori nella casa di Dauphine Street l’avevano sfinita. Ed era stata proprio quella terribile stanchezza a permetterle di scivolare infine nel sonno. La parola, il sussurro che le era parso di udire era stato uno scherzo della mente; aveva desiderato così tanto sentirla ancora una volta...

    Ormai sveglia, ma ancora a occhi chiusi, ascoltò i rumori – reali, questa volta – che provenivano dall’ambiente circostante. La musica di una band che suonava nella strada e il crepitare degli applausi che seguivano i loro brani jazz. Le note cupe e un po’ tristi del sassofono. Il rumore distante delle carrozzelle trainate da muli che portavano i turisti in giro per il Quartiere Francese. Ogni tanto, uno scroscio di risa.

    Inspirò l’odore del detergente al pino che avevano usato per pulire la casa. Dalla portafinestra, aperta sul giardino della bellissima dimora, entrava il profumo dolce degli alberi di magnolia che crescevano a ridosso del muro di cinta. Finalmente avevano una casa tutta loro nel Quartiere Francese, con quella quieta, misteriosa atmosfera che evocava epoche passate.

    Si diceva che l’edificio fosse infestato da quei tempi, da quella storia, di certo non sempre piacevole. Dopotutto era appartenuto a Madden C. Newton, l’assassino che aveva seminato il terrore nella città poco dopo la Guerra Civile. Le guide che accompagnavano i turisti in carrozza passando di lì raccontavano storie di fantasmi e apparizioni spettrali visti dai precedenti proprietari. Ma né lei né David credevano ai fantasmi, e l’immobile era stato un’occasione imperdibile. Ora, ovviamente, avrebbe desiderato con tutto il cuore crederci. Perché, se fossero esistiti, lei avrebbe potuto rivedere il suo Jacob.

    Ma i fantasmi non erano reali.

    La casa non era altro che una casa. Mattoni, legno, malta, graticci, gesso e pittura. Sia lei sia David erano cresciuti nell’altra parte della città: abitare in una villa come quella era sempre stato un sogno. Ma non avevano mai sognato di viverci da soli.

    Sì, Regina sapeva perfettamente che cosa era reale e cosa non lo era. Si stava sforzando di andare avanti senza gli analgesici che aveva preso nei primi mesi dopo la perdita di Jacob. Quei farmaci le avevano provocato molte, strane visioni, eppure non aveva mai visto alcun fantasma.

    «Mamma.»

    Quella parola, tuttavia, la sentì, e molto chiaramente. Aprì gli occhi, e un grido le morì in gola.

    Lì, in piedi davanti a lei, c’era un bambino. Doveva avere più o meno l’età di Jacob, sette anni. Indossava abiti dell’epoca vittoriana, un minuscolo gilè e una redingote, pantaloni alla zuava e stivali.

    E aveva un’ascia conficcata nel cranio, con il manico che sporgeva verso l’esterno. Una scia di sangue gli colava ai lati del viso.

    «Mamma, fa male. Fa tanto, tanto male. Aiutami, mamma» disse il bambino guardandola con due enormi, fiduciosi occhi blu.

    Regina aveva un desiderio disperato di urlare. Aveva visto suo figlio, in sogno, ma quello non era Jacob. Conosceva le storie che si raccontavano su quella casa, era al corrente degli omicidi che vi erano stati commessi appena finita la Guerra Civile...

    Sapeva tutto quanto, ma nemmeno nei momenti peggiori aveva mai avuto visioni tanto strane e orribili.

    Quel bambino non era reale.

    Finalmente riuscì a emettere dei suoni. Non grida. Solo dei suoni. Sommessi gemiti di terrore, come il balbettio incoerente di un bimbo. Regina aveva voglia di urlare.

    «Mamma, ti prego. Mamma, ho bisogno di te.»

    Non era Jacob, e non era la sua voce. Jacob aveva perso la vita una notte di sei mesi prima in un incidente d’auto sulla I-10; l’uomo al volante era ubriaco, e la macchina aveva saltato tre corsie, aveva invaso la carreggiata opposta e si era schiantata contro la vettura su cui viaggiavano loro.

    Jacob era morto in ospedale, tra le sue braccia. Era stato sepolto al Cimitero Lafayette, vestito con l’uniforme da baseball che aveva amato così tanto. Quella che sentiva in quel momento non era la voce di suo figlio.

