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La fibra umana
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E-book362 pagine5 ore

La fibra umana

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Info su questo ebook

Quando Renzo era solo un bambino la Seconda guerra mondiale aveva portato la fame e lasciato solchi profondi negli animi, sedimentando in lui uno spirito battagliero utile a riscattarsi. Negli anni del miracolo economico italiano edifica la sua fortuna insieme all’amico d’infanzia Gino, aprendo nel 1968 una tintoria industriale e brevettando una macchina per tingere l’innovativa fibra di poliestere. La cinetica tintoriale, il comportamento molecolare delle fibre tessili e dei coloranti per lui non hanno più segreti, ma mentre la perfezione è alla base di ogni sua ricetta chimica, nella trama delle sue relazioni nidifica un difetto. Il sottosuolo del rapporto con i suoi figli, la sua ex moglie, la sua nuova compagna americana e i suoi affetti, si rivela sempre più franoso e pieno di zone insidiose, ma tutti trovano il modo di contrattare il prezzo per la loro felicità. Il successo attira su Renzo molte belle donne, che però lo inducono a soffrire e a conservare disabitato il suo cuore. Ma la vita, che tanto si diverte a scombussolare le carte in tavola, gli presenta un’ultima sfida: trovare la ricetta chimica migliore per la sua fibra d’uomo, vicina finalmente all’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2017
ISBN9788899819507
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    Anteprima del libro

    La fibra umana - Emanuela Serughetti

    INDICE

    Prologo

    Prima Parte

    Poteva essere già morto

    Tusche gira la manovella!

    Io vado dove voglio

    Le ricette dell’amore

    Uno tsunami incontrollabile

    Il tempo è prezioso

    Poi tornarono a giocare

    Io voglio vedere il mondo

    Tutto sarebbe finito al risveglio la mattina dopo

    Europizzi

    Il Jet Dyeing

    Questa sera ceniamo al Ricordi

    Seconda Parte

    Sul nido del cuculo

    Lombrichi, topi e lame di coltello

    La Serio

    Il gruppo Goal-Redian

    La memoria dell’acqua

    Charlotte

    Sei uguale a Gorbachov!

    Le ciliegie quadrate

    Stimoli al sistema limbico

    L’amore che educa l’amore

     La fibra umana

       Emanuela Serughetti

       Temperino rosso edizioni

       Prima edizione 2017

       Grafica Afo-TR designer

       Immagine di copertina

       Alessandra Dosselli 

       Ball escape I 

       serie Escape 2002

       © 2017 Temperino Rosso Edizioni Fortini

       ISBN 978-88-98894-50-7

       A Renzo e Charlotte

       Questo romanzo è tratto dall’incredibile vita di Renzo Colombo, imprenditore bergamasco della tintoria industriale, innovatore del sistema di tintura della fibra in poliestere sin dagli anni del miracolo economico italiano. Le vicende narrate sono basate su fatti realmente accaduti. 

       Prologo

       L’incontro gentile all’orizzonte tra mare e cielo, tra acqua e aria, elementi così divisi ma in equilibrio tra loro, due tonalità fredde separate da una linea netta ma l’una il riflesso dell’altra, esprimeva una tale profusione di tranquillità e di primordiale armonia che servì a Renzo per trovare l’ispirazione ad aprirsi a se stesso. Tutta la sua vita era stata una ricerca della combinazione ottimale, della giusta misura, della mescolanza chimica appropriata tra colorante e fibra tessile, del loro legame ideale, della stabilità perfetta e del risultato migliore, ma senza sapere che lo avrebbe portato ad ammettere, all’età di ottant’anni, di quanto inutile sia ogni tentativo di cancellare l’imperfezione. Quel giorno di ottobre del duemilatredici, sulla spiaggia di Las Terrenas nella Repubblica Dominicana, si era concesso qualche minuto di solitudine per confrontarsi con il concetto di distanza. Nello sfavillio dei suoi occhi si riassumeva la vastità dell’oceano che lo separava dalla sua terra d’origine, l’Italia. La distanza che percepiva si faceva addirittura maggiore se pensava all’Italia di qualche decennio prima, all’Italia della sua infanzia, della guerra, all’Italia dei suoi figli e di quando tutti lo conoscevano come Renzo Colombo il maestro indiscusso dell'industria tintoria. La volta celeste sopra la sua testa gli suggerì che forse c’era ancora qualcuno a pensarlo. Le lunghe onde verdi, come lamine di cristallo lambivano la battigia senza sosta e nella simmetria di quel momento lo ispiravano a buttar fuori ciò che con impeto e insistenza si muoveva dentro di sé. Aveva bisogno di essere confortato. Nonostante l’infinità di chilometri di tessuto su cui aveva realizzato il suo successo gettasse un ponte lunghissimo nel tempo su un campo sterminato di persone, soltanto i suoi genitori riuscivano ancora dall’aldilà a essere un faro per lui. 

