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Mercurio. Una storia vera
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E-book433 pagine6 ore

Mercurio. Una storia vera

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Info su questo ebook

Carolina è una giovane neolaureata trasferitasi a Roma per convivere con Giacomo, un eclettico professionista conosciuto online. La fascinazione del personaggio incontrato nel blog lascia spazio alla più cruda realtà di una relazione squilibrata, infelice e senza amore. Mercurio entra nella vita di Carolina e Giacomo quando il loro amore è già al capolinea e le fatiche del vivere a Roma hanno ormai preso il sopravvento.
Mercurio è il primo cane per entrambi ed è un nordico, un cane primitivo, dal fortissimo istinto selvatico. Sin dal suo arrivo, Merry diventa una guida spirituale per Carolina. La aiuta a vedere tutte le circostanze violente che persistono nella sua vita fino a convincerla a scappare in meno di ventiquattro ore portando con sé pochi averi e, ovviamente, il suo Mercurio.
L’intreccio del proprio destino con quello di un Alaskan Malamute non è per tutti: questa è la storia di un amore vissuto, ricevuto e trasformato e di un complesso percorso di crescita a maturazione per Carolina, alla ricerca della sua strada, accompagnata dal suo cane.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2022
ISBN9788855392136
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    Anteprima del libro

    Mercurio. Una storia vera - Carolina Venturini

    Carolina Venturini

    Mercurio

    EEE - Edizioni Tripla E

    Carolina Venturini, Mercurio. Una storia vera

    © EEE- Edizioni Tripla E, 2022

    ISBN: 9788855392136

    Collana I Mainstream, n. 40

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi. La foto di copertina è © di Carolina Venturini.

    Questo libro narra vicende realmente accadute, ma i nomi di alcuni dei personaggi sono stati cambiati a tutela della loro privacy. Sono stati modificati anche i nomi dei cani, delle strutture e degli allevamenti, alcune zone geografiche e le tempistiche.

    Con amore infinito, la tua mamma

    Prefazione

    Questo non è il solito libro che racconta di un cane e del suo padrone, anche se il protagonista è Mercurio, cagnone gigante, fiero e dignitoso come solo i nordici sanno essere. Questa è la storia di Mercurio e Carolina, di quel legame di cuore, sudore e lacrime che li ha uniti e li unirà per sempre.

    Se avete lo stomaco debole non leggetelo, non c’è un lieto fine, perché Merry se n’è andato in un freddo dicembre, circondato dalla neve, lasciando un vuoto grande quanto la sua stazza. Ha lottato, Merry, fin da cucciolo, per la sua vita, per Carolina, contro i pregiudizi che lo volevano cane difficile, indomabile. E Merry non è mai stato domato, non ce n’era alcun bisogno. È stato amato, è stato visto e riconosciuto ed è in questo scambio con Carolina che è diventato un cane forte, fiero, dolce, fermo e al tempo stesso capace di un amore immenso.

    Questa è la storia di una relazione d’amore, di rispetto, complicità, scontri, dignità, di gioie e paure, una storia di malattia e di vita, di lotta e di rinascita. Di tutto quello che hanno condiviso Carolina e Mercurio.

    Questa è la storia di un viaggio di due anime, unite indissolubilmente da un legame, che va oltre ogni definizione e che non può essere definito e rinchiuso in parole.

    È una storia nella storia.

    Quella di Mercurio e delle sue passioni, dei suoi luoghi del cuore, delle sue lunghe rincorse e del suo tornare sempre da lei, da Carolina, l’unica capace di vederlo. Ed è anche la storia di Carolina, giovane donna che inizia con lui, a partire da quel primo momento di vita insieme a Roma, un viaggio di ritorno e di rinascita nella sua terra, il Friuli.

    Quello che hanno condiviso insieme nelle lunghe passeggiate solitarie, con la pioggia, il vento, la neve, a orari improbabili, è racchiuso in quegli sguardi con cui si dicevano tutto.

    Sono stati il sostegno l’uno dell’altra e insieme sono cresciuti, andando incontro ai cambiamenti della vita con le zampe e le scarpe sporche di fango ma felici di condividere i momenti tristi e quelli più lieti, fino a quell’ultimo saluto e a quel distacco tanto doloroso ma necessario.

    Quindi, se decidete di proseguire nella lettura, chiedete permesso ed entrate in punta di piedi nelle pagine di questo libro, così come si entra in punta di piedi nell’intimità altrui.

