Il nostro giorno verrà: 1916: Dublino è una bomba pronta a esplodere e la scintilla è una rabbia che Erin e Seán chiamano amore
Di Joyce Edith
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Anteprima del libro
Il nostro giorno verrà - Joyce Edith
Edith Joyce
Il nostro giorno verrà
1916: Dublino è una bomba pronta a esplodere e la scintilla è una rabbia che Erin e Seán chiamano amore
immagine 1ISBN: 9788867183678
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Indice
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Ringraziamenti
Alle fate, alle donne e a tutti i bambini d'Irlanda
Capitolo 1
Il mio nome è Erin O’Brien, ma mio padre mi ha sempre chiamato Vittoria. Mia madre è irlandese. Ha sempre assecondato mio padre in ogni scelta: abbandonare il cottage di fronte alle acque di Lough Mahon a Cork, trasferirsi nel ventre mostruoso di Dublino, avere tre figli anche quando il dottore — per le sue condizioni di salute — le aveva consigliato di fermarsi al primo. Mia madre ha rinunciato a fare il lavoro per cui era riuscita con difficoltà a studiare. Non è mai diventata un’infermiera. Ha sposato un uomo ricco perché era la scelta più prudente che potesse fare una donna, nonostante fosse ricca anche lei. Mio nonno l’avrebbe cacciata di casa se avesse rifiutato la mano di un funzionario del governo inglese in Irlanda. Catherine Walsh ha ceduto a tutti i compromessi che la vita le ha messo davanti. Il mio nome e il mio battesimo sono state le sue uniche, autentiche e insindacabili scelte. Mio padre non voleva che sua figlia si chiamasse Irlanda. Voleva che mi chiamassi Vittoria, come la regina d’Inghilterra, e così ha continuato a chiamarmi fino alla fine. Mia madre aveva minacciato di lasciarlo. Gli aveva detto che se non mi fossi chiamata Erin, mi avrebbe avvolta in una coperta, avrebbe preso una valigia e sarebbe tornata nella Contea di Cork; a costo di cadere in disgrazia e di subire l’umiliazione pubblica e quotidiana di essere una donna con una figlia e senza un marito accanto. Mia madre vinse, e sui documenti della mia nascita venne scritto «Erin O’Brien».
«Tanto è una femmina» le disse mio padre, quando uscirono dall’ospedale. Mia madre mi battezzò in segreto perché sapeva che mio padre non lo avrebbe mai permesso. Aspettò che mio padre partisse per uno dei suoi viaggi a Londra e mi portò nella chiesa di St. Mary. Spiegò la situazione al reverendo O’Sullivan, che rividi anni dopo sul tetto di Liberty Hall, il giorno prima delle Rivolte di Pasqua, e lo supplicò di accogliermi nella chiesa cattolica. La finestra della mia camera era l’unica che si affacciava direttamente sulla facciata di St. Mary. Quando divenni abbastanza alta da arrampicarmi sul davanzale, cominciai a mostrare un grande interesse nei confronti della chiesa e delle sue celebrazioni. Mia madre andava in chiesa ogni domenica, senza mio padre. La guardavo con stupore salire i gradini ed entrare in quel luogo misterioso dove ero stata battezzata, pur senza saperlo.
Molti entravano con il viso scuro e ne uscivano illuminati di speranza, altri uscivano più tormentati di com’erano entrati. Amavo i matrimoni. Guardavo sfilare le spose in abito bianco, abbracciate ai loro mariti, con i capelli intrecciati di perle e spille dorate. Le risate e le grida allegre arrivavano fino alla mia camera, e allora ridevo anche io, ballavo in mezzo alla stanza, salivo sul letto, festeggiavo e m’infilavo fiori tra i capelli fingendo di essere la migliore amica della sposa. Partecipavo, dalla mia finestra, anche al pianto e al dolore di chi aveva perso un proprio caro. Guardavo le grandi bare di legno adornate di garofani e viole sparire dentro la navata. Salutavo anche io il morto con la mano. Avevo iniziato a piangere i morti degli altri ben prima di quando avrei cominciato a piangere i miei.