       Quel giorno alla natura non mancava di certo la vivacità del sole mattutino ma nonostante ciò la sua nave era in balia dei marosi nell’oscurità mentre lui, come un capitano esperto, riusciva a non perder d’occhio quel faro. Se pensava ai suoi figli invece, l’unica cosa che gli veniva in mente poteva essere paragonata a tutto ciò che si nascondeva sotto quell’enorme superficie d’acqua, fino agli abissi più oscuri e inesplorati. La parola fallimento per lui era ancora tutta da analizzare, ma in ultimo tornava spesso sulla riflessione secondo cui più si era dato da fare per raggiungere i suoi obbiettivi, più aveva originato una perniciosa impresa di decostruzione famigliare. 

       La brezza salina che veniva dall’oceano ebbe un’eco fredda nel suo petto e lo fece improvvisamente rendere conto dell’incipiente senso di solitudine che aveva dentro. Come non gli era mai successo prima, ora riusciva a scorgere nella trama della vita i segni della sua imperfezione che forse aveva da sempre cercato di cancellare sui suoi tessuti. Sentì crescere l’impellente necessità di rendere giustizia all’incompleta versione dei fatti che considerava essere stata la sua esistenza. Il declino, l’avvicinarsi del traguardo inesorabile, lo faceva sentire nostalgico e l’idea di lasciare tutto per iscritto era ciò a cui aveva cominciato ad anelare maggiormente. Desiderava che il suo messaggio fosse reperibile anche a distanza di tempo. Una distanza per lui impercorribile a differenza di ciò che credeva solo qualche anno prima, quando le stanze del suo corpo, come una casa, attendevano perennemente di essere riverniciate di fresco e mai erano state ammobiliate a sufficienza per essere considerate abitate in modo definitivo e stabile. Il luogo in cui si trovava, le lunghe spiagge bianche quasi deserte e quell’enorme massa d’acqua coi suoi giochi di riverberi di luce dorata, lo portava a immaginare di perdersi nell’infinito e, per contrasto, a farlo sentire un piccolo essere imperfetto al quale era sfuggito il vero senso delle cose. Dopotutto era un vegliardo a cui rimaneva soltanto di scoprire la sua ultima ricetta chimica che, come era successo per i suoi prodotti tessili, avrebbe potuto dare alla sua fibra d’uomo il colore e la resistenza giusti per il suo abito migliore. Nonostante ai suoi famigliari avesse dato le possibilità e tutto il necessario per condurre una vita agiata, lui aveva la netta sensazione che era sempre mancato un ingrediente chiave. Non vedeva i suoi figli da tempo ed era arrivato a pensare che forse, per il momento, era meglio così; tuttavia sentiva che la parte essenziale di sé non era mai affiorata in superficie. Perciò avrebbe dovuto lasciarne traccia in uno scritto e affidarlo al mondo nello stesso modo in cui avrebbe affidato un messaggio in una bottiglia all’oceano, quell’oceano vasto che aveva davanti, con le sue infinite destinazioni, infinite possibilità. 

       Renzo era un uomo del Novecento e il mondo del nuovo millennio lo vedeva attraverso una fessura, e nonostante il suo annichilimento e la convinzione che fosse rimasto il vuoto del rapporto con i suoi quattro figli, credeva di avere ancora qualcosa da dire in quanto a esperienza e, pensando alle nuove generazioni, sentiva di voler essere di ispirazione, di esempio. In realtà, nel suo profondo, sperava di esserlo ancora per loro. 

