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Caterina Sforza: Potere e bellezza nel Rinascimento
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E-book271 pagine4 ore

Caterina Sforza: Potere e bellezza nel Rinascimento

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La figura di Caterina Sforza si innalza sullo sfondo delle vicende rinascimentali che attraversarono l’Italia e l’Europa. A capo di uno Stato piccolo per superficie ma strategico negli equilibri di potere della penisola, Caterina apparve signora capace di strategie spietate, virago dagli appetiti erotici insaziabili, vedova di tre mariti, esperta di studi alchemici. Figura di donna guerriero, Caterina intese esaltare la bellezza e la salute secondo le prescrizioni di un ricettario che diede conto di lunghe sperimentazioni e di una cultura tradizionale tipica delle ricerche dell’epoca. La contessa seppe conservare il valore degli avi e lo spirito di suo padre, e fino al termine della propria vita volle proclamare il senso di fierezza della stirpe sforzesca e l’incarnazione di un valore destinato, forse per sempre, a far stupire il mondo.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita15 nov 2022
ISBN9788836162208
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    Anteprima del libro

    Caterina Sforza - Pierluigi Moressa

    Copertina.jpg

    PIERLUIGI MORESSA

    Caterina Sforza

    Potere e bellezza nel Rinascimento

    Introduzione

    Se io potessi scrivere tutto,

    farei stupire il mondo.

    Caterina Sforza, 1509

    Pare che l’intensità della fama che da secoli accompagna il nome di Caterina Sforza risieda soprattutto nell’ossimoro entro cui il contrasto tra la femminilità e la forza militare sa trovare una naturale soluzione. La potenza della contessa guerriera, figura della storia investita anche di valori leggendari, ha illustrato le immagini di un pensiero capace di consegnare ai posteri il senso fascinoso dell’integrazione fra elementi femminili e maschili. Vari e non molto numerosi sono gli esempi di queste personalità lungo le epoche.

    Caterina appartenne al Rinascimento e alla temperie culturale dei secoli XIV e XV seppe intonare ogni atto di potere, rivelando qualità strategiche trasfuse nel senso appassionato del proprio ruolo. In questo, l’humanitas della nobildonna riuscì a manifestarsi anche attraverso la costanza con cui coltivò gli Experimenti: un’elaborata farmacopea, fondata su prove dirette e richiami classici, saggezza popolare e cultura coeva, finalizzata a esaltare la bellezza e a favorire la salute. Ciò che della sua indole oggi soprattutto attrae è la capacità seduttiva che le consentì di mantenere in equilibrio, dopo la morte di Girolamo Riario, il piccolo Stato romagnolo (da lei governato in nome del figlio primogenito) tra giochi di dominio alternatisi nella penisola e mutevoli alleanze di più forti potentati. Ne è derivata un’icona composta di bellezza muliebre e crudeltà, di vorace capacità amatoria e sovrana indifferenza lungo una vita costellata dalla presenza di tre mariti a cui sopravvisse e dell’ultimo figlio, Giovanni dalle Bande Nere, celebre capitano di ventura e capostipite della dinastia granducale in Toscana. L’imponenza femminile ha trovato in lei una rappresentazione intessuta di terrore e sicurezza, tanto che, fino a poco tempo fa, a una donna versatile e autorevole in Romagna si dava l’appellativo di Caterina Sforza. La figura di suo padre, il duca Galeazzo Maria, è la presenza più importante nel mondo interiore di Caterina, che allo stile del genitore volle intonare modi e forme di governo. Non dissimile da quello del duca lombardo sarà il tramonto della potenza sforzesca in Romagna, destinata a soccombere per l’irrompere di inarrestabili sopraffazioni determinate dai mutamenti avvenuti nel corso della storia.

