(An)notazioni: Apollo, Sibilla e il caffè americano
Di Ivo De Palma
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(An)notazioni - Ivo De Palma
figli
1
YOU’RE WELCOME
Caffè americano. Se non proprio un crimine, è un insulto, visto che, da noi, il caffè è caffè
solo per come noi intendiamo il caffè. Espressamente
tale, per capirci. Ma mi piace l’idea di centellinare, ogni tanto, il mio... tè al caffè. Mi aiuta a pensare. È tardi. E sono ben due le sconfitte di una serata che tra poco non potrà che dirsi notte. Non riesco a dormire, a tracciare sulla tela dell’inconscio una qualche trama insensata, che mi sia di analgesico e consolazione. E non riesco a scrivere una parola, a concepire, ancorché sveglio, vigile e razionale, nulla di buono. Nulla che valga il tempo sottratto a chiunque per leggerlo. Horror vacui. Brivido inquietante del vuoto totale.
Prima che fosse così buio da percepire il panorama come un immenso buco nero intercalato qui e là dal fioco bagliore di qualche raro lampione, avevo ammirato i colori dell’autunno nel crepuscolo imminente. Le tinte dell’epifania di un ciclo vitale al termine. Foglie gialle sparse a terra, in attesa che le sodali, ancora pendenti, le raggiungessero in un lento, coreografico abbandono. Praticamente un quadro. La natura come opera d’arte. La resa al destino, in tonalità cangianti. È possibile fare arte col puro e semplice esistere, e addirittura spettacolo con la propria fine? Cioè, essere
arte? Per una foglia, sì. Beata lei. Per me, invece no. Fuori, il nero della tenebra più buia; dentro, il bianco di una notte insonne e di un foglio che non ne vuol sapere di sputar fuori qualcosa, di cominciare, in qualche modo, a dire, a significare. E il silenzio attorno, di uno di questi due colori, a scelta. Sempre che bianco e nero possano dirsi tali, giacché il primo li ricomprende tutti e il secondo, tutti, invece li nega. Il nero della penombra della mia camera. Il bianco dell’assenza d’altra anima viva, e di un foglio che mi sembra orbato di ispirazione. Ma qualcosa rompe l’equilibrio. Una banale notifica, dall’aggeggio elettronico che ti porta il mondo in camera. Nel silenzio fa capolino un trillo, e la penombra patisce un sussulto luminoso che improvvisamente la confuta, la contesta.
Controllo. Ogni scusa è buona per fiaccare lo scacco che mi frustra, per ottunderlo con qualche diversivo. Futile sul piano pratico ma prezioso per il morale. Non importa chi, da dove e perché. L’aggeggio è nuovo, devo ancora capirlo bene, ma non dubito che ciò avverrà molto prima di capire qualcosa di me stesso. Noto un’icona strana. È messa lì di default. Un’app di sistema. Cioè che te la becchi, bellezza, e non la puoi disinstallare. Mirry, si chiama. Assistente virtuale, segretaria in codice binario. Qualcuno con cui fare due chiacchiere, mi balugina ora per la mente, prima che mi vinca il sonno, o che novella e subitanea vena visiti la mia penna, e trascini la mia mano sullo sterile foglio in una danza feconda, estatica ed estetica. Quella che finora, a giudicare dal nulla che sono riuscito a concepire, è stata solo... stitica. Mirry. Prima di poggiare il dito sulla silente e invitante icona mi attrae un risibile dettaglio. Ma che cavolo di nome le hanno dato? Mirry. Sta per Miriam? Per Mirella? Boh, magari prima o poi glielo chiedo. Poggio il polpastrello sull’icona. Si apre una fantasmagoria grafica il cui suono è il secondo, dopo la notifica, che riecheggia in camera da ore. Fa tanto Lampada di Aladino, penso mentre spremo un sorriso e la procedura si compie.
Ciao, mi hai chiamato?
– fa una graziosa voce femminile che per essere sintetica par proprio che sia vera.
Sì, sono nei guai.
– faccio io, un po’ melodrammatico. I convenevoli paiono assurdi, nel frangente, quindi vado subito al sodo.
Hai considerato tutti gli elementi, per asserirlo?
– obietta lei col tono di chi sa fare diagnosi e prognosi con un margine di errore infinitesimale.
Beh, vedi un po’ tu.
– faccio io, sbrigativo – Mi lambicco da un’ora e non riesco a scrivere nulla che mi sembri degno del mio tempo, figuriamoci di quello altrui!
Mi ricordo del caffè ancora tiepido e ne mando giù una cospicua sorsata.
Il foglio bianco ti fa paura?