«Posso venire in chiesa anche io domenica mattina?» domandai a mia madre un giorno. Avevo otto anni e stavamo cenando tutti insieme. I miei due fratelli, Stephen e James O’Brien, si guardarono a vicenda e risero. Nessuno dei due condivideva la mia fascinazione per St. Mary’s e la chiesa cattolica. Mio padre lasciò cadere il cucchiaio nel piatto. Mia madre gli piantò gli occhi addosso ma non mi rispose. Io cercavo lo sguardo di entrambi, senza capire perché un momento prima stessimo ridendo dei denti storti della lattaia e il momento dopo l’aria in mezzo a noi fosse diventata di burro.
«Vittoria, va’ in camera tua» mi disse mio padre.
Io non avevo alcuna intenzione di lasciare nel piatto la zuppa di carne e piselli e le patate schiacciate che aveva preparato mia madre per cena. Ignorai mio padre e continuai a mangiare. Non parlava più nessuno. James riprese a mangiare voracemente, mentre Stephen con le braccia incrociate e la schiena appoggiata alla sedia teneva i suoi occhi scuri piantati addosso a mio padre. Mia madre si tolse il tovagliolo dalle gambe, lo accartocciò con entrambe le mani e lo sbatté sul tavolo. Si alzò in piedi. Il rumore della sedia contro le piastrelle del salotto mi fece strizzare gli occhi.
«Catherine…» la ammonì mio padre. Lei non lo guardò nemmeno.
«Certo che puoi venire alla messa di domenica con me, sweetheart» mi disse.
Io le sorrisi con la bocca sporca d’olio e allargai le braccia per gettargliele al collo, ma mio padre batté il pugno sul tavolo con così tanta violenza che finì per ritrovarsi qualche schizzo della sua zuppa sulla camicia. Tutti i bicchieri tintinnarono insieme, tranne quello di Stephen, che lui teneva ben saldo nella mano destra. Mi venne da ridere. Mio padre diventava rosso in faccia quando si arrabbiava, come un ubriaco. James mi diede un calcio sotto al tavolo per farmi stare zitta.
«Vittoria, va’ in camera tua» ripeté. «Non lo chiederò un’altra volta».
Stephen prese l’iniziativa e si alzò, mi prese per un braccio e mi fece cenno di andare.
«James, tu va’ a comprarmi i sigari» disse mio padre, mettendogli in mano qualche moneta, e James sgattaiolò fuori senza battere ciglio.
Feci in tempo ad afferrare il piatto di patate schiacciate e lo portai con me al piano di sopra. Mio fratello mi stava dietro come un’ombra. Stephen era più grande di noi; aveva otto anni più di me, e quattro più di mio fratello James. Richiuse la porta della mia camera dietro di sé e io andai a sedermi sul letto, sopra la trapunta di cotone pesante e bianco.
«Come ti è venuto in mente?» mi domandò Stephen.
«C-cosa?» domandai, pulendomi le labbra con il dorso della mano. Dalla mia faccia ingenua mio fratello intuì che i miei non erano segnali precoci di ribellione all’autorità genitoriale. Ci volevo andare davvero a messa con mia madre.
«Vuoi veramente andare in chiesa?»
«Sì» dissi «perché?».
«Perché?» ripeté lui di nuovo, infilandosi le dita tra i capelli.
«Perché?» lo imitai io, muovendo le mani in aria come bocche parlanti. Ridemmo insieme, ci lanciammo cuscini, macchiammo le lenzuola di salsa di cipolle stufate, ci facemmo il solletico e giocammo alla lotta fino a che non riuscimmo più a ignorare i rumori che provenivano dal piano di sotto e le urla di mia madre. Mi tirai su con la schiena. Avevo i capelli biondi arruffati sulla fronte. Strinsi il cuscino tra le braccia. Mio fratello si sedette sul bordo del letto, accanto a me.
«Papà sta picchiando la mamma per colpa mia?» domandai.
«È perché ho chiesto di andare a St. Mary’s?».
Mi voltai verso la chiesa che stagliava il suo profilo contro le ombre tiepide del tramonto.
«No, Erin» disse mio fratello, accarezzandomi i capelli. «Non sarà mai colpa tua. Non pensarlo mai, neanche per un attimo». Stephen scese al piano di sotto. Sentii altre grida, altri insulti, ma poi tornò il silenzio.
Spensi la luce e mi seppellii sotto le coperte, rannicchiandomi fino a farmi minuscola. Tirai le tende, così che St. Mary’s non mi vedesse piangere e io non piangessi guardando lei. Quando James tornò a casa, sentii i suoi passi pesanti salire le scale di legno. Aprì la porta della mia stanza, senza fare rumore.