    Se a Galeazzo la situazione milanese sfuggì di mano per le errate considerazioni sulla propria influenza, a Caterina non restò altro che impugnare le armi e difendersi fino allo stremo entro la rocca forlivese. Fu Cesare Borgia, duca del Valentinois, l’ultimo e invincibile avversario, l’uomo più sagace e potente della sua epoca. La contessa patì il rifiuto dei propri sudditi durante l’atto finale della resistenza e nei propositi di rientro, voltafaccia amaro e rivelatore di ambivalenze inevitabili di fronte al suo potere assoluto. Vero è che, fino agli ultimi giorni, Caterina mantenne intatto il sentimento del proprio valore, convinta di avere attraversato gli eventi con saggezza e coraggio tali da poter stupire il mondo. Fu il governo della contessa un’autorità distante da quella dei domini signorili nel Rinascimento? In che misura i suoi atti furono intessuti di trame leggendarie? A quali conclusioni è giunta la ricerca storica sulla sua figura? Questi sono gli interrogativi a cui cercherò di dare risposta, mentre, sottraendolo all’oblio del tempo e all’incertezza delle narrazioni, traccio ancora una volta il ritratto di una donna, destinata, dopo oltre cinque secoli, a far parlare ancora di sé.

    Forlì, 25 novembre 2021.

    L’autore

    Preludio romagnolo

    Merito et tempore.

    Motto del ducato milanese

    Cotignola è una piccola città della pianura romagnola. Distesa sull’agro ravennate, ricco degli alberi da frutto, i cotogni, da cui l’abitato prende nome, reca monumenti di un illustre passato. La torre dell’Acuto (ricostruita dopo le demolizioni belliche) fa memoria del condottiero inglese che divenne padrone (1375) del territorio. Solitaria, domina l’abitato e accoglie la riproduzione della campana seicentesca che invitava i cittadini tanto a vigilare per gli incendi, le esondazioni fluviali e gli attacchi dei nemici quanto a rispondere agli inviti festivi e alle convocazioni consiliari.

    La torre funse da punto di riferimento viario grazie ai fuochi che venivano accesi alla sua sommità. Cotignola fu concepita come nucleo urbico costituito entro l’abbraccio del Senio, il corso d’acqua che più volte, lungo il corso dei secoli, la rese castello inespugnabile. In questa parte della Romagna si formarono compagnie di armati destinate a grande fama per il servizio svolto a vantaggio di illustri potentati. Dalla vicina Barbiano proveniva Alberico, nelle cui vene scorreva il sangue dei conti di Cunio, nobili di stirpe carolingia. Alberico da Barbiano, primo in Italia, fu capitano di ventura. Nel 1379 sconfisse, per conto di papa Urbano VI, le orde di Guasconi e di Bretoni che sostenevano l’antipapa Clemente VII, il cardinale di Ginevra; questi, due anni prima, aveva fatto strage della popolazione cesenate. Con lo stemma Liberata Italia ab Exteris, i discendenti di Alberico sarebbero divenuti, per investitura viscontea (1465), signori del feudo di Belgioioso in Lombardia, il cui titolo principesco tuttora detengono.

    Nota in Romagna, la famiglia Attendolo, in contrasto coi Pasolini, esercitava vasti poteri sul territorio di Cotignola. Ramo di nobiltà minore, legati alla fede ghibellina, gli Attendolo si dedicavano prevalentemente all’agricoltura e alla macinazione del grano. Appena tredicenne, Muzio Attendolo venne arruolato dalla compagnia di Boldrino da Panicale. Il condottiero perugino, in cerca di armati, colpito dal vigore del giovane, gli propose di seguirlo. Questi stava lavorando i campi di famiglia. Secondo la tradizione, Muzio avrebbe affidato la scelta a un presagio: lanciò in alto la zappa affermando che se fosse caduta a terra avrebbe continuato la vita di agricoltore, se fosse rimasta in aria avrebbe, invece, seguito gli armati. La zappa restò impigliata fra i rami di una quercia. Il giovane Attendolo, sottratto un cavallo alle stalle di suo padre, seguì Boldrino. Siamo nel 1382. L’esperienza entro la compagnia di ventura renderà Muzio sempre più sicuro nel mestiere delle armi. Quattro anni dopo seguirà Guido d’Asciano, tra le cui schiere, appena formate, militava come paggio Braccio da Montone, destinato a una controversa e tetra fama di capitano. Subito dopo, il romagnolo sarebbe entrato a far parte della compagnia di San Giorgio sotto la guida di Alberico da Barbiano. Risale a questo periodo la nascita del soprannome Sforza, che distinse la casata. Pare che il termine abbia relazione con la forza di Muzio, capace di piegare un ferro di cavallo a mani nude, o con la sua attitudine a non scoraggiarsi mai, anzi a sforzarsi, durante i combattimenti più ardui. Lo Sforza legherà la propria sagacia militare a Giovanna d’Angiò, sovrana di Napoli. Divenuto gran conestabile del regno, ne seguirà le alterne vicende. Inviato dalla regina a liberare L’Aquila, occupata dagli aragonesi (1424), Muzio cadde e annegò nelle acque del fiume Pescara, mentre cercava di soccorrere un valletto travolto dalla corrente.

