La scrittura e il debito: Conflitto tra culture e antropologia
Di Carlo Sini
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La prima parte di questo volume muove appunto da un commento delle tesi dell’autrice, mostrandone la pregnanza tematica per una scienza che pretenda di ricostruire il mondo arcaico della scrittura e delle umanità antiche. Il discorso si allarga così a un confronto fra antropologia e filosofia sul filo del problema generale della scrittura.
Tema ripreso nella seconda parte, in relazione a un celebre saggio di Lévi-Strauss volto a sfatare il pregiudizio razziale e le illusioni che da tempo accompagnano la sempre più problematica idea di «progresso». La questione che Sini solleva concerne la possibilità stessa di una «scienza» dell’uomo e in particolare concerne il confronto tra le culture: tema di scottante attualità, che affonda le radici nei presupposti stessi dell’atteggiamento scientifico in generale. Ne deriva un percorso critico acuminato e a tratti sorprendente.
Per Sini si tratta di delineare un nuovo modo di pensare il confronto e il dialogo tra le culture, a cominciare da una critica puntuale dei dogmatismi impliciti nella scrittura occidentale del sapere antropologico, per aprirsi a un senso solidale dell’umano che il nostro tempo in molti modi suggerisce e sollecita.
Carlo Sini
Ha insegnato per trent’anni Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano. Accademico dei Lincei e membro di altre accademie e istituzioni culturali italiane e straniere, ha tenuto conferenze, corsi di lezioni e seminari negli Stati Uniti, in Canada, Argentina, Spagna e altri Paesi europei. Per oltre un decennio ha collaborato con le pagine culturali del «Corriere della sera» e collabora tuttora saltuariamente con la stampa quotidiana, con la RAI e la Radiotelevisione svizzera. È autore di una quarantina di volumi, alcuni tradotti in varie lingue. Tra le sue più recenti pubblicazioni, presso Jaca Book: Idioma. La cura del discorso (2021); La tenda. Teatro e conoscenza (con A. Attisani, 2021); E avvertirono il cielo. La nascita della cultura (con T. Pievani, 2020); Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell’abitare (con G. Pasqui, 2020); La vita dei filosofi (2019); Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano? (con C.A. Redi, 2018); Trittico (2018); Inizio (2016); Incontri. Vie dell’errore, vie della verità (2013); Il sapere dei segni. Filosofia e semiotica (2012); Del viver bene (2011, ult. ed. 2021); Il comico e la vita (2003, ult. ed. 2017); Filosofia teoretica (1992, ult. ed. 2018).
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La scrittura e il debito - Carlo Sini
I
L’INVENZIONE DELLA SCRITTURA
Clarisse Herrenschmidt, ricercatrice presso il
CNRS
(Parigi) e docente di antropologia della scrittura, è una nota e molto stimata specialista degli studi di orientalistica, rivolti in particolare all’Iran antico, elamita e indo-ariano. I suoi lavori concernono principalmente la civiltà achemenide, il mazdeismo e l’antropologia mazdea.
Il primo capitolo della traduzione del saggio qui considerato e già citato («La civiltà elamita e la scrittura») esordisce ricordando che la civiltà elamita era estesa su una parte del territorio che attualmente chiamiamo Iran: «Due zone, principalmente, hanno segnato tutta la sua storia: la Susiana, pianura attorno alla città di Susa, situata a sudovest dell’Iran, un po’ a nord della città petrolifera di Ahvaz. In giustapposizione diretta con la Mesopotamia, la Susiana partecipò, talvolta marginalmente, talvolta in modo più integrato, alla civiltà mesopotamica». Poi c’è l’Iran dell’altopiano, comprendente lo Zagros centrale e meridionale, la Perside e il Kerman. Qui fiorirono numerosi centri di cultura elamita, di cui il più noto è Anshan, nel cuore dell’Elam propriamente detto. «Recentemente scoperto ed esplorato, questo luogo ha restituito testi di tutte le epoche, lasciando intravedere una cultura originale (…) L’Iran occidentale e centrale era abitato da popolazioni elamite, per noi autoctone». Esse, cioè, erano già sul posto quando la documentazione storica per noi comincia.
La lingua elamita, che non è imparentata con nessuna lingua antica o moderna, ci è sconosciuta. Tra la metà e la fine del
II
millennio, ma soprattutto nel
I
millennio precedente la nostra era, l’Iran fu invaso un po’ alla volta da quelle popolazioni che diedero appunto alla regione il nome di Iran, parola che significa «paese degli Arii», la cui antica lingua apparteneva alla famiglia delle lingue indoeuropee, imparentata col sanscrito vedico. «Linguisticamente, politicamente e culturalmente, gli Iranici – che dovrebbero comunque essere chiamati Arii – soppiantarono l’antica civiltà elamita».