    Ma erano le sue parole.

    Mamma, fa male. Fa tanto, tanto male. Aiutami, mamma.

    Erano le parole di Jacob, quelle che aveva pronunciato in ospedale, mentre lei lo teneva in braccio, pochi secondi prima che l’emorragia interna portasse via la sua dolce, giovane vita.

    Questo non era Jacob.

    No.

    Regina chiuse gli occhi, incapace di urlare. Pregò che David tornasse a casa. Il Senatore David Holloway. Suo marito, bello, affidabile, lucido, razionale, meraviglioso. L’uomo che le era stato accanto, che aveva condiviso con lei quel dolore straziante. David l’avrebbe stretta tra le braccia, e lei avrebbe trovato la forza di reagire. Lui doveva tornare a casa. Era ormai sera. Eppure, nel cielo indugiavano ancora delle striature gialle e rosate che illuminavano il pulviscolo sospeso nell’aria della stanza. Granelli di polvere che si erano trasformati nell’immagine di un bambino assassinato.

    Ma se ne sarebbe andato. Perché non era reale. Era il prodotto delle leggende che circolavano sulla casa, tutto qui.

    «Mamma, ti prego, ho bisogno di te. Per favore, mamma, stringimi la mano.»

    Regina aprì gli occhi. Il bambino non se n’era andato. Era ancora lì, con lo sguardo tormentato fisso su di lei, colmo di rimprovero e confusione. Si stava chiedendo come lei potesse ignorarlo, come potesse guardarlo con quell’espressione inorridita.

    «Mamma?»

    «Tu non sei... non sei qui» sussurrò Regina.

    «Mamma, non lasciarmi! Ho paura. Ho tanta paura. Prendi la mia mano, prendila, ti prego, ho così tanta paura!»

    Il bambino tese la mano. Lei si ritrasse, mentre un gelido terrore la investiva con la violenza di una tempesta. E poi...

    Sentì una manina. Quella manina che cercava le sue era tiepida, vitale, e sembrava così reale.

    Le dita del bambino strinsero le sue. Istintivamente lei ricambiò la stretta.

    «Ho bisogno di te, mamma» le disse.

    Regina non gridò. Riuscì persino a parlare. «Va tutto bene» mormorò.

    Tutto a un tratto, il bagliore del tramonto si confuse con i granelli di polvere che fluttuavano sui nastri di luce giallo-rosata, come in una tavolozza in cui si mescolavano i colori del giorno morente. Presto, le insegne al neon avrebbero illuminato con la loro cruda luce la notte di Bourbon Street, e la musica rock avrebbe soppiantato il ritmo lamentoso del jazz. Presto, David sarebbe tornato a casa e le avrebbe propinato una qualche assurda teoria psicologica sul fatto che la sua mente aveva partorito l’immagine di un bambino morto da secoli per sostituire Jacob.

    Ma nessuno avrebbe mai potuto prendere il posto di suo figlio.

    All’improvviso, Regina non ebbe più paura. Doveva rassicurare quel bambino.

    «Va tutto bene» ripeté.

    «Sta diventando buio. Guarda fuori, in giardino, sta diventando buio» disse il bambino.

    «Ci sono luci dappertutto. In giardino, sulle inferriate» replicò Regina. «Accenderò la luce in camera. Non ti lascerò al buio.»

    Si mise a sedere, sentendo ancora la manina avvinghiata alla propria. Si avvicinò alla portafinestra; era primavera e l’aria era fresca e deliziosa, limpida come se fosse stata appena lavata, e profumava di fiori. Agli abitanti del Quartiere Francese piaceva coltivarli, e far crescere rampicanti su verande e balconi. Per un attimo, Regina prese un respiro profondo.

    Sì, era disperata. Il dolore era atroce, straziante. Avrebbero detto che stava cercando un surrogato per compensare il dolore di aver perso Jacob, non per sostituirlo. Ma era assurdo. Non avrebbe mai inventato un bambino con un’ascia conficcata nel cranio.

    «Mi piace il giardino, mamma» disse il bimbo, guidandola.

    «Sì, è molto grazioso» annuì Regina. Stava per avere una crisi isterica, pensò. A trentacinque anni, aveva un amico immaginario.

    Lui la guardò di nuovo, appoggiandosi alla ringhiera. D’un tratto, sembrò che la luce colpisse in modo strano i suoi grandi occhi blu. C’era una luce astuta in quegli occhi.

