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Una ballata d'Inverno
Una ballata d'Inverno
Una ballata d'Inverno
E-book132 pagine1 ora

Una ballata d'Inverno

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Info su questo ebook

Sbronzati! E mi raccomando ricordati, e non farti saltare in aria le cervella perché una mattina non hai digerito il whisky o perché ad un certo punto la vita non è andata dove volevi che andasse...il tuo cuore è un gigante sceso in un mondo di nani. Il paese, in basso, era quello di sempre, indifferente alla radice, idiota, circospetto come un gufo in un orologio, ed era qui che eravamo nati più di 3000 anni addietro. Era qui che un giorno Dio aveva perso le scarpe e il Diavolo la verginità. Una ballata...perché vivendo si balla. E si cade. E solo cadendo si imparano i passi di questo ballo. Una ballata, perché tutto in fin dei conti non è che una canzone. Una canzone che va dall'inizio alla fine.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2018
ISBN9788831909266
Una ballata d'Inverno

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    Anteprima del libro

    Una ballata d'Inverno - Alberto Lettori

    Temperino rosso

    edizioni

    Alberto Lettori

    Una ballata d’Inverno

    Temperino rosso edizioni

    Temperino rosso edizioni

    Prima edizione Brescia 2018

    Grafica Afo-TR designer

    Immagine di copertina di Mirco Sisi

    © 2018 Temperino Rosso Edizioni Fortini

    ISBN 978-88-31909-26-6

    UNA BALLATA D’INVERNO

    E ti aprii la porta e non sapevo l’ora né chi fosse e così pensai subito a qualche matto in cerca di un bicchiere di vino dove impiccarsi e cascai nudo e giù dal letto con la testa pesante per la sera prima e ricordo che pensai anche a come lo avrei cacciato di casa a calci e a grida quel matto e a come allora me ne sarei tornato a letto senza riuscire a riprendere sonno.

    Ma le parole del giorno prima, però, non avevo fatto i conti con la notte, le frecce francobollate in trenta sillabe di pensieri, alle tre, oppure alle quattro del mattino ubriaco.

    - ti voglio bene, ma non ti voglio più vedere

      Così che avevo scritto, ed era un anno che non ti vedevo, un anno senza tracce, sulla terra, nel cielo stagionale e nulla, avevi i capelli più lunghi e ancora

    - donne, donne e donne e mai quella giusta...

    E a quell’ora chissà quali inganni della coscienza e perché ero tornato di nuovo con la mente al ricordo, frugare un’altra volta nella tua vita, con le mie mani, sono azioni che si fanno quando ogni luce è spenta e l’anima bagnata apprende il coraggio dal suo diluvio, scrivevo

    - la consistenza di una lombata di manzo al sapore di lacca o il retrogusto di un romanzo scadente...ma forse è meglio così...sicuro...ti voglio bene, ma non ti voglio più vedere...

    Ma adesso non ricordavo la notte e quasi tutto, d’accordo, è un errore, ed io non sapevo, e poi ci sono momenti in cui un corpo è più predisposto e uno spirito è più fragile e basta un niente, un niente, un briciolo di vento per farlo tremare come il fiocco di una candela, è vero che a volte le domande fanno più paura delle risposte, e d’accordo anche che la brace sotto la cenere, e il gioco, o che l’ora più buia è il primo giorno di una nuova vita ma

    - anche se non è tanto, non ho mai scritto niente che non fosse per te

    E chissà in quale cimitero dormono tutte le navi e se le vele rimangono bianche e gonfie anche quando non è più l’ora del vento o se anche quelle non sono altro che delle bugie necessarie alla vita di tutti i giorni.

    - ma domani avrò vergogna di questa bischerata e comunque sia la vita non me ne pentirò. ti voglio bene, sì, ma non ti voglio più vedere...

    Quando aprii la porta pensavo ancora a un vagabondo o a un pazzo e alla scena che avevo già in mente, lì, pallido e nudo, che scaccio qualche ambulante in cerca di misericordia e mai il tuo corpo biondo, abbronzato nel grigio bagliore di un novembre, mai, e tu come ghiaccio con la faccia di chi ha appena bussato all’ignoto, due occhi che ti chiedono scusa dietro a una barriera di timori dettati dall’autunno o da chissà quale altra solitaria cavalcata nel proprio futuro, e ti feci così entrare, mentre cercavo una camicia e dei calzoni, senza baciarti, facendoti sedere e il passato affiorava dal silenzio e i nostri corpi si muovevano per la stanza dicendo tutto tranne che la verità.

    E mi raccontasti di tuo padre e dalla sua brutta morte, dei giorni in ospedale e del suo stomaco che si gonfiava d’acqua e di rimorsi per non averti potuto dare più di tutto quello che ti aveva dato, senza cercare parole che ci facessero capire o consolare, senza la complicità dell’orrore e col mio gatto che si muoveva per la cucina tra la legna secca da ardere e le tazze vuote di un caffè che non si decideva a passare, ed io fumando le tue sigarette, e tu bevendo nervosa il mio vino, all’ora della riscossa, mi dicesti che saresti partita di lì a due giorni, per l’America Centrale, con l’uomo che allora stava con te e che non sapevi e me lo giuravi, del perché eri lì in quel momento o perché dopo tanti anni qualcosa continuasse a chiamarti e a farti assalire dalla voglia di perdere e di avere tutto in una volta.