       La sua infaticabile dedizione al lavoro e il suo coraggio a prendersi dei rischi durante tutta la sua vita, si potrebbero spiegare meglio con la paura e il senso di impotenza generati dalla guerra e dal regime fascista e alle gravi conseguenze che ebbero sulla dignità dei suoi cari. Renzo era convinto che tutto ciò che più tardi riuscì a creare, fosse il frutto della fame provata in quegli anni. Credeva che la caparbietà e la determinazione erano stati i componenti principali del suo successo e da anni, con un chiaro riferimento a se stesso, andava ripetendo che ‘un capo nasce capo, non lo diventa.’ Ma allo stesso tempo si sentiva di dire che uno ce la potesse fare anche partendo da zero come era capitato a lui, anche nella crisi che l’Italia in quegli ultimi anni stava attraversando. Bisognava forse chiedersi a cosa si è disposti a rinunciare. 

       Così si decise e s’incamminò lungo la spiaggia. Era stralunato. Guardandolo, si poteva pensare che gli fosse successo qualcosa. Muoveva passi vigorosi, le sue gambe vizze, abbronzate e venate appena di verde erano tese in uno sforzo inconsueto e sbucavano dai pantaloncini di cotone naturale per sprofondare a ogni falcata nelle dune sabbiose. Conservavano ancora un po’ della tonicità giovanile esibita nelle tante volate in bicicletta sulle strade di montagna. Dimostrava dieci anni di meno. Aveva ancora una postura eretta e un fisico asciutto. Nei suoi occhi crepuscolari vi era ancora la traccia di un antico furore. L’oceano se lo stava lasciando alle spalle, ma lui continuava a sentire i suoi movimenti ondosi che non smettevano di esortarlo a liberarsi. Doveva solo trovare un quaderno e cominciare a scrivere. 

    Prima Parte

       Poteva essere già morto

       Poteva essere già morto. Dopo il nulla, il buio in cui era rimasto sospeso per un tempo indefinito, Fermo Colombo si ritrovò stretto in una bianca matassa di nebbia che odorava di terra umida e di marciume vegetale. Le fitte particelle d’acqua si raccoglievano in piccole gocce sui suoi radi capelli canuti e sul viso grinzoso, per scivolare lungo le guance come lacrime di qualcun altro. Il silenzio era tale che le sentiva scorrere sulla pelle e infrangersi sul bavero della sua giacca di panno. Percepiva i suoi piedi appoggiati sulla dura terra irregolare e avvertiva nei muscoli delle gambe, la gravità farsi sempre più incontrastabile. Il freddo di novembre avvinghiato sulla sua schiena e lungo gli arti scricchiolanti, insieme a un piccolo focolaio pulsante nelle viscere, gli davano ancora la consapevolezza del suo vecchio corpo. Il respiro affannato, i deboli battiti del cuore erano il suo orologio biologico mal funzionante che pareva pronto a fermarsi in ogni momento. O forse era già successo e quella parvenza fisica era solo un’incisione rimasta nella sua memoria. Eppure, nonostante nella letargia in cui era sprofondato gli sembrasse di avere tutto il tempo del mondo a disposizione, era avvolto dalla sensazione di stare ad aspettare qualcosa. Fermo era affacciato al margine della sua esistenza in un punto in cui pareva non rimanesse altra prospettiva che quella alle sue spalle, verso un passato di cui percepiva la consistenza ma che per quanto si sforzasse non riusciva a distinguerne le forme né i colori. Se provava a ricordare un volto o un nome, o anche solo chi fosse, dove si trovasse e da dove provenisse, l’effetto era lo stesso di gettare un sasso in un pozzo senza riuscire a sentire che ne toccasse il fondo. Provava un senso di vertigine vacillare senza riferimento alcuno sull’argine della sua vita e desiderava di non varcarne la soglia, di non morire, non in quel momento perlomeno, anche se a dire il vero non era nemmeno sicuro di essere ancora tra i vivi. Non provava paura, né il bisogno di farsi coraggio. Come in un sogno dove vaporose apparizioni delineano l’idea di ciò che ancora deve accadere, avvertiva di avere qualcosa da fare e che qualcuno lo stava aspettando al di là della nebbia. 