    Regina pensò di aver udito qualcosa dietro di sé. Si voltò e aggrottò la fronte, confusa.

    E poi, lo shock.

    Si rese conto vagamente che qualcuno la spingeva.

    Capì che stava precipitando.

    Il grido le uscì dalle labbra, alla fine, per poi interrompersi bruscamente.

    Il cranio fracassato, il collo spezzato, Regina giacque morta, con gli occhi spalancati.

    1

    Jackson Crow prese posto dietro la scrivania e fissò il cumulo di pratiche che aveva davanti. Era la prima volta che incontrava l’uomo seduto di fronte a lui: Adam Harrison, capelli bianchi, aspetto solenne, magro, con un evidente gusto per gli abiti firmati. L’ufficio era modesto, ben arredato, ma assolutamente non sfarzoso. Finestre di vetro laminato si affacciavano sulle villette a schiera di Alexandria, Virginia, e le altre società che avevano sede nell’edificio avevano nomi come Studio legale Brickell & Sons, Agenzia immobiliare Chase e B.K. Blake, Investigatore privato.

    Adam gli aveva appena passato i fascicoli del caso. «Jackson, ha idea del motivo per cui lei si trova qui?»

    Era appena tornato alla sua vecchia unità del Dipartimento di Scienze Comportamentali a Washington D.C., solo per scoprire che gli avevano assegnato un altro incarico. La sua licenza, a quanto pareva, era in qualche modo permanente.

    L’ultimo caso di cui si era occupato, nonostante l’eccellente lavoro svolto da lui e dai suoi colleghi, si era concluso con la morte di tre agenti. E se non fosse stato per il suo intuito, avrebbero potuto perdere la vita altri due membri della squadra. La polizia locale non aveva risposto alla chiamata, e lui non aveva nulla da rimproverarsi.

    Naturalmente era tormentato dai sensi di colpa.

    Forse era stata la sensibilità dei suoi superiori a spingerli ad assegnargli un nuovo incarico, in un posto diverso, dietro una scrivania.

    Aveva già sentito parlare di Adam Harrison. Lavorava da solo... in genere per il governo, quando il governo non poteva agire ufficialmente. Adam subentrava quando gli altri non ce la facevano.

    E non in caso di estremo pericolo. Piuttosto, si sarebbe potuto pensare che venisse chiamato per l’estrema stranezza.

    «No» rispose con semplicità.

    «Prima di tutto, mi permetta di rassicurarla: non hanno intenzione di farla fuori. Lavorerà ancora per lo Zio Sam» gli disse Adam. «Prenderà ordini da me, ma sarà a capo della squadra. Una nuova squadra.»

    Un impiego comodo, da qualche parte dietro una scrivania, che non implicava serial killer, rapimenti di bambini o corpi affogati nel calcestruzzo.

    Jackson non era certo di come si sentisse; intorpidito, forse.

    «Dia un’occhiata a questo.»

    Non aveva ancora avuto modo di visionare i dossier, ma Adam gli stava porgendo un giornale di New Orleans, con la data di un mese prima, che titolava Moglie del senatore David Holloway muore cadendo dal balcone.

    Sollevò lo sguardo sul suo interlocutore.

    «Legga tutto l’articolo» suggerì Adam.

    Lui lo lesse in silenzio.

    Regina Holloway, la moglie del senatore David Holloway, è morta ieri precipitando da un terrazzo della loro abitazione in Dauphine Street, nel Quartiere Francese. Sei mesi fa gli Holloway hanno perso il loro unico figlio, Jacob, in un tragico incidente sulla I-10. Il senatore Holloway ha escluso che possa essersi trattato di suicidio; nell’ultimo periodo, ha dichiarato, sua moglie stava meglio e iniziava ad accettare la perdita; avevano in programma di crearsi di nuovo una famiglia.

    La polizia e il medico legale non hanno ancora rilasciato una dichiarazione ufficiale sulla causa del decesso. La casa, una delle antiche dimore spagnole del Quartiere Francese, un tempo appartenne al famigerato Madden C. Newton, il serial killer che torturò e uccise almeno venti persone poco dopo la fine della Guerra Civile. Poco meno di dieci anni fa, anche un adolescente che si era introdotto furtivamente nella casa, all’epoca disabitata, morì in seguito a una caduta che l’ufficio del coroner archiviò come accidentale dal momento che il ragazzo, presumibilmente un piccolo spacciatore, aveva cercato rifugio nell’edificio per sfuggire alla polizia.