«Stai dormendo?» mi chiese.
«No».
Accese di nuovo la luce e si sedette accanto a me.
«Ti racconto una storia» mi disse. Iniziò a parlarmi della Contea di Cork, dove aveva vissuto da bambino prima che mio padre ottenesse il lavoro a City Hall. La casa era rimasta lì, disabitata, benché nessuno vi avesse fatto mai ritorno. Parlava spesso di Cork, della casetta affacciata su Lough Mahon, dell’acqua argentata e opaca del lago, dell’odore umido della vegetazione, del crepitio del camino sempre acceso e delle fette di torta di mele lasciate di notte sul davanzale per le fate. Al mattino rimanevano solo le briciole. Quello che univa me e James erano le fiabe e le leggende sul piccolo popolo. Mi raccontò di quando aveva visto la regina delle fate ballare in un cerchio fatato, con un drappello di folletti al seguito che danzavano agili sui cappelli rossi e bianchi dei funghi. James si era fermato a guardarli, in disparte, ma la regina lo aveva visto. Si era avvicinata a lui con aria solenne e gli aveva offerto in dono un bracciale d’oro.
«E lo hai accettato?» domandai, entusiasta. «Hai ricevuto un dono dalla regina delle fate?».
«No, Erin» mi disse. «È pericoloso accettare doni dal piccolo popolo».
«Com’era la regina?» gli chiesi ancora.
«Aveva una corona di diamanti sulla testa e tante farfalle azzurre le volavano intorno mentre mi si avvicinava».
«Non ho mai visto una farfalla azzurra» gli dissi.
«Perché non hai mai visto la regina delle fate…». Mi mostrò la lingua e continuò a raccontare.
Mi disse che la regina aveva la pelle lattiginosa e opalescente e si muoveva leggera in un vestito di stelle che il vento non riusciva a far ondeggiare. I capelli, scurissimi e lunghi, le incorniciavano il viso, senza espressione e senza colore. Portava al collo una pietra azzurra e iridescente. James conosceva talmente tante storie sul piccolo popolo che avrei potuto giurare di non aver mai ascoltato la stessa due volte. Non gli avevo mai creduto del tutto e al tempo stesso non avevo mai osato dubitare di quello che raccontava. Questo è l’atteggiamento di tutti gli irlandesi davanti al piccolo popolo. Anche i più illuminati tra i chimici e i medici temono e rispettano ciò che vive al di là: il popolo gentile che abita il Sidhe.
«Perché non ho mai visto una fata?» gli chiesi improvvisamente.
«Se è vero che le fate si mostrano solo a chi è puro di cuore, forse io non lo sono».
«Non credo di conoscere una persona con il cuore più puro del tuo» mi disse, spettinandomi i capelli. «Forse le hai viste, ma non le hai mai riconosciute. Forse le hai viste, ma le hai dimenticate. A Dublino, poi, è difficile. A Dublino non interessa a nessuno delle fate, e alle fate non interessa Dublino».
Era vero. Dublino era un mostro grigio. Alcuni dicevano che era il progresso, ma io vedevo solo polvere, tram di ferro che divoravano le strade, palazzi funerei e pieni di muffa che sembravano le celle di Kilmainham Gaol. A Dublino le carrozze sfrecciavano veloci accanto ai mendicanti che chiedevano l’elemosina sulle scale delle chiese e dei rifugi con il cappello tra le mani. Dublino non aveva mai tempo per nessuno; di certo non aveva tempo per le storie di James. Ma io sì. Io rimanevo le ore ad ascoltarle. Mi raccontava del dulachán, il terribile folletto cavaliere senza testa che cavalcava giorno e notte senza sosta, fermandosi solo per annunciare la morte imminente di qualcuno. Mi raccontava di quando il piccolo popolo e la gente comune vivevano in armonia, prima che gli inglesi arrivassero in Irlanda. Fu proprio allora che scoprii che gli inglesi erano invasori e che noi, molto tempo prima, eravamo stati liberi. La corona e i suoi soldati non avevano mai rispettato la terra che avevano occupato, ne avevano violentato la bellezza e le tradizioni; avevano abbandonato i loro sigari sull’erba, avevano bruciato senza pietà le brughiere, avevano avvelenato il vento con la polvere da sparo e macchiato l’oceano con le