    Laura Cerone

    Psicologa e psicoterapeuta

    Prologo: mele e mandarini

    «Mercurio! Svegliati! Alzati!… Sì, pronto? Aiuto, mi serve aiuto! Mercurio è collassato, sembra morto, sbava, non si muove. Aiutatemi!»

    Sento la voce della mamma in lontananza ma è come un’eco che sfuma nella nebbia. Non so più dove sono. O forse sì? In mezzo al mare, tra le onde? Tutto, intorno a me, ruota e oscilla, ruota e oscilla. Vedo bianco. Ogni odore di campo è una zaffata. Ogni respiro è un vortice di nausea. Qualcosa mi risucchia. Precipito.

    «Signora, provi a scuoterlo.»

    «Ci provo, ma non si muove! Mercurio, amore mio, svegliati.»

    «Signora, noi non possiamo raggiungerla, non abbiamo un’ambulanza veterinaria. Quanto dista la sua auto?»

    «Siamo a tre chilometri dal parcheggio, non posso muoverlo, non si sveglia, non si alza!»

    «Lo scuota ancora, più forte!»

    Non sento più la voce della mamma. Sono in un buco nero. La terra si è aperta e cado, cieco, in un fondo senza fine. Il buio mi avvolge. Non rivedrò più la mia mamma.

    «Mercurio, amore, amore, svegliati!»

    Qualcosa mi afferra, mi scuote; vorrei non lo facesse, tutto gira senza sosta. Uno spiraglio di luce si fa strada. Mi manca l’aria, dove sono? Un grammo dell’odore della mamma si espande nelle mie narici e la vedo. La mia mamma. È qui. Sono salvo. Piange, mi guarda, ha paura, è con me.

    «Sì è ripreso!»

    «Lo copra con il suo giubbotto, avrà freddissimo. La aspettiamo qui, cerchi di arrivare prima che può.»

    Era il giorno in cui la mamma stava con me senza prendere la cuccia che si muove per uscire da sola. Aveva piovuto tutta la notte; la mattina, né io né lei avevamo granché voglia di bagnarci. Negli ultimi mesi, una debolezza altalenante era diventata la mia compagna costante; a volte, come quella mattina, avrei preferito restare a sonnecchiare sotto al ginkgo biloba piuttosto che camminare. Poi, però, la mamma aveva preso le chiavi, il giaccone. Si era messa gli scarponi che usa solo quando esce con me. Mi aveva messo il collare. Aveva scaraventato il guinzaglio nella bauliera. L’ho guardata e ci siamo capiti: sapevamo entrambi che lo prendeva solo pro forma ma che non lo avrebbe usato. I premi in tasca mi diedero la conferma che sì, stavamo per andare nella Grande Distesa. Di solito li prende quando sa che potrei incontrare lepri o caprioli e me li sventola sotto al naso prima che decida di seguirne le tracce alla mia maniera.

    Quel giorno la mamma era preoccupata. Mi diceva: «Speriamo di non incontrare nessuno per strada».

    Quando scesi dall’auto, una zaffata di urina pungente mi arrivò subito al cervello: era passato Gringo, quel molosso enorme e presuntuoso. Aveva marcato nel posto esatto dove gli avevo segnalato di non marcare! Subito, però, qualcosa, dentro di me, iniziò a non funzionare. D’un tratto, l’orecchio destro cominciò a farmi male. Scossi il capo, sperando di scacciare il fastidio. Non era un dolore lancinante. Era più che altro una stilettata che si faceva pungente mano a mano che avanzavo. Percepivo più intensi tutti gli odori intorno a me: il pelo della famiglia di lepri passata da poco, le impronte nel fango dei daini e dei caprioli che avevano pasteggiato da qualche ora, le marcature della volpe che si era toelettata. Ben sette cani erano già stati lì a fare una passeggiata. Tutti i loro odori erano troppo forti, mi arrivavano al cervello e mi rivoltavano lo stomaco.

    La mamma camminava lenta, mi guardava, mi studiava. Si accorse subito che mi faceva male l’orecchio. Me lo pulì. Il sollievo durò poco ma… Eccola! La traccia di Roger, il capriolo che gioca a nascondino con me tutte le volte!

    Stavo per rincorrerlo quando l’orecchio tornò a pungermi. Piegai la testa di lato e, al tempo stesso, questo movimento mi portò una nausea a ondate. La mamma mi pulì di nuovo, ma l’effetto durò poco. Non avevo forasacchi e sicuramente era vero perché d’inverno non ci sono. Mi promise che, se non fosse passato, mi avrebbe portato dal veterinario; la cosa, detto fra noi, non mi esaltava, immaginando le torture a cui mi avrebbero sottoposto per vedere dentro le mie orecchie!