    Jackson provò un’immediata sensazione di disagio, ma posò il quotidiano sulla scrivania con gesti misurati e guardò Adam Harrison. «Una tragica vicenda» commentò. «Sembra probabile che la poverina si sia suicidata e che il senatore non voglia ammettere la realtà. Mi è già capitato di imbattermi in casi in cui una donna non riusciva ad affrontare la perdita del proprio figlio.»

    «Molti sostengono che la casa è stregata» disse Adam.

    «E che è stato un fantasma a commettere il delitto?» domandò Jackson. Si sporse in avanti. «Non sono certo di credere ai fantasmi, Adam. Ma anche ammesso che esistano, non sarebbero inconsistenti? Come potrebbero spingere una donna giù da un terrazzo?»

    «Il senatore ha amicizie potenti, benché sia ancora un politico di provincia. Ed è assolutamente convinto che la moglie non si sia suicidata» replicò Adam.

    «Sospetta che si sia trattato di omicidio?» domandò Jackson.

    «La porta principale era chiusa a chiave, e così pure il cancello del giardino; nessuna delle finestre al pianterreno era aperta.»

    «Qualcuno potrebbe aver scavalcato il muro o il cancello» suggerì Jackson.

    Adam annuì. «È possibile, certo. Ma da allora non si è fatto avanti nessun testimone che avvalorasse una simile ipotesi. La morte è stata archiviata come suicidio piuttosto in fretta. Conosce la città di New Orleans, in particolare il Quartiere Francese o Vieux Carré?»

    Un sorriso ironico increspò i lineamenti di Jackson. «Terra di vampiri, fantasmi, vudù e fantasia. Ma anche di una delle migliori cucine del mondo, e la musica è davvero eccellente.»

    «Molto bene. Lei lavora nel campo delle scienze comportamentali. Non crede che le convinzioni della gente possano determinare azioni e reazioni?»

    «Naturalmente. Il Figlio di Sam – Berkovitz – era convinto che i cani che ululavano fossero demoni che gli ordinavano di uccidere. Oppure, la sua è stata una strategia di difesa dannatamente efficace.»

    «Sempre scettico» osservò Adam. «Tuttavia non lo è davvero, giusto?» aggiunse sorridendo.

    «Sono scettico, sì. Ma sono anche aperto ad altre possibilità» rispose Jackson con una certa cautela.

    «I suoi genitori ci credevano» gli ricordò Adam.

    Jackson esitò. Era vero, suo padre e sua madre avevano creduto nell’esistenza di un’entità superiore, a prescindere da quale fosse la strada che conduceva a quell’entità. Jeremiah Crow era nato Cheyenne, pur discendendo da una mescolanza di razze che solo Dio conosceva esattamente, e aveva sempre apprezzato la spiritualità della sua gente, così come l’aveva apprezzata sua madre, che era cresciuta in una famiglia anglicana. Lei una volta gli aveva detto che la religione non era un male di per sé, anzi, benché spesso fosse corrotta dagli uomini che la praticavano, e che non aveva poi una grande importanza quale fosse il credo religioso di una persona se lo conduceva verso l’onestà morale e l’altruismo.

    Ma la nonna materna era scozzese, e lui era cresciuto ascoltando i suoi racconti di streghe, elfi e fantasmi. Forse era stato proprio quello a spingerlo a cercare la risposta alle domande sulla vita, la morte, l’eternità e tutto quello che c’era in mezzo nelle Highlands anziché nel Sogno, secondo la tradizione dei nativi d’America.

    «Lei è qui perché è l’uomo adatto per questa squadra, Jackson» gli assicurò Adam. «Non rifiuterà a priori di indagare su aspetti che possono apparire impossibili, ma non darà nemmeno per scontato che il colpevole sia un fantasma.»

    «D’accordo. Dunque lei vuole che io vada a New Orleans e scopra esattamente come quella donna è morta? Si rende conto, immagino, che c’è la fondata possibilità che si sia suicidata, a prescindere di quello che il marito vuole credere.»