loro mani sporche di sangue irlandese. Gli inglesi avevano costruito torrette e avamposti falciando alberi e cespugli di biancospino. Ma il biancospino è sacro alle fate. Gli irlandesi non lo abbattono, non ne tagliano i rami, se non nella mattina di Beltame. Solo in quel giorno, le fate permettono agli uomini di prenderne la quantità desiderata per fare il fuoco, e le fiamme benedicono la casa, proteggendola dalla sventura. James mi raccontava che, da quando gli inglesi avevano occupato la nostra terra, molte fate si erano lasciate morire pur di non vivere nell’umiliazione. Avevano rinunciato alla loro immortalità, si erano lasciate annegare nell’acqua fredda dei fiumi e dei laghi che noi irlandesi avremmo ribattezzato con i loro nomi. Altre si erano rifugiate nell’immenso verde – quello più lontano dalla follia dell’impero britannico – tra i rami intricati dei boschi o nelle brughiere desolate che si estendono oltre quanto l’occhio umano possa seguirle. Da allora vivevano al di là, nel Sidhe parallelo e quasi inaccessibile, oltre gli ultimi avamposti della civiltà. Erano rare le fate che desideravano ancora mostrarsi al di qua, nella parte del mondo dove le stagioni si alternano e la morte è spesso così audace da portare con sé anche i bambini. Poteva accadere che si rivelassero, ma lo facevano solo davanti ai puri di cuore, ai bambini e agli stolti per far loro un dispetto. Dublino rimase al riparo da qualunque forma di magia e bellezza, almeno fino allo scoppio delle rivolte del 1916.
«Torneranno mai le fate?» chiedevo sempre a James.
«Forse, quando l’Irlanda sarà libera dagli inglesi» mi ripeteva.
«Dovremo cacciare anche mio padre?» domandai, ridendo.
«Anche lui» mi rispose, con aria seria.
Si sdraiò accanto a me sul letto. Guardava il soffitto, con il braccio destro sotto la testa.
«Ricordati, Erin…».
Non fidarti mai delle fate e, allo stesso tempo, non fare mai loro un torto. Le nostre voci bisbigliarono all’unisono. Le sue storie finivano tutte così. Me lo ripeteva sempre. Anni dopo, quando un soldato inglese mi sparò addosso, compresi il significato di quella frase.
Capitolo 2
Il giorno seguente mia madre era in salone a prendersi cura di cinque gigli bianchi. Accorciò i gambi con un paio di forbici e un gesto netto e poi tuffò i fiori in un grande vaso di cristallo riempito d’acqua per metà. La spiai da lontano. Poi mi avvicinai senza fare rumore. Aveva i lividi sugli occhi e lo sguardo stanco, ma quando mi vide, la sua bocca si allargò in un sorriso sincero.
«Forse è meglio che tu non venga con me questa domenica, e neanche quella seguente» mi disse. «Forse è meglio che tu non venga con me per un bel po’, ma intanto puoi usare questo».
Mi diede un libro di preghiere e un sacchetto di velluto che conteneva un rosario. Lo feci passare per la testa, come se fosse una collana. Mia madre rise.
«Oh, Erin. Non è un gioiello. È qualcosa di molto più prezioso» sussurrò, sfilandomelo. Lo mise tra le mie mani e mi spiegò come usarlo per parlare con Dio. «È come andare a messa ogni volta che vuoi tu» mi disse. «Anche senza alzarti dal letto».
Le piccole perle d’avorio erano fredde e lisce. Io annuì e strinsi il rosario contro il petto.
«Mi dispiace se papà si è arrabbiato con te per colpa mia».
«Non è colpa tua, Erin». Mi abbracciò, e io appoggiai la testa sul suo petto.
«Sai che ore sono?»
Scossi la testa.
«Sono le dieci» disse, sorridendo. «Tra poco si sposa Evelyn, la figlia del fioraio. Andiamo a vedere?».
Annuii contenta e salimmo rumorosamente le scale, sbattendo i piedi sui gradini di legno senza grazia. Mia madre era una donna più libera senza uomini in giro. Ci sistemammo sotto la finestra e aspettammo la sposa arrivare. Indossava un vestito di pizzo bianco e un velo color panna le copriva il volto. Lo strascico era così lungo che sembrava attraversare tutta Dublino.
Mia madre mi baciò la testa e la tenne stretta a sé. Cercai il suo sguardo, ora sereno e dolce. Mi