    La Grande Distesa era il luogo che amavo di più in assoluto da quando ci siamo trasferiti: ampi terreni coltivati a rotazione, colline ricoperte da boschetti e rovi, un rio con acqua corrente e pareti ripide da scendere, isole sassose dove gli ungulati si fermavano sempre ad abbeverarsi. Le nutrie vi avevano fatto le tane. Tutt’intorno, canneti sporadici, rifugi di cacciatori e cataste di legna lasciate da contadini e boscaioli. Qualche deposito di balle di fieno, ristori in pietra con tetto in lamiera e, soprattutto, un’infinità di erbe selvatiche, fiori in primavera, tracce di greggi in transumanza, stanziali in loco per brevi periodi.

    Adoro le greggi e, più delle pecore vive, adoro le pecore morte lasciate sul campo dai pastori: mi regalano ossa straordinariamente gustose, che competono solo con le ossa abbandonate dei caprioli smembrati nella boscaglia, bottini che trovo soprattutto nel periodo della caccia. La mamma non è contenta dei miei trofei, ma ha capito che, per me, tenere in bocca questi femori o teschi significa sentirmi lupo. Sappiamo entrambi che, una volta posato il tutto nel giardino di casa, non è mia abitudine fare alcunché.

    Quel giorno, nella Grande Distesa non riuscivo a sintonizzarmi con l’ambiente circostante. Stavamo camminando da circa mezz’ora ed eravamo arrivati nello slargo del laghetto delle anatre selvatiche. Ero felice di essere lì perché c’era spazio, tutt’intorno a me, per correre senza dovermi preoccupare di nulla. La mamma era seduta sotto alla sua betulla preferita e io, vedendola, provai un moto d’amore immenso e di gioia di vivere profonda. Certo, mi sentivo a tratti debole ma, nell’aria, sentivo il profumo della neve in arrivo. C’era una quiete speciale. Dal cielo era comparso un raggio caldo di sole. La mia mamma mi guardava, era con me, i suoi occhi mi appartenevano. Sentii un impulso fortissimo di correrle incontro, saltarle addosso e darle mille baci perché l’amavo ed ero felice di essere qui con lei.

    Il campo arato da poco era nella mia traiettoria: l’ho sempre adorato per la morbidezza della terra e perché posso sporcarmi le zampe. Corsi dalla mamma pieno d’amore.

    Attraversai le zolle arate. Raggiunsi il prato con un grande sorriso, da zanna a zanna.

    Lei capì che volevo le coccole. Si alzò, allargò le braccia per prendermi ma, proprio quando stavo per tuffarmi nel suo abbraccio, tutto girò su se stesso, mi mancò il respiro e fu prima buio poi luce estrema, infine la voragine. Ero pieno di paura, non capivo cosa stesse succedendo, chiamavo la mamma, ma la mia voce non usciva, provavo a correre per scalare il tunnel, ma le mie zampe erano rigide e bloccate. Dalla mia bocca usciva del liquido e sentivo che, dallo stomaco, saliva qualcosa di nauseante, acido e tossico.

    La voce della mamma scomparve. Volevo dirle che la sentivo, che avevo bisogno del suo chiamarmi, che stavo combattendo per tornare da lei. Non capivo come fare. Non potevo. Non usciva alcun suono dalla mia gola e la bocca non si apriva. Il mio cuore era a mille anche se i battiti rallentavano sempre di più. Era questo morire?

    Non so quanto tempo restai in questa condizione. Quando riaprii gli occhi e rividi la mamma che piangeva e che mi abbracciava, piansi anch’io.

    «Amore mio! Amore mio! Resta con me, non morire, resta con me! Devi essere forte, devi alzarti! Dobbiamo andare alla macchina, dobbiamo andare dal veterinario. Ti aiuto, amore mio, ma devi alzarti! Bravo, così, piano piano! Resta con me, Mercurio. Resta con me!»

    Avevo poche forze. Le impiegai per rialzare il capo; doveva sapere che c’ero e che non ero morto. Parlava al telefono con qualcuno, poi si tolse il giubbotto e, piena di ansia e di lacrime, mi disse:

    «Merry, resta con me, guardami, resta con me, adesso andiamo. Merry la macchina è lontana quindi dobbiamo fare uno sforzo e raggiungerla. Resta con me, non andare via».