    «È proprio questo il punto, Jackson. La maggior parte della gente crede che si sia suicidata. È l’ipotesi più ovvia. Ma io voglio la verità. Il senatore Holloway si è dedicato con passione a diverse questioni fondamentali per il nostro Paese. Ha contribuito alla realizzazione di molti progetti quando la politica sembrava stagnante . È un uomo che dà importanza all’economia e all’ambiente, e che sa farsi venire in mente delle soluzioni. Lui vuole la verità. È giovane, ha appena quarant’anni, e se non si lascerà sopraffare dal dolore, continuerà a servire la nazione con perfetta integrità, una qualità di cui ultimamente i nostri politici sembrano sprovvisti. Washington ha bisogno di lui, e io le sto chiedendo di guidare la squadra che si occuperà delle indagini.»

    «Se questo è l’incarico che mi è stato assegnato, lo accetterò.» Jackson fece una pausa. «Ma... davvero mi serve una squadra?»

    «Credo proprio di sì. Le assegnerò un gruppo di persone per smentire, o forse provare, l’esistenza di fantasmi in quella casa. Sono tutti esperti investigatori.»

    Lui rimase in silenzio e Adam proseguì: «Quando alcuni membri della sua unità sono stati uccisi, lei è arrivato al ranch in tempo per salvare Lawson e Donatello. Nessuno sapeva dove l’Uomo-Piccone uccidesse le sue vittime. Nessuno immaginava che avesse organizzato tutto in modo che i suoi agenti fossero al ranch».

    Jackson serrò la mascella, e nonostante il periodo di licenza che si era preso, deglutì a fatica. Avevano perso dei buoni agenti. Tra loro Sally Jennings, quarantacinque anni, esperta e tuttavia vulnerabile nonostante gli anni di servizio che aveva alle spalle.

    Se lo sentiva che avrebbe trovato Sally; aveva sognato che l’avrebbe trovata lì, in quella casa. Ed era stato quel sogno a condurlo dritto al ranch, dove aveva scoperto che lei era stata la prima a morire.

    «Ho sparato all’Uomo-Piccone» disse. «È morto.»

    «Era l’unica possibilità per salvare Lawson e Donatello. Se l’assassino l’avesse vista prima che lei lo mettesse in guardia e sparasse, avrebbe piantato quel piccone nel petto di Donatello» replicò Adam. «Mi creda, la tengo d’occhio da anni, Jackson. Conoscevo i suoi genitori.»

    Questa era una sorpresa.

    Era possibile che Adam, chissà come, avesse saputo ciò che gli era successo mentre si trovava in Scozia, quando era caduto da cavallo, vicino a Stirling. I suoi amici avevano proseguito, pensando che li avesse seminati, che avesse vinto la gara e la scommessa. Aveva incontrato uno straniero, dopo, che gli aveva salvato la vita. E poi...

    Era accaduto molto tempo prima.

    Eppure... Aveva passato la vita a sfatare storie di fantasmi e sogni come quello che aveva fatto quella volta. Cercando la verità che si celava dietro fatti del genere. Dimostrando che il fantasma che infestava una piantagione in Virginia era in realtà un cugino del proprietario che voleva cacciarlo via dalla tenuta. Provando che non c’erano spettri che si aggiravano furtivamente per le Montagne Rocciose, che l’Uomo-Piccone era un essere umano in carne e ossa di nome Andy Sitwell anche se, almeno apparentemente, quest’ultimo credeva che a spingerlo a uccidere fosse il fantasma di un vecchio cercatore d’oro.

    Erano trascorsi sei mesi da quando aveva sparato all’Uomo-Piccone e lo aveva ucciso. Sei mesi durante i quali aveva cercato di elaborare il lutto per i compagni morti. Era tornato in Scozia dai parenti materni, e poi aveva trascorso un mese con la famiglia del padre, aiutandoli a progettare i loro nuovi casinò e hotel.

    Ma adesso era pronto a tornare al lavoro per il quale sapeva di essere portato. Indagare. Seguire gli indizi. Che significasse studiare storie, persone, convinzioni, oppure una scia di sangue. Era bravo a farlo. Aveva la giusta mentalità per quel tipo di lavoro, e per il genere di squadra che Adam Harrison stava mettendo insieme.

    «Sono aperto a tutte le possibilità» assicurò a Adam. «Ci sono troppe persone in giro che fanno un sacco di soldi sfruttando la spiritualità e la buona fede di chi crede ai fantasmi.»