    Nel 1411, lo Sforza era divenuto conte di Cotignola. Il comune reca ancora come emblema l’antico stemma familiare: una mela cotogna afferrata dalla branca leonina. La dinastia sforzesca resse le sorti del paese per oltre un secolo, mentre gli abitanti seppero eroicamente resistere (1506) all’assedio franco-veneto che intendeva sottrarre il centro romagnolo al controllo lombardo. Entro l’oratorio di Santa Maria degli Angeli, alla periferia dell’abitato, è accolto il mausoleo degli Sforza che fa memoria di Elisa Patrocini, madre di Muzio. Festa tradizionale, tuttora celebrata a Cotignola, il giovedì di mezza Quaresima e ricca di significati simbolici, è la Segavecchia, ove il simulacro di cartapesta raffigurante un’anziana donna viene decapitato a spregio della leggendaria fattucchiera che si sarebbe resa autrice di un maleficio contro Francesco Sforza. Questi, figlio naturale di Muzio (generato nel 1401 dalla relazione con Lucia Terzani), si distinse come condottiero. Dai tre matrimoni di Attendolo erano discesi rami diversi di nobiltà. Il motto sforzesco Merito et tempore cristallizzò non solo lo stile di governo, ma anche la tattica militare del capostipite, propenso a un saggio temporeggiare per aver ragione del nemico.

    Francesco proseguì per qualche tempo le imprese paterne. Rimasto per lungo tempo al servizio del duca milanese Filippo Maria Visconti, ne sposerà (1441) la figlia Bianca Maria. Da questa unione avrà origine la dinastia ducale degli Sforza, che avrebbero modificato il loro stemma grazie all’inserto del biscione visconteo, segno di continuità con la signoria precedente e di trasformazioni in atto. Alla morte del Visconti (1447), fu istituita l’Aurea repubblica ambrosiana, retta da esponenti della nobiltà cittadina. Francesco Sforza, attraverso abili mosse militari e diplomatiche, abolì la repubblica e divenne duca di Milano, accettato più per necessità che per scelta da una città stremata dalla fame. Il nuovo signore fece ingresso da Porta Ticinese il 25 marzo 1450. Successivamente partecipò con favore alle trattative della pace sancita a Lodi il 9 aprile 1454 tra Milano e Venezia; con essa, vennero stabiliti nuovi rapporti di potere entro la penisola destinata a conoscere decenni di equilibrio politico e di favorevoli condizioni. Memoria grandiosa dell’opera di Francesco è resa a Milano dal castello sforzesco, residenza voluta dal duca e opera difensiva tra le maggiori in Europa, sorta sui resti di un’antica fortificazione medioevale.