    Mi mise il guinzaglio e camminammo fino alla macchina, io con la coda bassa, lei come in trance. Mi ripeteva continuamente:

    «Resta con me, sono con te. La mamma è qui. Resta con me».

    In lontananza, l’odore acre della sterpaglia bruciata mi fece rivoltare ancora lo stomaco, ma mi feci forza, guardando la mamma, e continuai a camminare.

    Le zampe posteriori mi tremavano, la bile continuava a salire dallo stomaco.

    Quando arrivai in auto, la mamma mi prese in braccio per farmi salire e guidò, sempre piangendo e sempre parlandomi, fino al veterinario.

    «Da che parte è caduto il cane?» chiese l’anziana dottoressa.

    «Dalla parte della testa che teneva piegata, a volte, per via dell’orecchio.»

    «Molto probabilmente è sindrome vestibolare, un’infiammazione interna dell’orecchio, che gli dovrebbe passare entro una settimana.»

    «Può avere a che fare con la sua insufficienza renale cronica?»

    «No, l’orecchio non c’entra con i reni.»

    «Sa, in questi giorni è strano, chiede in continuazione mele e mandarini; è come se non ne avesse mai abbastanza.»

    «Non gli fanno male, ma gliene può dare al massimo uno al giorno.»

    «Lui ne chiede cinque, sette al giorno. Non beve dalla ciotola. È normale?»

    «Resti su un mandarino al giorno e su mezza mela. E gli dia questo antibiotico per l’orecchio.»

    «Potrebbe capitargli di nuovo?»

    «È stato un collasso lieve, signora. Può succedere che ricapiti e che abbia le convulsioni, anche molto forti.»

    «E se succede, cosa posso fare per aiutarlo?»

    «Niente, signora. Passano da sole.»

    Quando tornammo a casa, la mamma mi fece entrare in casa, ma mi vergognavo troppo per quello che era successo. Mi sentivo così debole; non mi piace farmi vedere così fragile e detesto farla preoccupare, dovrei essere io a prendermi cura di lei. Invece adesso ero così instabile sulle mie gambe e la nausea continuava ad attraversarmi.

    Mi lasciò raggiungere la mia cuccia sotto al portico e solo allora mi rilassai attendendo la notte. Rifiutai di entrare in casa. Restai a guardare le stelle.

    Avevo come un presentimento, come una nostalgia e tanta tristezza dentro al cuore: negli occhi della mamma non c’era solo la preoccupazione, c’era anche la certezza che questo era un evento pericoloso per noi due.

    Susy è fenomenale. L’adoro. È una cagnolina mix Spaniel ed è, soprattutto, in calore. Anche Matilda, la Bassotta, è in calore. E persino Funny, la Golden (era in super ritardo!). I loro odori mi inebriano: mi sento vigoroso, pieno di forze e con tante idee nella mente.

    «Mercurio, dai, non leccare tutte le pipì!»

    La mamma ha ragione, dovrei evitare, però sono profumi così avvolgenti e meravigliosi, che non si può resistere! Sono così pieni di ormoni che paiono promesse e inviti e, infatti, sto per avanzare la mia proposta, lasciandogli la mia marcatura da pretendente, quando le mie gambe posteriori non rispondono più ai miei comandi. Sta per succedere di nuovo qualcosa, non sono più io. Il tronco e le zampe posteriori cominciano a muoversi, come se stessi montando Susy o Funny o Matilda, ma siamo in mezzo alla strada e non c’è nessuno, a parte me e la mamma. È buio. La guardo e vedo di nuovo nei suoi occhi lo spaesamento, la paura, l’ansia. Eppure mi aiuta a sdraiarmi, mi accompagna verso la rientranza erbosa del condominio più vicino e mi accarezza, cerca di essere forte, vedo che vuole darmi tranquillità, ma io ho paura. Ho paura di tornare nel buco nero, di non vederla mai più.

    «Enrico, dove sei? Vieni, Mercurio non cammina, sta male, dobbiamo portarlo in clinica.»

    «Venti minuti e sono lì, sono appena uscito, c’è traffico, faccio prima che posso.»

    Venti minuti sono un tempo infinito per me. Chiudo gli occhi. Mi accascio. Sdraiato, le contrazioni ai posteriori si allentano. Guardo la mamma. Nei suoi occhi trovo la forza per resistere. Non sono pronto a lasciarla. Non è ancora il momento, ma sento che la morte mi sta raggiungendo più in fretta di quanto io riesca a camminare.