       A un certo punto sentì in lontananza una voce ovattata chiamare un nome e diceva ‘Fermo, Fermo’ descrivendo malamente lo spazio attorno, percorrendo distanze imprecise che parevano vaste, aperte e raggiungere appena le sue orecchie per poi riversarsi dentro la sua testa come riempiendo un vaso vuoto. Tremava nello sforzo di contrastare la sua mente che chiedeva solo di assopirsi insieme al corpo, sempre più dominato dalle torture del freddo e della fatica. Poi un bagliore gli attraversò gli occhi e in quello che gli sembrava essere una lugubre eco che ripeteva continuamente ‘Fermo’ da lui inteso come esortazione a non muoversi, riconobbe il suo nome di battesimo, ma il massimo che riuscì a fare fu di abbandonarsi inerte nel dubbio che fosse solo il frutto della sua immaginazione. 

       Vaghe presenze cominciarono allora a radunarsi attorno al profilo sfumato della sua coscienza e l’immagine di alcuni uomini in uniforme scura, si delinearono nella foschia e con loro arrivò violento alle sue narici anche l’odore acre di polvere da sparo. Si muovevano lenti verso di lui, i loro elmetti ondeggiavano seguendo il ritmo di marcia. Fermo s’irrigidì, provò a indietreggiare mentre con gli occhi acquosi scrutava attraverso la coltre diafana davanti a sé e con il poco fiato che disponeva, farfugliò un ‘chi siete’ che aveva un tono di supplica e di fredda consapevolezza. Quelli non risposero. Si arrestarono e, simili a spiriti, rimasero dietro l’ultimo velo di nebbia, di modo che la parvenza onirica seguitò a ingannare Fermo facendolo cadere di nuovo nell’oblio. Una goccia d’acqua gli scivolò accanto al naso e s’impigliò all’angolo della bocca, espandendosi tra le labbra secche che si ritrassero e si strofinarono una contro l’altra. Deglutì e una palla di fuoco gli scese nella gola e poi salì, fredda, la morsa della sete e un impulso gli fece spalancare la bocca per inumidirsi la lingua. Trovò l’animo di biascicare un lamento, ma un dolore lancinante nel basso ventre lo svuotò della poca forza che lo reggeva in piedi e si accasciò, senza levare lo sguardo dagli uomini in uniforme grigio verde, i soldati dei suoi anni più neri che aveva rinchiuso nella soffitta dei ricordi più remoti, quando aveva visto morire anche la più caparbia delle proprie velleità giovanili. Freddo, immagini sanguinose, di corpi avvolti nel sudario, morte e terrore dappertutto. Tremava e si teneva stretto con le braccia. Uno sparo lo fece sussultare e si fece più piccolo, mentre lì nei pressi gli sembrava di vedere lampi di luce a cui seguivano scoppi di arma da fuoco. Gemeva tutto rannicchiato, cercando di racchiudersi attorno al petto dove era ancora caldo il focolaio del cuore in cui si generò l’urlo greve che traboccò dalla sua bocca.

       Più aspra l'impresa più forte l'ardore. Ventiseiesimo reggimento fanteria Bergamo quindici diciotto e in un crescendo di disperazione ripeté più aspra l’impresa più forte l’ardore. Ventiseiesimo reggimento fanteria Bergamo quindici diciotto! 

       Vide un soldato staccarsi dal gruppo, attraversare il velo di nebbia e dirigersi verso di lui. Aveva un fucile nelle mani e teneva il calcio sotto l’ascella, poi all’improvviso la chiara visione di un uomo e del suo volto trascese ogni tempo e ogni timore remoto. 

       Renzo! 

       Il nome di suo figlio affiorò alla sua mente prima che sopraggiungesse di nuovo il buio e mentre lo pronunciava più e più volte, riuscì a sentire la sua voce scivolare nel tono incerto della commozione. Poi, di colpo, un dolore acuto s’irradiò sotto il costato, gli si annebbiò la vista e nello stesso momento sentì qualcosa afferrarlo saldamente a un braccio. 