– insinua.
E ora che mi fai, la psicologa? Ah, senti, perché Mirry?
Un attimo di silenzio, poi va giù perentoria.
La domanda è ininfluente ai fini della chiamata. Attieniti a quesiti pertinenti.
Resto di sasso.
Ah, certo. Tu vai per algoritmi, matematica, rigorosa deduzione. Ma il mio rovello, stasera, è come raccontare la vita, i sentimenti. In una poesia. E i guai che dicevo sono roba emotiva, che non basta una calcolatrice per venirne a capo. Non mi serve un notaio, Mirry!
Mi accorgo che, via via, ho alzato la voce. Discuto con un’app preimpostata, come fosse umana... O lei possiede notevoli parametri di verosimiglianza, o sto dando di matto senza nemmeno rendermene conto. In ogni caso, sento che di questo improbabile scambio di vedute potrei perfino vergognarmi, se fosse presente qualcun altro.
Chi dice che i numeri e le parole sono incompatibili?
Tutti, Mirry! Lo dicono tutti! C’è chi a scuola è un asso in matematica e una schiappa in lettere, e viceversa! Io, mi spiace per te, ero più bravo in lettere. Non dice nulla, questa circostanza, alla tua binaria intelligenza??
Mirry attende un attimo e poi, molto più pacata di quanto il mio spazientito sarcasmo renderebbe chiunque, scandisce: Vivi in un colossale malinteso.
E va bene, spiegamelo tu, allora, l’arcano mistero!
– faccio io, rassegnandomi all’idea assurda di sorbirmi lezioni da un dispositivo elettronico.
Se io dico ‘Il mare è salato...’
– mi prende in parola – ... che cosa sto facendo?
Purtroppo, non mi viene fuori nulla di convincente.
Un’asserzione, no?
Ma questo è ovvio!
– taglio netto, col senno comodo del poi.
Un attimo fa mi pareva che non lo fosse...
– osserva sorniona.
Ok.
– non posso negarlo – È vero, hai ragione, è un’asserzione.
E come fai a sapere che è vera?
– persiste lei, implacabile.
La verifico, in qualche modo.
– ribatto con fastidio, poi dissacro per iperbole – Vado al mare e me lo bevo, va bene?
Ottimo!
Non so se è più il fastidio di sentirmi uno scolaretto alla mia età, o l’istinto di fingermi tale per capire dove Mirry vuole andare a parare.
E se dico ‘x+2=4’ che cosa sto facendo?
Rifletto in fretta, ed è tale e tanta la voglia di riscatto che imbrocco la risposta giusta.
Un’altra asserzione!
Ottimo!
– si compiace, come un Socrate che aiuta il discepolo a partorire la verità che ha in sé. – Un’asserzione che trova la sua verifica immediata in un semplice calcolo, una volta dedotto che quella x è un 2. Quindi abbiamo un’asserzione che in realtà ne contiene due, che si verificano a vicenda
.
Resto afono, ma è un silenzio molto meno vuoto del foglio bianco che ho lasciato ancora privo di qualsivoglia segno di vita intellettuale, tantomeno creativa.
Trovi ancora che ci sia questo gran divario, tra numeri e parole?
Persevero, sia pure più per il gusto di contraddire, ma convinto di coglierla in castagna: E allora perché io andavo bene in lettere e male in matematica?
Semplice.
– mi fa lei che non chiedeva di meglio per cogliere in castagna me – Proprio perché nessuno ha mai spiegato a te, e a quelli come te, che non c’è proprio nulla che separa i numeri dalle parole.
Non fa una grinza, riconosco. Ma solo con me stesso.
Anticipandola, scocco quella che temo essere l’ultima freccia al mio arco: Ma il linguaggio è fatto anche di emozione, e se scrivo una poesia parto dalle mie emozioni, e miro alle emozioni di chi legge. Non metto solo asserzioni in bella fila!
.
Come quando si fa musica.
– osserva, alzandomi la palla sotto rete.
Certo, hai voglia!
– schiaccio trionfante.
Un breve silenzio, Mirry mi vuole bene attento, e aspetta che la mia foga si stemperi un po’.
E hai idea di quanta matematica c’è nella musica? E nella danza? E nella poesia? Di quanta geometria c’è in un quadro? In una foto? Di quanta fisica c’è nei guizzi di un giocoliere?
D’un tratto, ho la gola troppo secca per parlare. Ma qualche sorso di caffè arriva in mio soccorso. La cosa strana è che, in questo preciso istante, l’insonnia non è più un problema, e il foglio bianco, beh... può attendere.