    «Pronto? Sono Carolina, la proprietaria di Mercurio, siamo venuti per il collasso due giorni fa. Sta di nuovo male, ha i posteriori che non lo reggono, non cammina, fra poco arriva mio marito e ve lo portiamo.»

    Con la coda dell’occhio vedo, a distanza, delle persone che si fermano, parlano con la mamma. Un Golden, in lontananza, mi annusa e se ne va, al guinzaglio, con il suo umano.

    «Signora, ha bisogno di aiuto?»

    «Grazie, no, sta arrivando mio marito.»

    «Cosa succede al suo cane?»

    «Ha avuto un collasso da poco, ora le zampe posteriori non lo sorreggono, per favore non lo tocchi, non so come può reagire, sta male, ha dolore.»

    «Ha bisogno di acqua, biscotti? Anche noi abbiamo un cane, viviamo qui vicino.»

    «No, grazie. Fra poco arriva mio marito, grazie.»

    Quando vidi il mio papà che apriva la bauliera della sua macchina e mi prendeva in braccio per farmi entrare, capii che saremmo tornati in quel luogo puzzolente dove mi fanno le punture e, anche se sono gentili, alla fine mi tosano, mi toccano, mi bucano. Non avevo abbastanza energie per ribellarmi e, soprattutto, avevo bisogno d’aiuto. Perché volevo vivere. Questa volta il mio cuore non era pesante solo per il dolore fisico; questa volta avevo la certezza che per me stava finendo il tempo con la mia famiglia e questo mi faceva più male di qualsiasi altra contrazione muscolare avessi in quel momento. Lo vidi negli occhi del babbo e della mamma perché entrambi erano spaventati, tristi e avevano paura.

    «È svenuto due giorni fa? Non ne ero informata! Perché non c’è scritto nel suo file? Dobbiamo fare subito le analisi del sangue, dobbiamo fare le lastre e l’ecografia per capire il perché di questo movimento posteriore. Forse è la prostata, ma comunque non possiamo sterilizzarlo finché non abbiamo i risultati.»

    «Va bene, fate tutto quello che serve.»

    Era un tavolo troppo piccolo per me. La mamma mi aveva messo un braccio sotto al collo, mi teneva la testa, che appoggiavo al suo avambraccio. Mi baciava la fronte, mi parlava piano, mi diceva che mi amava. Nel mentre, il babbo mi teneva le zampe posteriori e mi accarezzava. La signora mingherlina mi rasò l’addome; iniziò a strusciare quell’oggetto gelido e oleoso sulla mia pancia, scendendo fino ai testicoli. Odio queste pressioni e odio stare bloccato su questo tavolo freddo. Però la mamma è qui con me, mi dice che sta per finire, mi dice che sono bravo e, se mi dice che sono bravo, io so che devo restare fermo e le devo ubbidire. La annuso, il suo odore mi rassicura e mi spaventa, sa di amore e di dolore, di forza e di ansia, di presenza e di stanchezza. So che posso fidarmi di lei e le credo quando mi dice che presto andremo a casa. Prenderei a morsi quell’affare che continua a perlustrarmi senza sosta; mi chiedo se davvero sta per finire questo supplizio. Mi hanno rasato anche la zampa anteriore destra e preso il sangue. La mamma mi ha seguito mentre facevo la pipì con una ciotola, l’ha raccolta. Mi hanno fatto di tutto, perché non la smettono?

    «Signora, la situazione è grave. La creatinina è salita da 3.9 a 7.5 e il limite è a 1.4.»

    «Cosa significa?»

    «Che siamo alla fine. Possiamo provare a fargli le flebo o, se vuole, gliele può fare a casa. Può dargli delle pastiglie per ridurre l’ingrossamento della prostata e vediamo se migliora. Ma i reni sono definitivamente compromessi.»

    «Cosa significa che sono compromessi?»

    «Che sta morendo, signora. Ma faremo tutto il possibile. Forse i valori sono saliti a causa della prostata. Vedremo. Gli dia queste pastiglie tutti i giorni. L’anti nausea, le flebo, gli integratori. Poi fra una settimana ci rivediamo e ripetiamo le analisi.»

    Guardavo le porte della clinica veterinaria, attendendo i risultati delle analisi insieme a mio marito. C’era tanta gente in attesa, uno a distanza dell’altro come da normativa anti Covid. Riflettevo su com’è strana la vita. Un momento prima, cammini con il tuo cane pensando al lavoro, un momento dopo ascolti le parole che mettono fine a una vita, alla tua vita, alla sua vita. Decisi che, se la dottoressa mi avesse dato qualche speranza, avrei preso le ferie per seguirlo nei trattamenti.