       Quando Fermo riaprì gli occhi, Renzo fu la prima parola che pronunciò di nuovo. Avvolto nelle coperte di lana riconobbe il suo letto, la sua stanza nella penombra; di fronte, appesa al muro dove era sempre stata, vide la sua pergamena di onorificenza a Cavaliere di Vittorio Veneto, corredata di croce al merito di guerra. Emise un lungo sospiro. Lì vicino c’erano i suoi figli Renzo e Angiolina e sua moglie Maria che si spostava da una parte all’altra in fondo ai suoi piedi, la cui sola presenza sentiva abbracciarlo caldamente. Da qualche parte anche Silvana era nella stanza, la madre dei suoi nipoti, i figli di suo figlio, e anche se non riusciva a vederla, sapeva che c’era e sentiva chiaramente la sua silenziosa preoccupazione. Sembrava quasi divertito del poco che ricordava essergli capitato e neanche un po’ sorpreso di trovarsi lì, come se l’avesse chiesta lui una seconda possibilità e qualcuno gli avesse concesso di sospendere, sullo scoccare dell’ultima ora dei suoi ottantotto anni, il verdetto della sua vita. 

       Io dico che tu sei matto! Farci preoccupare così per quattro stupidi funghi. 

       Accettò senza reclamare il tono assertorio con cui Maria lo rimproverò.

       Mamma non esagerare, è già bello che lo abbiamo trovato e che non sia caduto nel fiume la redarguì Renzo. 

       Lascia che si riprenda e vedrai che quel testone di tuo padre lo fa di nuovo. Alla sua età dovrebbe starsene a casa, mica andare a funghi! Glielo avevo detto io che faceva freddo, ma lui niente, se ne è andato in giro da solo. Da solo! Io dico che è matto.

        Smettila mamma, per favore. Non vedi che non sta bene?, intervenne secca Angiolina, mentre accarezzava preoccupata la mano del padre; i capelli raccolti, il viso stanco e lo scialle di lana sulle spalle suggerivano che le ultime ore le aveva passate male. Maria uscì dalla stanza borbottando e andò in cucina per mettere il bollitore dell’acqua sul fornello. Si sentì impotente e faticò a trattenere il bisogno di piangere. Stava tremando. Svelta si asciugò la lacrima che le era scivolata accanto al naso, prese dalla credenza due tazze e dal cassetto in basso la borsa dell’acqua calda. In realtà, neanche lei sapeva cosa doveva fare. Immaginava che si fosse aperta una fessura nel soffitto della sua casa, il luogo che l’aveva tenuta sempre lontano dall’ignoto e dove era riuscita a ridurre la misura dei problemi entro lo spazio tra le sue mura. Costruita da suo figlio Renzo nel 1961 per ospitare tutta la famiglia, era un edificio a tre piani, con uno scantinato adibito a officina dove Renzo aveva passato ore, giorni interi del suo tempo libero negli anni addietro, per forgiare nuove idee e per costruire, insieme a un paio di amici, macchine ausiliare per la tintoria dove era impiegato. Le sue invenzioni gli avevano appianato la strada verso il successo e portato la ricchezza nella sua famiglia. Tra quelle mura Renzo aveva creato spazio per i sogni di ciascuno e per conservare i momenti più memorabili del loro passato. Seguendo il primo vero intento di proteggere le poche certezze che aveva nella vita, aveva innalzato in poco più di un anno la nuova casa mentre lui, là fuori, si giocava il tutto e per tutto per non far mancare nulla a nessuno di loro. 

       Ora invece, Maria sentiva chiaramente gli scricchiolii nei muri e lungo i pavimenti, come se a furia di rosicchiare, i topi e gli insetti che immaginava infestassero la casa, avessero raggiunto l’ultimo strato delle pareti e perforato le solette. Le sembrava di vedere, dietro all’intonaco intatto, buchi e fitte diramazioni di crepe che non presagivano nulla di buono. Sentiva tutto ciò che gli occhi non potevano vedere. La sua mente perlustrava attraverso i laterizi e lungo le tubature, temendo che prima o poi il danno sarebbe stato fatale e le pareti non avrebbero più retto. Anche se non voleva guardare, sapeva che gli spifferi gelidi che sentiva sul collo e lungo la schiena entravano da quella fessura aperta nel soffitto destinata ad allargarsi e a quel punto tutti i soldi del mondo non sarebbero più bastati per salvare né la loro casa, né le sue certezze. Maria ebbe un sussulto, si tratteneva dal guardare attraverso quello che ora gli sembrava essere diventato uno squarcio: non era pronta a conoscere la parte del mondo là fuori senza suo marito. Sapeva che nella vastità del cielo vi avrebbe visto la solitudine. 

