Questo è il paradiso
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Anteprima del libro
Questo è il paradiso - Claudio Leone Ornaghi
sempre.
1
Anno 1961, un pomeriggio di ottobre, nella città più industriale d’Italia, la Stalingrado milanese, Sesto San Giovanni, un paese senza fronzoli, dove la gente passa la vita nelle fabbriche e il poco tempo che rimane lo trascorre barricata in miniappartamenti, creati apposta vicino al lavoro per non perdere troppo tempo.
Uno di quei pomeriggi di autunno che non hanno un carattere preciso, che sembrano non finire mai, che hanno un colore indefinito come se il tempo di colpo si fosse fermato, è una giornata così che userò per partire con il mio racconto.
Ormai non aveva l’età per lavorare ma aveva già profuso alla comunità ben quarantacinque anni di duro lavoro alla Marelli, fabbrica che in quei tempi produceva un po’ di tutto, dalle batterie ai motori elettrici, ma il massimo lo aveva dato durante la Seconda guerra con la produzione massiccia di bombe e munizioni un po’ per tutti, dai militari ai partigiani, si può dire una precorritrice dei tempi.
Rodolfo, questo era il suo nome, e ormai la malattia lo aveva già colpito, ma non messo a K.O., ci voleva ben altro per mettere in orizzontale Rodolfo, lui aveva combattuto con i partigiani per liberare il Nord Italia dai fascisti, aveva rischiato cento volte la vita portando le armi dentro le fabbriche per tenere in vita la resistenza e anche se qualche mese prima gli avevano tolto un testicolo lui continuava testardamente la sua vita e anzi quel giorno era particolarmente allegro.
Come tutte le mattine ormai da qualche anno, dopo avere comprato in edicola il suo quotidiano, esclusivamente l’Avanti, si era recato al circolo, esclusivamente dei socialisti, con la sua bicicletta per fare il dibattito politico mattutino con i soliti amici, tutti rigorosamente socialisti come lui, dibattiti che spesso prendevano forme di vere e proprie battaglie oratorie ma senza mai sfociare in volgarità e violenze verbali e che di solito si ricompattavano al passare di un ex fascista o democristiano, i baciapile
li chiamava Rodolfo, e a quel punto il gruppo si riuniva per sbeffeggiare, sempre in maniera gentile, l’ignaro passante.
Dopo il secondo spruzzato, lo spruzzato è un calice riempito per 2/3 di vino bianco e 1/3 di Campari, il suo amico Piero esclama: Uhee Dolfo
, questo era il suo nomignolo, ma quando el nas el Claudio
.
Piero era il suo miglior amico, compagno di partito, anche se ultimamente si era spostato nella corrente socialista democratica di Saragat, era il marito della Giovanna, Giuana, ed entrambi vivevano nell’appartamento sopra quello di Rodolfo.
Rodolfo non gli rispose subito, anzi si imbronciò alquanto, perché fino a quel momento non aveva ben realizzato cosa stava succedendo nella sua famiglia, poi di colpo esclamò: Per mi el nas duman
. Salutò di fretta gli amici e lasciando il terzo spruzzato a metà uscì dal circolo, inforcò la bicicletta e a pedalata veloce si diresse verso casa.
La casa di Rodolfo era un appartamentino di tre stanze con bagno, cucinino e ripostiglio che con tanta fatica e grazie alla moglie Agnese, di cui vi parlerò più avanti, erano riusciti a comperare con tanti sacrifici e con massicci risparmi e ora vivevano con il figlio e la nuora in buona armonia.
Ma torniamo alla pedalata di Rodolfo, arrivato in procinto del palazzo, scese al volo dalla bicicletta come facevano i corridori quando passavano il traguardo di una gara, e correndo sulle scale fino al secondo piano entrò di getto in casa urlando Agneseee, dove sono le chiavi del solaio?