    Mercurio, il nostro Alaskan Malamute, era in macchina a riposare: gli avevano fatto lastre, ecografie, esami del sangue e delle urine. Avevano cercato di prendergli la febbre, ma si era chiuso in se stesso e l’ago della flebo lo aveva spaventato. Quando mi dissero che i suoi valori erano oltre l’accettabile, cercai di capire se mi stavano suggerendo, in quel momento, l’eutanasia, cosa per la quale nessuno di noi era pronto. Guardavo tutti quei visi senza capire esattamente cosa si aspettassero da me, cosa avrei dovuto fare. Non capivo la realtà.

    Dopotutto, un’ora fa stavamo camminando insieme prima di cena!

    Guardavo l’ecografista, girava intorno alle conclusioni; a malapena capivo cosa mi stesse dicendo perché fissavo le linee rosse nei fogli stampati con i risultati degli esami del sangue. Capii che avrei dovuto fargli due flebo al giorno, che avrei dovuto mettere in frigo le siringhe con la medicina anti nausea, che quando la inietti brucia tantissimo. Capii che potevo diluirla nelle flebo e che avrei dovuto fargliele io a casa. Io, che non avevo mai fatto una puntura a nessuno, avrei dovuto bucare ogni giorno, due volte al giorno, il mio cane sottocute, calmarlo, fargli accettare l’ago e il bruciore, dargli le pastiglie, pulire l’urina che non riusciva più a contenere e, soprattutto, accettare che stava morendo. Accettare di lasciarlo andare. Informarlo. Aiutarlo a capire e ad accettare. Sostenere mio marito, disperato; andare a lavorare, produrre risultati, pensare a dove seppellirlo, a chi avrebbe scavato la buca, a quali documenti sarebbero serviti, dove portarli. Ma tutto veniva inghiottito dalla voragine quando il pensiero della sua assenza – un flash fugace, istantaneo e troppo scorticante – compariva nei miei ragionamenti. Era come un lampo che, di tanto in tanto, si manifesta e poi, troppo potente, scompare.

    Mi era difficile immaginare una vita senza di lui.

    Andare in macchina senza Mercurio. Guardare i nostri campi, ovunque intorno a noi, e non vederlo più correre. Aprire la porta di casa e non fischiare più per chiamarlo perché non ci sarebbe stato nessuno da chiamare e nessuno, anche fischiando, sarebbe arrivato galoppando con la coda a pennacchio scodinzolante, pronto a dare amore.

    Quel viaggio di ritorno a casa fu un guidare anestetizzato; sapevo che il prossimo viaggio sarebbe stato l’ultimo, ma era una consapevolezza così presente e lontana allo stesso tempo, che l’unica cosa che fui in grado di fare fu, semplicemente, agire in automatico.

    Prima, seconda, terza, quarta, terza, seconda, terza, quarta, prima. Arrivati a casa.

    Mio marito piangeva e io avevo bisogno di aiuto nel far scendere Mercurio. Avevo bisogno di piangere ma, mi dissi, ci sarebbe stato tutto il tempo per piangere dopo; ora c’erano le sue necessità da espletare. Provai a dargli da bere con la siringa senza ago ma non aveva sete. Provai a offrirgli del macinato dalla mano, ma le nausee erano ancora intense e la stanchezza lo rendeva affaticato, apatico, triste. Se non avesse bevuto nulla durante la notte l’indomani gli avrei fatto la flebo: gli dissi questo e lo lasciai dormire nella sua cuccia in salotto. Un’amica mi suggerì di comprargli gli omogeneizzati per aiutarlo a mangiare.

    Prima di raggiungere il letto, lo guardai per l’ultima volta. Capii che sarebbe toccato a me, che avrebbe voluto me al suo fianco fino alla fine.

    Ho sempre avuto paura della morte e degli addii definitivi e questa consapevolezza mi lasciava attonita e coraggiosa allo stesso tempo.

    Sì, Mercurio – pensai – ti resto accanto e la affrontiamo insieme, non morirai da solo, la tua famiglia, e tutti quelli che ti hanno amato davvero, saranno al tuo fianco. Ma ora pensa solo a dormire e a riprenderti.

    Io, invece, quella notte non chiusi occhio e, per tenerlo stretto a me senza disturbarlo, sfogliai il profilo personale Instagram fino alle prime foto scattate otto anni fa, a Roma, insieme. Ricordai tutto.