       Versò l’acqua bollente nel contenitore, sperava che potesse servire ad alleviare a Fermo i suoi dolori di pancia scaldandolo un po’, così anche a lei forse sarebbe passato il freddo che sentiva dentro.

       Come ti senti papà? Ho chiamato il medico, sarà qui a momenti.

       Quel diavolo di mio figlio, ha sempre la soluzione pronta per tutto, pensò Fermo tirando le labbra in un sorriso incerto. Dalla cucina provenivano rumori di antelli che si chiudevano e lo scorrere dell’acqua nell’acquaio. Chiuse gli occhi e annuì, sollevato da tutte quelle attenzioni e consapevole che forse si trattava di uno degli ultimi attimi di lucidità che gli rimanevano, se non dell’ultimo, ma se ne guardava bene di suscitare qualsiasi moto di compatimento nei suoi confronti. Così, aiutandosi con il mezzo sorriso che gli si era fissato sul volto, provò a dissipare ogni traccia di fragilità e iniziò a ridere di se stesso. Sussultava come un vecchio catorcio arrugginito. Ogni tanto dava un colpo di tosse che risuonava come una mancita di sassi che sbatacchiavano nel petto.

       Non farmi scherzi almeno tu! Io devo star via per qualche giorno, ma tu cerca di riposarti, approfittò di dire Renzo a quell’invito ironico che dava da sperare.

       Quando parti?, bisbigliò.

       Domani mattina. Ho un volo per gli Stati Uniti. 

       Solo allora Fermo riaprì gli occhi remoti e stanchi e cercò i suoi.

       Ricordati il sigaro. 

       Pensò a tutte le volte che tornato dall’America, Renzo aveva mantenuto la promessa di portargli il suo sigaro preferito. Era un piccolo rituale di virilità tra gli uomini di casa Colombo, per lui un retaggio degli anni ‘30 quando il fascino maschile si misurava da quanto e cosa si fumava. A eccezione dei preti che aveva sempre considerato uomini a metà, farsi vedere con qualcosa da fumare in bocca, sia che fosse una pipa, un toscanello o una sigaretta, piaceva alle donne e accresceva la considerazione. In quegli anni era tutto diverso. Il problema era far rientrare la spesa del fumo nel bilancio famigliare e Fermo, sapendo che sarebbe stato più facile trovare l’oro nel fiume Serio, spesso raccattava i mozziconi che trovava in terra e poi rivolgendosi ad Angiolina, che a quel tempo aveva la fortuna di lavorare come impiegata alla tintoria del paese, le diceva ‘Angiolina hai mica ancora una di quelle veline che usi alla Iris?’, e con quella si confezionava la sigaretta con del tabacco -che pareva più un miscuglio di erbacce- e la faceva durare anche per diversi giorni, tenendola spenta, serrata tra le labbra. Quanto eran cambiate le cose! 

       Portami quello buono! 

       Gli era sempre piaciuto chiederglielo con il tono allusivo a un discorso da uomini piantato a metà da anni. La considerava una dimostrazione di intesa e di orgoglio maschio nei suoi confronti. Si ricordò di quando nel 1969, al bar Italia -il leggendario bar Italia- accendendosi il sigaro in compagnia dei suoi amici dopo che Renzo glielo aveva portato dal suo primo viaggio negli Stati Uniti, aveva dedicato a suo figlio il più elogiativo degli encomi dicendo ‘me lo ha portato mio figlio dall’America, guardate qui, dall’America! Questo sì che è uno di quelli buoni!’, e da allora era sempre stato così. 