Da queste brevi notizie si comprende che la cultura elamita, quanto meno ai nostri occhi, sembra svolgere un’influenza discreta e appartata nel corso dei secoli, sebbene ciò sia soprattutto effetto delle scarse testimonianze rimasteci. «Malgrado questa povertà di documentazione, la storia della scrittura nell’Elam è complessa e appassionante; essa illustra la situazione geografica della Susiana e dei suoi abitanti, attratti talvolta verso la Mesopotamia, talvolta verso la montagna e l’altopiano iranico. Come si vedrà, la storia della scrittura nell’Iran elamita può fornire un eccellente terreno storico per una riflessione generale sulla scrittura, sui suoi rapporti con la storia e la cultura da un lato, con la lingua e il linguaggio dall’altro». Si consideri altresì che nell’Elam la scrittura «è soprattutto servita all’amministrazione e alla conservazione della memoria e della pietà regie».
Vediamo come la Herrenschmidt ricostruisce i primi passi che portarono alla creazione della scrittura. Ci imbattiamo dapprima in bolle, calculi, conti, tavolette risalenti alla metà del
IV
millennio a.C. Questo materiale, rinvenuto nel corso di spedizioni archeologiche nella città di Susa, è forse di poco successivo alla scrittura mesopotamica rinvenuta a Uruk
IV
, ma offre il vantaggio di rappresentare con maggiore chiarezza il cammino verso la scrittura, anche per la perfetta definizione stratigrafica operata dalla scienza archeologica nell’acropoli di Susa. «La chiarezza della successione nel tempo su un medesimo spazio ha un’importanza capitale: poiché per descrivere il cammino che condusse alla notazione del linguaggio, per tentare di comprendere le operazioni mentali realizzate dagli uomini più di cinquemila anni fa, non abbiamo bisogno di una ricostruzione proveniente dalla nostra intuizione, ma di una descrizione, anche imperfetta, di quel che ha avuto luogo nella storia».
Nella prima tappa di questo cammino ci imbattiamo dunque nelle bolle: «si tratta di borse d’argilla, più o meno rotonde, cave e contenenti i cosiddetti calculi, dall’antica parola latina calculus che è all’origine del nostro calcolo
. Questi calculi sono piccoli oggetti fatti da mano d’uomo con dell’argilla molle, modellati secondo forme diverse: bastoncini allungati, biglie, dischi, coni grandi e piccoli; l’uso dei calculi per contare è del resto molto antico, considerato che sono stati ritrovati in scavi su siti del
VII
millennio prima della nostra era».
«Sulla superficie arrotondata delle bolle si vede l’impronta di un sigillo-cilindro: un fregio raffigurante scene di lavoro (immagazzinamento dei raccolti, laboratori di tessuti e di vasellame) o di vita religiosa. Il sigillo-cilindro era un oggetto personale, la cui immagine impressa per il lungo sull’argilla molle permetteva di identificare il proprietario, un notabile o un funzionario; il sigillo-cilindro rappresentava insomma uno status sociale, testimoniando la presenza di un’autorità centrale. L’insieme: bolla, sigillo-cilindro, calculi, costituiva un mezzo per registrare una transazione, un trasferimento di beni. È allora probabile che delle bolle identiche siano state fatte in duplice esemplare, una conservata dal privato che partecipava alla transazione – le bolle sono state infatti trovate in abitazioni –, l’altra invece conservata dall’amministrazione. In caso di contestazione ci si poteva dunque richiamare al documento contabile».
Vediamo ora la seconda tappa. «Si tratta sempre di calculi all’interno di bolle; sulla superficie tuttavia figurano, oltre all’impronta del sigillo-cilindro, delle tracce sconosciute. Questi segni possono essere: una tacca lunga e fine, un piccolo cerchio, un grande cerchio, una tacca grande o ancora una grande tacca accompagnata da un piccolo cerchio. Una bolla con dei calculi e dei segni impressi sulla superficie può essere rotta e questo permette di osservare se la quantità indicata dai calculi corrisponde a quella riprodotta dai segni impressi sulla bolla». Invero vi è incertezza tra gli studiosi su questa esatta corrispondenza, ma ciò che è certo è che segni e calculi si riferiscono a delle quantità; per esempio, la tacca lunga e sottile e il corrispondente bastoncino modellato rappresentano l’unità.
