Rami e radici
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Anteprima del libro
Rami e radici - Larissa Vannucci
Prefazione
Non c’è più niente di quel passato, me lo dice la polvere e la pentola di smalto rosso lasciata sul fornello in muratura, me lo dice la tendina bianca a fiorellini rossi sotto l’acquaio.
La vita è passata di qui, tra queste mura e poi ha camminato in avanti, non si è fermata, è passata oltre.
Con il suo modo di fare dolce o spietato, il nostro passato ci ha resi quelli che siamo, ci ha spinti verso la direzione in cui dobbiamo andare. Spesso impariamo a nostre spese quanto sia fondamentale, fino a che punto ogni tassello della nostra esistenza sia collegato a un altro in modo indissociabile.
È da questo presupposto che inizia Rami e radici, una storia che ci spinge a ricordare da dove veniamo e ad apprezzarlo, ma anche a svilupparci, a diventare le persone che siamo destinati a essere.
Lidia è la protagonista di quest’opera dalle sfumature poe tiche, descritta con una penna raffinata ed elegante. È una donna all’apparenza comune, con una vita dai tratti canonici. Eppure ha qualcosa di speciale perché riesce a sentire le emozioni in modo più forte degli altri. Bastano un dettaglio, un’immagine o un rumore per far riaffiorare in lei pensieri e sentimenti, che la portano di volta in volta a crescere spiritualmente.
Pensavo di cercare alcune risposte e, ad un certo punto, sono cambiate tutte le domande.
Succede, a volte, di intraprendere un viaggio la cui meta sembra chiara e poi, lungo il percorso, ti ritrovi a deviare e alla fine ti ritrovi in un altro posto.
Un posto che non cercavi, non sapevi, non conoscevi.
A quel punto ci sono due alternative: o prosegui fino in fondo o fuggi.
Lidia è una di quelle persone che riflette a lungo sulle proprie azioni e su se stessa, a volte così tanto da uscirne annientata, quasi vinta. La sua storia è come una danza, che si divincola fra i ricordi e le ambizioni per il futuro, tra l’amore per i propri cari e le paure comuni a tutti gli esseri umani, tra il dolore delle antiche separazioni e la voglia di continuare a gioire giorno dopo giorno.
Quella di Lidia è una storia dolce ma al contempo brutale, che ci spinge a vedere fino a che punto l’esistenza possa cambiare in un attimo e rivelarsi completamente diversa da un giorno all’altro. A stravolgere la vita della protagonista è infatti il rinvenimento di alcuni quaderni che il destino ha lasciato lì proprio per lei. Non conosce la loro autrice, eppure sente nei suoi confronti una sintonia, un attaccamento quasi inconscio che nemmeno lei sa spiegarsi. Ed è solo continuando a leggere che scoprirà le motivazioni alla base e che capirà che è giunto il momento di rimettere tutta la sua esistenza in questione, anche se stessa.
Per questa mia abitudine a fare capriole all’indietro nel tempo sono attratta dalle case antiche e disabitate, dai misteri che si celano tra le travi del soffitto, sui muri scrostati, sopra i pavimenti polverosi.
Per quanto Lidia ami guardarsi indietro, stavolta è costretta a farlo con occhi diversi, perché solo ricostruendo il passato potrà davvero godere del futuro, senza farlo basare su menzogne o rimpianti.
Forti sono le emozioni di questo racconto, dall’unione con la madre all’amore verso un uomo che la completa da ogni punto di vista.
Mi sento, d’un tratto, tanto fortunata, non solo perché vivo in questo tempo e ho potuto scegliere liberamente, ma anche perché ho trovato la persona giusta; quella che mi completa; quella che cammina al mio fianco né più avanti né più indietro.
Ci capiamo senza parole, con le parole, con i gesti, con il corpo, con gli sguardi, con gli odori.
Gli affetti nutrono infatti ogni parola di questo romanzo, il cui suono vibra come un’eco dei ricordi a cui nessuno può sfuggire. E così facendo, Lidia impara a distaccarsi dal passato e a prendere da esso quella necessaria distanza per poterlo guardare con la giusta lucidità.
È giunto infatti il tempo per Lidia di perdersi e ritrovarsi, crescere, diventare più forte, imparare a perdonare gli altri e se stessa. Perché solo così può capire chi è, accettare le proprie radici e sbocciare così come è destinata a fare.
1
Il vento muove la tenda bianca, l’altra finestra, accanto, è spalancata.
Il sole entra a fiotti e disegna un grande rettangolo sul pavimento polveroso.
La casa è silenziosa e disabitata da anni, i vetri rotti delle finestre cospargono di schegge i pavimenti.
C’è silenzio anche fuori e resti di mobili abbandonati con bocche spalancate di sportelli sghembi e un enorme camino dominano la cucina nera di fuliggine.
Un divano, una poltrona, un tavolo e un attaccapanni con ancora appesi abiti: pantaloni, camicie a quadri e un giaccone.
La tenda che ancora resiste al piano di sopra simula una vita vissuta tra queste mura mentre fuori l’unico suono udibile è fatto da uccelli e insetti, fruscii di foglie e scricchiolii di rami mossi dalla brezza.
Mi affaccio ad una delle finestre del piano superiore; ci sono ancora gli infissi aperti ma privi dei vetri.