       Renzo aveva rotto tutti gli schemi a cui Fermo era abituato. Quando era toccato a lui provvedere alla sua famiglia le cose erano diverse e in quel momento del 1976 pensò a quanto quel mondo che gli era appartenuto fosse lontano da lì, da quel letto e da quella stanza. Aveva fatto il selciatore sin da giovanissimo continuando la strada di suo padre dagli anni che anticiparono la Grande guerra, e per questo era conosciuto a Urgnano come Firèm de Sulì, quello che nel 1927 aveva realizzato il viale di ciottoli colorati per la chiesetta della Madonna della Basella, luogo di pellegrinaggio dove l’8 aprile del 1356 era apparsa la Vergine Maria. Andava a procurarsi i sassi colorati nel Serio e se li sceglieva accuratamente, perché ci teneva che dei suoi lavori si apprezzasse la finezza del materiale, oltre che la qualità della sua manodopera. Come tagliava le pietre lui non le tagliava nessuno. Con la schiena china sul terriccio, compattava bene il suolo su cui poi posava i mosaici con l’abilità di un artista. Quanti pensieri peccaminosi, quante preghiere, quante intime e silenziose riflessioni erano incorporate in quelle file di sassi. Era uno che lavorava duro. Si alzava presto la mattina e andava a letto poco dopo il tramonto. Era un buon cittadino, non voleva problemi con nessuno ed era riuscito a non averne mai e per questo si sentiva fortunato. In un certo senso, a quel tempo ci si abituava facilmente ad accontentarsi di poco, perché c’era poco di tutto. 

       Poi la guerra. Nella sua memoria si aprì un varco oscuro ripensando ai soldati con cui aveva dormito per alcune notti sotto un ponte di un posto lontano, al freddo, con l’acqua negli stivali e il fucile carico come poggiatesta. Come aveva sempre cercato di fare, tentò di seppellire il male di quei ricordi fin nelle sue propaggini, rifugiandosi nella voce di Maria che era entrata in quel momento nella stanza, annunciandosi con un ‘eccomi’ talmente energico da farla sembrare determinata a salvarlo. E quello bastò per sentirsi al sicuro e per farlo tornare indietro a momenti della loro vita insieme che erano in grado di scaldargli l’anima. Parecchi anni prima, un giorno di marzo del 1919 l’aveva notata mentre era seduta composta sulla panchina in un parco di Urgnano, vicino alla piazza animata dal chiasso del mercato. Aveva l’aria triste e guardava di lato in un punto nel vuoto. Era giovanissima, portava un abitino casto lungo fino al ginocchio e aveva i capelli scuri raccolti, la pelle liscia e nivea, la bocca inespressiva. Fermo, poco più che trentenne, era appena tornato dal fronte e la visione di Maria lo aveva riportato in vita. Le era andato vicino e le aveva detto solo ‘ciao’ per fare in modo che si accorgesse di lui. Lei si era voltata e quando i suoi occhi avevano incontrato quelli di Fermo, l’effetto era stato come quando un treno nella stazione emette l’ultimo sbuffo fermandosi dopo un lungo viaggio. Da quel momento il posto nel suo cuore, che prima era appartenuto all’uomo che l’aveva lasciata per partire per la guerra e che non aveva fatto più ritorno, l’aveva occupato Fermo nel modo più sincero e intenso, come neanche lei pensava potesse essere possibile. La luce dei suoi occhi verdi aveva aperto un varco di speranza la cui scintilla nemmeno la sua gelosa matrigna era riuscita a spegnere tutte le volte che, cercando di renderla brutta, le aveva messo dell’olio sui capelli corvini per dispetto. Dopo aver trovato Fermo, aveva trovato anche la spinta decisiva per fuggire da quei maltrattamenti e stare con lui. Nonostante suo padre aveva cercato di proibirle di andarsene di casa minacciandola di toglierle la parola, lei era rimasta impassibile in un mutismo quasi accusatorio senza rimedio. I due giovani si erano poi sposati e sistemati in un piccolo appartamento preso in affitto dalla curia. Nacque la loro prima figlia Giannina, ma destino volle che la meningite se la portasse via a soli undici anni. Il dolore provato da Maria per quella perdita, già conosciuto all’età di otto anni per la morte di sua madre a causa del vaiolo contratto sulla nave tornando dal Brasile, dove avevano vissuto i primi anni della sua vita, le aveva assicurato l’accesso al Paradiso di diritto agli occhi di Fermo. Lei non aveva mai smesso di parlare di Giannina come il suo angelo. Mentre in lui, la morte della loro figlia aveva intensificato il senso paterno di protezione nei confronti della sua donna. Non si era mai permesso di mettere gli occhi su un’altra e se a volte fantasticava pensando ai completini intimi leziosi o alle calze velate con la riga sul polpaccio in voga in quegli anni che solo le signore ricche si potevano permettere, lo faceva nei toni innocui della lecita curiosità maschile. Ogni sera tornava a casa con la schiena dolorante, la testa cotta dal sole e la gola raschiata per la polvere della strada che gli era andata di traverso, ma soddisfatto perché alcuni angoli abbelliti del suo paese avrebbero portato a lungo il suo nome. Mappe ingualcibili dei suoi pensieri. Questo, insieme ad avere Maria al suo fianco, gli era sempre bastato. Passati tre anni dalla morte di Giannina arrivò un’altra figlia, Angiolina, e dopo una decade fu la volta dell’erede Colombo.  