    Adam sorrise. «È vero, e apprezzo il suo scetticismo. Quanto ai fantasmi... ebbene, io ci credo» dichiarò. «Ma non ha importanza. Le ho prenotato un volo all’aeroporto internazionale Louis Armstrong alle nove di domani mattina. Ha abbastanza tempo per sistemare le cose qui?»

    Le cose qui?

    C’era ben poco nell’appartamento di Crystal City. Un ottimo impianto stereo/tv, perché lui amava la musica e i vecchi film. Un armadio che conteneva i suoi abiti da lavoro. Fotografie di famiglia e amici che non c’erano più.

    Annuì. «Certo. E questi?» sollevò i dossier personali della sua nuova unità. «Quando incontrerò la squadra?»

    «Arriveranno tra domani e mercoledì» rispose Adam. «Ha i fascicoli; li legga prima. Ho pensato che avrebbe voluto avere la casa tutta per sé per qualche ora. Angela sarà la prima ad arrivare, domani sera verso le sei. Saprà chi sono prima che arrivino se leggerà i dossier.» Adam si alzò, segno che il colloquio era finito. «Grazie per avere accettato» disse.

    «Davvero avevo scelta?» domandò Jackson, ma Harrison si limitò a sorridere.

    Stava per uscire, quando Adam lo richiamò. «Lei sa di avere un dono, Jackson. E può davvero fare ciò che vuole.»

    Jackson non era sicuro di cosa intendesse. «Ce la metterò tutta» promise.

    «Non ho dubbi. E so che alla fine sapremo tutti cosa realmente è accaduto nella casa di Dauphine.»

    X-files. Il pensiero attraversò la mente di Jackson non appena il colloquio con Adam Harrison terminò.

    Andò a prendere l’auto, domandandosi in cosa esattamente si fosse lasciato coinvolgere.

    Sembrava proprio una cosa tipo X-files. O casi paranormali. E avrebbe avuto collaboratori paranormali. Grandioso.

    In macchina, diede un’occhiata ai dossier, scorrendo rapidamente la pagina introduttiva di ciascuno. Angela Hawkins, Whitney Tremont, Jake Mallory, Jenna Duffy and Will Chan. La prima, almeno, veniva dal dipartimento di polizia della Virginia. Whitney Tremont era nata nel Quartiere Francese; aveva origini creole e di recente aveva curato le riprese di una trasmissione sui fenomeni paranormali per una tv via cavo. Jake Mallory, musicista, era stato massicciamente coinvolto nelle ricerche dei dispersi dopo le tempeste estive, e veniva contattato in diversi casi di rapimenti di bambini o sparizioni. Poi c’era Jenna Duffy, un’infermiera laureata di origini irlandesi. Bene. Sarebbero stati coperti in caso di attacchi di fantasmi. Will Chan, infine, aveva lavorato in teatro come... illusionista.

    Era una squadra davvero strana.

    Pazienza, si disse Jackson. In fondo era tempo che tornasse al lavoro. E di una cosa era sicuro: la verità era sempre là fuori, bastava trovarla.

    La casa sembrava tenere corte all’angolo della strada. Si trovava su Dauphine, a un solo isolato da Bourbon Street e a tre o quattro dall’Esplanade. La posizione era eccellente, abbastanza distante affinché i rumori vi arrivassero attutiti quando la musica in Bourbon Street pulsava fino a notte fonda come un tamburo, e tuttavia sufficientemente vicina alle bellezze della città.

    Aveva la forma di un ferro di cavallo; un imponente cancello di legno dava accesso al giardino, mentre dall’entrata principale, su Dauphine, partiva un’imponente scalinata che conduceva al portico del pianterreno e a un doppio portone i cui pregevoli intagli erano al tempo stesso un’eredità storica e il frutto della fantasia.

    Jackson girò la chiave nella serratura, e non appena mise piede all’interno, l’allarme cominciò a suonare. Digitò in fretta il codice che gli avevano dato.

    «Sembra uscita da Via col vento» mormorò a voce alta ispezionando la casa. «Tara incontra le strade della città.» In quel caso la stanza principale era adibita a raffinata sala per ricevimenti, forse perfino a sala da ballo in qualche epoca passata. Gli sembrava quasi di vedere le bellezze del Sud nei loro eleganti abiti da ballo che volteggiavano guidate da affascinanti giovanotti in redingote. A un’estremità della sala, vicino a un enorme camino con la mensola di marmo, c’era un pianoforte. Dalla parte opposta della sala un secondo camino, identico al primo, e al centro la grandiosa scalinata si incurvava verso l’alto.