    PRIMA PARTE

    Roma, 2012 - 2013

    In braccio

    «Prendiamo un cane!»

    Giacomo si stava infilando il giubbotto imbottito, cappuccio bordato di pile, cuffia termica, guanti dalle punte a prova di schermo touch e sciarpa in filo di Scozia. Quell’anno il clima a Roma era instabile e, nonostante l’inverno non fosse ancora arrivato, fuori c’erano già cinque centimetri di coltre bianca.

    «Come mai questa idea, adesso?» gli risposi sistemando le tazze della colazione nell’acquaio, quella del tè verde per lui e la mia per il caffellatte. Posai le fette del pane sciapo nel contenitore salva freschezza. Si fermò davanti a me, mi prese le spalle e mi fissò serio, quasi annoiato: «Non sopporto più di vederti davanti a quel maledetto pc. Stai lì tutto il giorno, ti affanni con il tuo blog, ma non raggiungi nulla. Sei spenta, depressa, non esci mai. Con un cane, almeno, andresti a fare qualche camminata». Prese la ventiquattrore e il portatile e, avviandosi verso la porta, si voltò a guardarmi: «Dai un’occhiata agli Alaskan Malamute. So che ti piacciono i cani grandi, lupini e morbidi. Secondo me potrebbe andare bene per te». E se ne andò senza aspettare la mia risposta.

    Faceva sempre così: suggeriva decidendo, insinuando sottilmente una qualche mia mancanza, presentandomi poi la soluzione ideale che lui aveva deciso per me. Era sempre una linea sottile fra il prendersi cura e l’accusare.

    Avevo sempre desiderato un cane, era vero, ma, nella mia vita precedente, non me l’ero mai potuto permettere. Era vero anche che avevo un blog e che passavo le mie giornate nel tentativo di capire i meccanismi della comunicazione attraverso il web.

    Facebook era appena nato, Blogspot era il non plus ultra della tecnologia e il marketing online era appena un embrione nella mente delle aziende. Avevo capito il potenziale del web come strumento immenso e connettore di mondi, per questo mi ci dedicavo tutti i giorni.

    Mi ero laureata in Lettere da poco, nessuno dei curricula che avevo inviato stava riscuotendo interesse, nemmeno per uno stage. Trovavo solo opportunità non retribuite oppure lavori occasionali di scrittura di articoli per i portali web a un euro, due al massimo, pagati solo dopo i primi dieci. L’indipendenza economica era un miraggio. Giacomo, invece, aveva quattordici anni più di me, era un professionista affermato, sia come ricercatore presso un istituto in centro, sia come libero professionista, con il suo studio privato.

    Appassionato di arte moderna e romanzi fantasy, sette anni prima aveva iniziato a scrivere un blog, in cui ero capitata per caso, quando ancora vivevo a Udine. Le sue recensioni e riflessioni erano potenti, sensibili, fini e accurate e queste caratteristiche avevano creato in me l’idea che fosse una persona profonda, empatica e molto intelligente. Aveva modi garbati, dava risposte taglienti eppure ironiche e, quando qualche utente mostrava emozioni, lo avvolgeva con parole capaci di contenere e gratificare.

    Dai commenti ai suoi articoli passammo al sentirci regolarmente via telefono.

    Quelle telefonate erano l’apoteosi della sua sterminata cultura letteraria.

    Amava tutti i generi che preferivo e mi stupiva con citazioni di autori a me completamente sconosciuti. Lo ascoltavo per ore ammaliata dal suo carisma; la sua libreria era la mia biblioteca dei sogni. Aveva una risata contagiosa. Sapeva sempre cosa fare per risolvere le situazioni e capiva le persone. Aveva letto tanti e tali libri di psicologia che era in grado di fare una diagnosi a chiunque parlasse con lui, citando persino passaggi del DSM IV¹. Ammiravo la sua capacità di muoversi con facilità, dalla fisica quantistica all’analisi junghiana, dalla preistoria alla geologia, dalla musica all’astronomia. Aveva viaggiato molto, le sue storie riempivano la mia fantasia.

    Dal canto mio avevo poco da offrire: la mia autostima era inesistente, avevo vissuto poco a causa di esperienze negative durante l’adolescenza. Amavo leggere, ma non avevo letto quanto lui. Mi sentivo ignorante rispetto alle sue conoscenze; del resto, sembrava che a lui non importasse della mia cultura perché gli bastava raccontarmi la sua e vedermi ammaliata.