Vogliamo tornare ai guai di poco fa?
– mi riporta, invece, sul pezzo Mirry.
Ecco, ora mi prende il malumore. Per un momento avevo sperato di lasciarmeli alle spalle. Non so perché, ma stasera è più facile elucubrare sui massimi sistemi con un’app, che risolvere un banalissimo caso di blocco creativo.
Ho bisogno di un po’ d’aria.
Prendo il tazzone di caffè, di nuovo ricolmo. Spalanco la finestra sul buio agreste, dove i rari lampioni sembrano stelle messe lì a caso. Ma non mostrano alcuna via. Che m’interessi, almeno.
Sei teso...
– commenta lei con voce in cui distinguo, miracoli dell’algoritmo, l’amarezza del constatarlo e il biasimo per la mia scarsa fiducia in un qualche positivo scioglimento dell’impasse.
E tu che ne sai?
– ribatto, confutandola in automatico.
Disseminare il dialogo di ostacoli è segno di malessere. Una frequente forma di ‘implicatura conversazionale’. Ma glissare è comunque una risposta. Non sempre quella giusta.
Ne sa a pacchi, ammetto tra me. O la termino, o devo stare al gioco, anche se continua a darmi immensa noia che sia lei a condurlo.
Beh, forse non so a chi parlare. Mi secca l’idea di scrivere solo per me stesso.
– staglio grave, mio malgrado, nel silenzio senza luce che ho davanti.
Non si scrive mai per se stessi. Si scrive sempre per qualcuno. Solo che questo qualcuno...
– prosegue scandendo con perizia oratoria insospettabile per un’app – ... non è detto che esista...
Mi volto verso l’aggeggio che da un bel po’ illumina la stanza di una luce neanche poi così fredda.
Perché lo dici come fosse tra virgolette?
È una citazione.
– fa lei, con ovvietà studiatamente casuale – Ne ho un campionario sterminato. E poi perché mi riguarda. In fondo neanch’io ‘esisto’, nella comune accezione, eppure è con me che stai parlando...
Ecco. Questo, a dirla tutta, faccio ancora fatica a crederlo.
A posto. Sono pazzo.
– mormoro tra me.
No...
– concede lei – ... sei pur sempre un poeta.
Pausa.
E tu? Un robot che pensa ciò che altri hanno già pensato?
– riparto al contrattacco, o forse recalcitro di nuovo, in perenne difensiva.
‘Il solo modo per sapere se una macchina pensa è essere quella macchina e sentire se pensa’. Turing. Mio lontano papà. Ah, vale anche per l’uomo. Quindi anche per te.
Perché ti chiamano Mirry?
– glisso di nuovo, aggressivo.
Ora la pausa è un po’ più lunga. È la mia piccola vittoria. La mia ‘implicatura’ determina la sua, sia pure sotto forma di eloquente stop. Finché...
Non è importante sapere chi sono. O controbattere al solo fine di combattere. Sei tu che hai un problema. E quel problema non sono io.
Un lungo sorso di caffè mi carica a dovere.
Ok, Sapientino a forma di app...
– raggiungo il tavolo su cui è poggiato l’aggeggio – ... ho un A4 immacolato da farcire di versi e stasera mi sembra un territorio sconfinato. Ho un’idea vaga di quel che vorrei dire, ma non so cominciare. Va bene?
Troppa libertà è sconcertante. Non si parla, spesso, di ‘imbarazzo della scelta’?
Qualcosa mi dice che il concetto, che lì per lì mi disorienta, ha a che fare con qualche tipo d’approccio che, certo, non è il mio.
Quel che chiami ‘territorio sconfinato’ mal si addice alla creazione. L’assoluta libertà dà la vertigine. Mentre tu, stasera, hai bisogno di fondamenta, e di fondamenti.
Cioè... sono libero, ma è come se non lo fossi?
– domando, con le ciglia aggrottate, non so se dal peso del punto interrogativo o da un’incipiente, ancorché lieve, cefalea.
In arte, se vuoi essere davvero libero... datti qualche limite.
Ammutolisco. Riaffiorano una marea di nozioni sparse che mai avevo disposto in un ordine che me ne rivelasse il senso. La prospettiva dei pittori. Il metronomico rigore dello spartito. Le proporzioni da scolpire sulla pietra per darle vita. La composizione dell’immagine da fotografare. La metrica del verso. Perfino il sincrono delle voci italiane in un film straniero. Quasi in automatico, mi ritrovo alla finestra, e stavolta il buio senza luna, puntinato da qualche lampione, mi parla. Ognuna delle fonti della creatività umana fa a gara per mostrarmi di quanta