Veniamo alla tappa successiva stabilita dall’archeologia. Qui troviamo delle «tavolette a forma di cuscinetto, arrotondate e oblunghe; queste tavolette non sono altro che le antiche bolle divenute compatte. Le quantità sono notate con l’impressione dei medesimi segni, che, senza relazione ormai con i calculi, sono diventati delle cifre, cioè dei segni utili a notare convenzionalmente dei numeri. Le tavolette portano ugualmente l’impronta di un sigillo-cilindro. Parallelamente a questi primi documenti contabili venivano anche fabbricati dei gettoni, piccoli oggetti di terracotta dei quali alcuni hanno forma riconoscibile: una testa di bue, una brocca (senza dubbio una misura di capacità), mentre altri hanno forma triangolare. Anche questi gettoni sono riferiti a transazioni, come provano certi segni: tre o sei punti impressi sui gettoni a forma di brocca, sei punti su un gettone a testa di bue, mentre sui gettoni triangolari appaiono linee che significano forse delle frazioni di oggetti indeterminati. I gettoni, che non portano l’impronta del sigillo, preannunciano, per la loro forma, i pittogrammi. Noi non conosciamo tuttavia la differenza d’uso tra le registrazioni a bolle, sigillo, cilindro e calculi, e le registrazioni con i gettoni. Ma da un punto di vista formale, l’invenzione della scrittura riposa sulle bolle con una traccia di sigillo alla superficie e calculi all’interno. Le tavolette immediatamente posteriori, rettangolari e più piatte, sono delle autentiche tavolette con cifre e segni pittografici, il cui uso andrà diffondendosi ma sulle quali l’impronta del sigillo-cilindro si fa più rara. Questi segni – il disegno di una giara, per esempio – rappresentano le cose il cui scambio, consegna o stoccaggio sono oggetto della transazione o della registrazione; di questi segni si può ormai dire che sono scritti
».
Tali, osserva la Herrenschmidt, sarebbero insomma i modesti inizi della scrittura. «La scrittura non inizia dunque con la rappresentazione grafica degli oggetti della transazione – siano essi giare o capre – ma dalla loro quantità. La registrazione della quantità ha comportato la raffigurazione dei numeri con delle cifre. Ma che cos’è un numero? Un numero non è un’entità del mondo visibile, ma un atto dello spirito umano. Il fatto di dire che ci sono tre mele su di una tavola non dice niente né della singola mela, né delle mele in generale; ne venisse aggiunta una oppure ventimila, le prime tre non ne sarebbero assolutamente modificate. È lo spirito umano che è capace di contare e che impone la numerazione alla realtà. L’invenzione della scrittura non ha allora nulla di immediato, dato che non si è cominciato a scrivere disegnando ingenuamente le cose del mondo. Nella scrittura dei numeri, la prima operazione è quella di pensare un numero, la seconda quella di rappresentare tale numero attraverso un calculus. Dal momento in cui i prodotti dell’attività mentale si resero visibili – i numeri attraverso i calculi –, la scrittura, duplicando questa prima rappresentazione nei segni, ebbe inizio».
Lo stesso del resto si deve dire dei pittogrammi. Come rappresentazioni delle cose del mondo visibile, o «scrittura delle cose», secondo la definizione di J. Bottéro, essi si fondano nondimeno sul processo di «nominazione». «I pittogrammi sono i ritratti delle cose del mondo, che sono già rappresentate dal loro nome: anche qui come per le cifre ci troviamo di fronte a una rappresentazione della rappresentazione, ma questa scrittura delle cose si presenta sotto un aspetto ingenuo, quello della percezione prima. La scrittura dei numeri, come la scrittura delle cose, nasconde, in riferimento ai calculi da un lato, alla forma delle cose dall’altro (gettoni e pittogrammi), quelle creazioni mentali prime che sono la numerazione e la nominazione
. Allo stato attuale della documentazione si può dire che fu la scrittura dei numeri a comportare la rappresentazione scritta delle cose».
A seguito di presumibili eventi militari, Susa e la Susiana si separarono dalla civiltà mesopotamica; il medesimo accadde delle tradizioni grafiche dell’Iran in generale e dei paesi mesopotamici. La cultura grafica di Susa, della Susiana e dell’Iran continuò il suo cammino sin verso il 2800 a.C., come documenta un numero piuttosto elevato di tavolette chiamate «protoelamite»: documenti contabili forniti di cifre e di pittogrammi per noi illeggibili, sia perché ignoriamo la lingua elamita, sia per il carattere molto astratto delle raffigurazioni (in questo diverse dai pittogrammi usati dalla scrittura dei Sumeri, «meno libera, più modesta, ma anche più realista»).
Per quel che ne sappiamo, dopo il 2800 la scrittura protoelamita scomparve, fatto da mettere in relazione con la scomparsa della città-stato: «realtà urbana con un cordone nutritivo
agricolo dove un’economia di redistribuzione coinvolgeva tutti gli abitanti. Terre e greggi appartenevano ai centri del potere, il palazzo reale e il tempio, talvolta riuniti in un solo centro di autorità;