    All’epoca avevo un rapporto conflittuale con la mia famiglia. Giacomo, invece, mi capiva e dava un’interpretazione psicologica a quei conflitti, una spiegazione che mi portò ad allontanarmi ancora di più dai miei genitori e ad accusarli in continuazione di non fare abbastanza per me.

    Decisi di trasferirmi a Roma, da Giacomo, e tagliai i ponti con tutto, in Friuli Venezia Giulia. Sognavo una vita con maggiori opportunità, ricchezza, amicizie, inclusione. Mi immaginavo sorridente, felice, camminare a grandi falcate nei pressi del Campidoglio, vestita firmata, con i tacchi luccicanti, assunta in un luogo di lavoro soddisfacente, dove poter fare carriera ed essere, finalmente, qualcosa di diverso da una perdente senza idee.

    Lasciai il mio paese nella provincia di Udine e la mia Università, senza amicizie, senza rimpianti e senza la sensazione di importare a qualcuno.

    Roma, la mastodontica Roma, divenne da subito un’esperienza enorme. L’Università capitolina era altrettanto diversa dalla provinciale udinese a cui ero abituata.

    Ben presto, sperimentai fatica nel traffico cittadino indemoniato: mi paralizzava. Guidavo in ansia, con tachicardia, angoscia, l’aspettativa di essere colpita ai fianchi da altre auto in corsa. Non avevo un’auto mia; utilizzavo quella di Giacomo e l’idea di rovinargliela era un deterrente potente. Giacomo ci teneva tantissimo alla sua auto, non volevo assolutamente arrecargli danno o creargli problemi, soprattutto perché lui sosteneva la maggior parte delle spese. Non avevo un reddito, se non quel piccolo supporto che ricevevo dai miei genitori, faticoso per loro, ma totalmente inadeguato per gli standard di Roma.

    La nostra palazzina era in periferia e, per arrivare all’ultima stazione della metropolitana, bisognava prendere un autobus per le dieci fermate che ci separavano dal capolinea. I nostri vicini erano, a destra, rifugiati politici e, a sinistra, una sezione di uno dei clan più efferati fra tutte le tipologie Rom presenti nella capitale. Le strade dissestate, senza marciapiedi, con buche profonde e sottopassi sempre allagati con la pioggia, erano un blocco mentale importante verso l’andare a conoscere la zona, da sola, a piedi. Scippi, omicidi e accoltellamenti erano all’ordine del giorno. Come i ratti, le nutrie e i cinghiali.

    Quando il nostro primo appartamento si riempì di muffa alle pareti di tutte e tre le stanze da cui era composto, mi ammalai gravemente agli organi respiratori e anche Giacomo ne risentì.

    Il salotto, unica stanza senza grosse infiltrazioni di funghi, era diventato la nostra camera da letto: avevamo ammassato il divano contro la libreria, spostato il materasso usando le balaustre del caminetto come poggiatesta. C’era poco spazio per muoversi; gli abiti, sempre umidi, li asciugavo a fatica e il divano in pelle nera, macchiato dai bagordi sessuali dei precedenti inquilini, era inutilizzabile perché usato come appoggio per zaini, borse, giubbotti.

    Giacomo iniziò a soffrire di rinite e asma; l’impossibilità di dormire bene lo rendeva sempre nervoso. Non ultimo, i vicini del piano di sopra avevano un’attività sessuale movimentata e avevano abitudini d’amplesso ritmato nel cuore della notte. Buon per loro ma, per noi, significava non dormire per ore a causa degli urli, degli schiocchi e della testata del letto che sbatteva senza sosta contro la parete.

    Comprendevo quindi il nervosismo di Giacomo perché avevamo un sonno pessimo e lui, a differenza mia, aveva anche un lavoro distante da casa un’ora e mezza di mezzi pubblici. Ogni giorno combatteva con scioperi bianchi, suicidi, movimenti del clero che bloccavano le vie del centro oppure capi di Stato che, con i loro cortei, fermavano il transito. C’erano poi i no global, i camion della nettezza urbana parcheggiati male, gli accattoni ubriachi, i sieropositivi, i malati psichiatrici che tenevano in scacco i vagoni della metro con le loro urla, gli insulti, i rantoli. Il suo livello di stress giornaliero cresceva di giorno in giorno; l’insorgere frequente di febbri lo indusse a decidere che era tempo di cercare un nuovo alloggio. Mi attivai

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