È una bellezza e la casa sussurra di vita non di morte, di abbandono ma non di oblio.
Il materasso a due piazze è poggiato in terra e da uno squarcio sul tessuto teso escono lunghi fili di paglia gialla e compatta.
Su una sedia è poggiata, di traverso, una camicia da notte che un tempo forse è stata bianca.
2
Sono entrata per curiosità, la porta stava sghemba e spalancata, appesa ad un solo perno. Da sempre sono affascinata dalle case abbandonate, dall’eco delle voci che vi abitano ancora, dalle storie di chi è vissuto tra quelle mura.
La polvere, i cocci rotti per terra, una caffettiera sopra il mobile mezzo rotto, le sedie e gli altri mobiletti, i tavoli e altre suppellettili abbandonate mi dicono di un trasloco un po’ sciatto o della morte di un vecchio solo che era stato l’ultimo abitante.
Il frigo aperto e arrugginito, la lavatrice nelle stesse condi zioni e le ragnatele drappeggiate alle finestre sul retro mi dicono: guardami, ascoltami, fammi compagnia, racconta la mia storia, non lasciare che si dimentichino di me
.
Voglio che la casa mi parli da sola, che mi suggerisca la sua storia, che gli oggetti mi trasmettano sensazioni e volti, voci e respiri.
Non ho il coraggio di toccare niente, mi sembrerebbe un’inutile e volgare invadenza, la bestemmia gratuita di una sfacciata ficcanaso. Mi lascio guidare dagli occhi che accarezzano con delicatezza oggetti e ciò che resta dei mobili.
Parto dall’enorme camino che occupa un’intera parete in questa stanza che era una cucina. C’è l’acquaio di pietra, la stufa bianca di metallo con i buchi rotondi e concentrici per il fuoco, con i piccoli sportelli per cuocere le pietanze dentro, per accendere il fuoco e il lungo tubo che scompare nel soffitto.
Una sedia di paglia giace su un fianco.
Mi sento invadere dalla malinconia che stride un po’ con la luce del sole che entra dalla bocca aperta della finestra.
Ci sono due anime in me: il presente e il passato.
Faccio fatica a separarle, vogliono restare insieme nonostante sia, di fatto, impossibile. Eppure il passato è il punto da cui veniamo, la strada che ci ha condotti fino a qui, l’impasto che ci ha formato.
Non c’è più niente di quel passato, me lo dicono la polvere e la pentola di smalto rosso lasciata sul fornello in mu ratura, me lo dice la tendina bianca a fiorellini rossi sotto l’acquaio.
La vita è passata di qui, tra queste mura e poi ha camminato in avanti, non si è fermata, è passata oltre.
C’è un oltre a cui tutti andiamo incontro e che si trasforma da futuro in presente nel giro di un giorno e lascia sempre più giorni dietro.
Sto guardando il passato che ha attraversato queste stanze, il calore di un focolare davanti al quale riunirsi, la minestra calda dentro la pentola, lo schiacciazanzare appeso a portata di mano.
3
Un refolo di vento passa attraverso i vetri rotti delle finestre e il presente richiama la mia attenzione. Sto guardando con gli occhi di oggi ciò che è successo allora e le valutazioni, i pensieri, le opinioni sono cambiati, non sono più la stessa persona che ha fatto scelte, ha preso decisioni, ha abdicato al coraggio.
Questo cielo immenso che cerca di entrare mi dice che non sono poi così coraggiosa adesso, ma che sto lavorando per non aver paura della paura; che sto guardando la stupefacente bellezza di questa giornata senza sentirmi rimpicciolire davanti all’immensità dove Leopardi annegava.
Le mura mi si stringono intorno, è un abbraccio caldo e affettuoso, il passato da cui provengono e da dove vengo anch’io accarezza i ricordi, li rende struggenti, dolci, felici e disperati.
In ogni storia c’è il momento dei colori, l’odore delle pareti appena tinteggiate, l’entusiasmo dell’arredamento, la gioia di vedere nascere qualcosa, la curiosità dell’aggirarsi per le stanze ancora da scoprire, poi c’è la consapevolezza e infine l’abbandono.
Non sempre è negligenza, poche volte è pianificazione, più spesso sono fasi della vita, lo scorrere dei giorni e le circostanze che ci portano in una direzione.
Tra il fluttuare della tenda, si muove anche la camicia da notte poggiata sulla sedia; quelle braccia che penzolano giù dalla spalliera sembrano prendere vita e indicarmi un punto in direzione del muro dietro il materasso.
Mi fido di ciò che vedo e quel braccio ondeggiante mi spinge a guardare verso quel punto dove un filo elettrico di cotone intrecciato penzola dal soffitto. Alla sua estremità c’è un vecchio interruttore, come una piccola pera con il pulsante in fondo, e su una sporgenza fatta apposta sul muro sono appoggiate due abatjour di vetro verde.
Guardo meglio, mi avvicino e tracciato sull’intonaco polveroso c’è inciso un cuore con le iniziali A. ed L.
Il cuore fa un balzo, fa una capriola nel petto e mentre giro gli occhi vedo l’altro braccio della camicia da notte che mi indica un altro punto da esplorare, oltre la porta.
4
Fuori dalla finestra entra l’odore della lavanda e la mente corre a