. Agnese, che stava spentolando per preparare il pranzo, si volse di scatto e con gli occhi fiammeggianti guardò Rodolfo in mezzo al tinello e volgendo lo sguardo verso i suoi piedi si riempì il petto di aria ed esplose: Dolfo, le pattineeee
. Eh sì, perché l’Agnese detta Gnese era un peperino mica male e Rodolfo lo sapeva bene, con lei qualsiasi battaglia era persa, aveva un carattere troppo forte per essere dominata da uno come lui, ma lui la amava tantissimo e soprassedeva a tutte le sue prove di forza.
Dai Gnese che go de anda in sufit
disse Rodolfo ancora sbuffante per le scale fatte di corsa, dai che duman el nas el Claudio
.
La soffitta era uno spazio ricavato nel sottotetto del palazzo che Rodolfo aveva trasformato in una officina attrezzatissima, lì potevi trovare qualsiasi attrezzo allora in commercio e tutti perfettamente funzionanti ma consumati da tante ore di lavoro eseguite, eh… sì, perché Rodolfo era un mago con i suoi attrezzi e riusciva a dare vita a qualsiasi marchingegno meccanico, piuttosto che realizzare sculture in bronzo, legno e con qualsiasi materiale potesse essere a sua disposizione.
In quella soffitta durante la guerra aveva preparato le bombe a mano, ananas
le chiamavano, che tutte le mattine consegnava alla staffetta partigiana tenendole sotto il pastrano o nella borsa del lavoro passando davanti alle guardie tedesche SS che ignare di tutto al suo saluto rispondevano con Shnell shnell
.
Prima cosa da fare disse: Mettere la tuta altrimenti la Gnese la me masa
, poi sollevando un lenzuolo sul tavolo da lavoro scoprì la sua ultima scultura in bronzo, ultima e sicuramente la più impegnativa che fino a ora aveva intrapreso, era quasi finita ma mancava ancora una rifinitura.
Aveva iniziato l’opera nove mesi prima quando la Gnese con le lacrime agli occhi gli aveva detto: Ti Dolfo tel set che te se dre a diventà nonu
. Fu per lui come un fulmine che lo colpiva in pieno petto, la cosa più bella che nella sua vita avesse provato, un nipote tutto suo.
Lui che aveva combattuto tutta la vita con il problema di non poter avere figli a causa di quel maledetto testicolo, che ora non aveva più, lui che trent’anni prima aveva raccolto per strada quel bambino nelle campagne del basso Pavese durante una gita in bicicletta, il bambino gli aveva chiesto un tozzo di pane per mangiare Rodolfo lo aveva fatto diventare suo figlio, lo aveva fatto studiare per dargli una posizione nella società migliore della sua, lui che ora avrebbe avuto un nipote tutto suo e doveva essere speciale, doveva essere la sua continuazione, ora che la vita era ormai agli sgoccioli.
La scultura era stata impegnativa, da un blocco di fusione in bronzo ricavato da alcuni pezzi di armi che aveva in soffitta, residuo delle sue attività durante la guerra e da alcuni sfridi di lavorazioni delle bronzine dei motori Marelli, aveva creato un cavallo da corsa portato a terra [kc1][CO2]da un fantino con le briglie tirate, era riuscito, dopo lunghe ore di lavoro, a imprimere una espressione vitale a quel blocco di metallo, il cavallo sembrava vero con la muscolatura marcata tipica di questi animali da competizione che sprigionava una sensazione di forza selvaggia, dominata però dalla forza e intelligenza dell’uomo, che con le briglie tirate gestiva l’impeto animale.
Rodolfo ci lavorò ancora tutto il pomeriggio per completare e lucidare la sua opera, poi rimase mezz’ora in contemplazione e la ricoprì con il lenzuolo bianco, ma doveva fare ancora una cosa urgentemente prima della nascita di Claudio, si voltò e spostando un armadio polveroso prese in mano un oggetto completamente bendato da stracci.
Lo estrasse con cura e si sedette sullo sgabello