    E quando salisti le scale e andasti via il giorno non era ancora a metà, il pomeriggio appena affacciato ed io levai i panni bagnati dalla lavatrice che avevo fatto due giorni prima e che cominciavano a odorare di muffa e li stesi ad asciugare al Sole umido di novembre, trovandoli molto tristi e vivi e incredibilmente simili a noi.

    - mi sconvolgi

    La sera, ancora le parole, dopo il giorno malconcio, da un bar all’altro, senza dare onestà alla gioia, mi scrivevi questo.

    - è come se mi avessi sparato

    Ed io fantasticavo su chissà quali delitti, e a quale potere mi scorreva nel cervello, e non potevo fare a meno di ridere nello specchio davanti al goffo animale che scriveva canzoni d’amore e che puntava all’illusione più ambita e al suono della campana più che alla campana stessa e il tuo tormento nelle mie vene e la mia vita scanzonata che per un attimo aggrottava la fronte e mimava la faccia del padre eternale impiegato di banca e pensava a un domani che non fosse necessariamente scritto in endecasillabi e che per un istante lungo tutto una vita, credeva di aver capito e che non c’era differenza, nessuna, tra una guerra atomica e il primo sorriso inciso nel buio da una frase.

    - lo so che è pura malvagità, ma ti prego scrivimi ancora, canta ancora

    Ed io cantavo e cantavo di giovani vagabondi e di ragazze allegre e disperate perse in un arcobaleno di foglie morte e in questo non vedevo forse che un altro gioco, e niente malvagità per la vita Eterna, niente male e niente dolore più indispensabile e la notte gracidava indecentemente alle stelle, quando sputai nella fontana della piazza, sapendo che ogni casa e ogni sogno e ogni bar dormivano lenti e che i monti più in là circondavano di un focolaio di streghe questo e altri mondi, lasciandomi solo a domani e al vizio della notte, a qualcosa di lontano e di timido. 

    - scusa scusa scusa, è che voglio fare il maledetto, ma non mi riesce...

    E solo così sarei riuscito a dormire, senza pensieri, affogando in un presente di muri bianchi, rimbalzando come una palla da biliardo tra le sponde del paese, sorreggendomi alle ombre piantate nella terra come alberi e poi poche ore, pochissime ore prima di sentire ancora il suono della tua mano che batteva con più sfrontatezza alla porta di casa e sopra agli scuri dietro le cui ali di legno nascondevo la mia vita sotterranea, e se non altro, stavolta, avevo indosso i calzoni, e un vecchio maglione di lana che mi aveva fatto da coperta, e che mi pungeva la pelle.

    - che cos’è? 

    Mi dicesti

    - è questo tempo, questo tempo che mi distrugge...

    La sera prima, mi ero giusto licenziato dal ristorante dove lavoravo da più di un anno come lavapiatti e le prime immagini che mi si accesero nella memoria furono quelle della pancia e del culo del cuoco del ristorante che straripavano da sotto il grembiule e fuori dai pantaloni, provocandomi un conato di vomito.

    - sta andando tutto a rotoli

    - che cos’è?

    Non mi ero mai considerato davvero un cinico, per come la vedevo il guaio stava più che altro nel fatto che era pieno di gente che diceva che l’amore era la risposta ad ogni domanda e che poi viveva con la stessa profondità d’animo di un muro di mattoni, e chi invece compiva un qualche genuino atto di generosità come una parola sincera o semplicemente lasciando in pace il suo prossimo, era visto come un corvo assassino che odiava il genere umano, come se avesse avuto un’anima senza sapere che farsene, e la cosa non mi era mai andata troppo giù.

    Ma adesso lo sentivo, lo sentivo, e nel venirti incontro come l’ombra di una vita, il cuore mi cominciava a scoppiare nel petto, tra amore e alcolismo, in una specie di delirio dell’eros che scalciava dai più remoti celesti istinti della terra fino a impattare il brodo primordiale della creazione, passando per la ragion pura, la risata di Totò e la merda che il gatto, dopo aver bestemmiato per tutta la notte nella sua malinconica lingua lunare aveva depositato in un angolo della cucina.

    - è questo tempo...questo tempo

    - ti prego, non parlare

    Il fiume cominciò poi a correre, e corse in me infantile e pazzo e puro verso il suo mare, mi entrasti fra le braccia senza chiedere permesso e non c’era porta e tutto fluiva come fosse già successo cento miliardi di volte e che ogni vecchiume letterario si rinnovasse di cinema e che gli immortali tornassero finalmente a cantare in coro il canto delle loro chitarre, dei loro coltelli puliti di sangue, e anche se anche allora non conoscevo l’orologio e sebbene siano queste cose

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