       Un’intera vita più tardi, guardando Maria accanto al letto mentre lo accarezzava e Renzo alle sue spalle con fare protettivo, Fermo pensò divertito al tempo in cui suo figlio frequentava la scuola elementare, quando aveva subito dimostrato una certa insofferenza per il divieto di promiscuità nelle classi imposto dal regime fascista.

       Ho parlato con la tua maestra oggi…, ricordò era cominciato così il primo approccio di Maria sul tema imbarazzante del sesso con il figlio, per il quale aveva preteso la presenza di Fermo …mi ha detto che guardi un po’ troppo le femmine, è vero? 

       Renzo, incapace di contraddire la mamma e rinfrancato dalla discrezione con cui aveva fatto riferimento alle ben più riprovevoli colpe nei confronti di alcune bambine, decise di essere ubbidiente.

       Non lo faccio più. 

       Fermo aveva aspettato che Maria si allontanasse, poi con un buffetto sulla guancia gli aveva detto compiaciuto: Bravo! È così che si fa. 

       Poco più in là negli anni, appena sedicenne, successe un fatto che richiese di nuovo l’intervento di sua madre la quale, sollevata di non essere tra le donne del paese totalmente condizionate dalla rigida pastorale della parrocchia, orgogliosa, diede una ben più forte dimostrazione di fiducia a suo figlio.

       Mi ha fatto chiamare don Gianni.

       Perché?

       Qualcuno gli ha riferito che tu, insomma… fai lo stupido con le donne sposate del paese, è vero?

       Renzo aveva imbronciato il viso e non seppe cosa rispondere. 

       Vai con le donne sposate Renzo? Ci vai a letto?, disse con evidente imbarazzo, chi può dire una cosa simile? aggiunse portandosi la mano sulla bocca.

       Maria preferì non insistere. Conosceva le bravate di suo figlio, ma anche l’iniquità di cui era capace la gente. Era solo un ragazzo dopotutto.

       Tu cosa gli hai risposto? Non gli hai creduto vero?, chiese Renzo dimostrando una caustica sicurezza.

       Certo che no! Gli ho detto di non rivolgersi a me. Mica siamo gente così noi e che se era vero, doveva rivolgersi a quelle donne, non a me. Gli ho detto che, da buon pastore, farebbe bene a parlare alle donne sposate che tradiscono i mariti, ecco cosa gli ho detto.

       Renzo abbassò lo sguardo e nascose un sorriso di soddisfazione. Nutriva un profondo rispetto per i suoi genitori e in cambio del loro esempio di rettitudine, di fiducia e degli innumerevoli sacrifici, si ripromise che non avrebbe fatto mancar loro mai nulla. Infatti, anche quando più tardi negli anni si creò una famiglia sua, i suoi genitori avrebbero sempre vissuto sotto il suo tetto. Insieme a Maria, Fermo aveva cresciuto i figli

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