    I pochi mobili rimasti erano ricoperti da lenzuola impolverate.

    Salendo al primo piano, notò che il corridoio si allungava a destra e a sinistra.

    Svoltò laddove il muro creava un angolo retto e si ritrovò in un altro, lungo corridoio su cui si affacciavano le camere da letto. Eccola. Finalmente.

    Quella era la stanza.

    Accese la luce. Sembrava assolutamente innocua, una camera graziosa, pronta per essere occupata, o meglio, che era stata occupata. Uno splendido letto a baldacchino con quattro colonne e una trapunta bianca campeggiava su un tappeto persiano. Dall’altra parte della stanza c’erano due cassettoni art déco, e grandi portefinestre drappeggiate da tende di chintz bianco e pizzo si aprivano su una balconata che girava intorno alla casa e si affacciava sul giardino. Avvertiva qualcosa? No.

    Si avvicinò alle portefinestre e le aprì, uscendo sul terrazzo.

    Il giardino sottostante spiegava come mai una casa con una simile tragica storia potesse ancora trovare schiere di acquirenti. Era lastricato di mattoni e al centro c’era una fontana con una scultura tipica di New Orleans: una bellissima gru spiegava le sue ali metalliche su un bacile dal quale l’acqua cadeva con un melodioso gorgoglio nell’ampia vasca sottostante.

    Su un lato del giardino c’era un parcheggio, e dalla parte opposta degli eleganti tavolini in ferro battuto, all’ombra di ombrelloni colorati. Constatò che la cucina e la sala da pranzo si trovavano dietro i tavolini, e che il cibo poteva facilmente essere portato fuori dalla cucina attraverso un’apposita zona di servizio. Non era sicuro che quella parte dell’edificio appartenesse all’edificio originale. Avrebbe dovuto studiare di nuovo la planimetria.

    L’unica cosa che rovinava la bellezza del luogo che aveva davanti era il segno del gesso sui mattoni dove Regina Holloway era caduta.

    E morta.

    Le macchie di sangue erano state pulite, e tuttavia sembravano ancora lì.

    Il giardino era circondato dalla casa stessa, e da un muro di mattoni alto quasi due metri, al centro del quale si apriva un cancello a doppia anta, grande abbastanza da far passare un’automobile. In quel momento era chiuso, e aveva un codice d’accesso come il portone di ingresso. Il senatore Holloway non era uno stupido; l’allarme era stato installato probabilmente nel preciso istante in cui la sua firma si era asciugata sull’atto di acquisto. Jackson lo sapeva perché aveva letto i rapporti della polizia sul presunto suicidio.

    Notò che sarebbe stato molto difficile raggiungere il muro dall’estremità della casa. C’erano almeno due metri tra la fine del terrazzo e il muro, e lo spazio era occupato da una statua di Poseidone con un tridente; non sarebbe stata una caduta piacevole se qualcuno avesse tentato il salto, senza riuscirvi. Tuttavia non era impossibile.

    Solo molto improbabile.

    Forse era un buon caso per il suo ritorno nel mondo del lavoro, si disse; era incredibilmente triste pensare alla morte di Regina Holloway, e poteva a malapena immaginare la perdita che lei aveva subito. L’aveva già visto accadere. I genitori non dovrebbero sopravvivere ai propri figli. Perderli era un dolore insopportabile.

    Sentì il campanello che suonava e fece una smorfia, pensando che la casa era stata di certo costruita in un’epoca in cui l’ultimo piano ospitava un gran numero di domestici; l’entrata principale era distante da quell’ala della casa. Ma lui stava aspettando il detective Andy Devereaux, così lasciò il terrazzo e la camera, indugiando per un attimo sulla soglia. Non avvertì nulla. La camera era semplicemente una camera. Si affrettò a raggiungere la porta principale.

    Andy Devereaux era un uomo alto, dalla pelle color mogano chiaro, con occhi azzurro polvere che testimoniavano la sua origine mista, se non lo avesse già fatto la gradevole sfumatura della sua pelle. Aveva la testa rasata, era sbarbato di fresco, atletico e slanciato. Portava un berretto da baseball, jeans e una camicia di sartoria sotto un giubbotto sportivo

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