    Galeazzo Maria Sforza salì al governo ducale di Milano, alla morte di suo padre Francesco, nel 1466. Uomo volitivo, accorto nella diplomazia, amante delle arti e noto per la collezione di libri miniati, seppe gestire con accortezza e con tratti di sistematica violenza il potere assoluto. Nel 1471, avendo intuito il valore strategico delle roccaforti romagnole, trasformò il protettorato militare su Imola in dominio, assumendo come pretesto le discordie fra Taddeo Manfredi, feudatario del papa, e Guidaccio, suo figlio. Discendente di un ramo minore della famiglia faentina, Taddeo era stato creato signore di Imola al termine delle lotte romagnole sostenute dai Visconti. La città, tutelata con un presidio sforzesco fin dal 1455, entrò nelle mire del ducato per il controllo di un punto centrale nelle comunicazioni, cui Venezia e Firenze guardavano con interesse. Ai margini del nucleo urbano imolese, entro il convento dell’Osservanza, è visibile l’affresco staccato della Madonna pacificatrice. Opera di Guidaccio da Imola (1472), venne realizzata come auspicio di concordia fra Taddeo e suo figlio. Il potere milanese, consolidatosi all’indomani dei nuovi contrasti con gli Aragonesi presenti a Napoli, avrebbe concesso a Imola un breve periodo di tranquillità. Segno della potenza sforzesca fu la nuova rocca, innalzata sui resti di un torrione medioevale. Ispirato alle esigenze difensive create dall’impiego delle moderne armi da fuoco, il castello imolese si presenta tuttora con massiccia ed elegante imponenza, forte dei quattro torrioni perimetrali e del possente mastio ribassato. Taddeo ricevette in cambio di Imola il feudo di Castelnuovo Tortonese sostituito successivamente dai territori di Cusago e del Bosco alessandrino. La nuova conquista turbò gli equilibri tra la signoria lombarda, Venezia, Firenze e il papato a cui Imola apparteneva. Nessuno poteva immaginare come la discendenza ducale avrebbe, di lì a pochi anni, impresso un nuovo sigillo in questa parte della Romagna.

    Galeazzo e Caterina

    Io ho il cervello del duca Galeazzo

    e son fantastica come lui.

    Caterina Sforza, 1487

    Figlia di Galeazzo e di Lucrezia Landriani, Caterina nacque a Milano o a Pavia.

    In un celebre ritratto eseguito da Piero del Pollaiolo (oggi a Berlino), la critica ha, pur con qualche incertezza, ravvisato le sembianze di Lucrezia Landriani. Raffigurata di profilo, la giovane donna mostra finezza estrema di tratti, carnagione chiara, capelli biondi, espressione assorta; l’artista mette in rilievo la dolce curva del collo, preludio al sontuoso ornato dell’abito che la riveste. Nel dipinto del Pollaiolo si avverte la dolcezza di un Rinascimento che nella figura femminile vide l’incarnazione di tratti e virtù ideali.

    Sposa del conte Gian Piero Landriani (uomo di fiducia nella corte milanese), Lucrezia, a vent’anni, diventò amante di Galeazzo Sforza, all’epoca sedicenne, erede designato al trono ducale. Dalla loro unione nacquero quattro figli: Carlo (1461), Caterina (1463), Alessandro (1465), Chiara (1467), riconosciuti e in seguito adottati dal duca e da sua moglie, Bona di Savoia (sposata nel 1466). Dal marito, Lucrezia aveva generato Piero, Bianca e Stella, destinati a seguire in Romagna le vicende di Caterina Sforza. I figli di Lucrezia e Galeazzo furono allevati dapprima da Bianca Maria Visconti, vedova di Francesco Sforza, poi, alla sua morte (1468), dalla stessa Bona di Savoia.

    Annota la storiografia che il nome di Caterina Sforza fu reso noto, per la prima volta, da una lettera scritta da Galeazzo, mentre era impegnato a Rimini sul campo di battaglia in un’impresa della lega stabilita tra Milano, Firenze e Napoli per contrastare le mire veneziane sui territori romagnoli. Galeazzo inviò la missiva alla madre, Bianca Maria Visconti, per chiedere notizie della piccola, gravemente malata. Siamo nel 1468, Caterina aveva appena cinque anni. Le lettere si susseguirono e diedero conto della preoccupazione del duca per sua figlia, la prima femmina che aveva generato. Alla bambina, che presto avrebbe recuperato la salute, il duca fece impartire un’educazione accurata.

    Dal matrimonio con Bona nasceranno Gian Galeazzo (1469), erede del ducato, Ermes (1470), Bianca Maria (1472), Anna Maria (1473). Non c’era differenza nel trattamento riservato ai figli nati dall’unione con Lucrezia rispetto a quelli discesi dal legittimo matrimonio. A tutti il duca consentì di immergersi nel clima estetico e culturale diffuso a palazzo. Allievo dell’umanista Francesco Filelfo (autore della Sforziade, poema celebrativo della famiglia), Galeazzo volle lasciare memoria di sé e della propria dinastia, entro palazzi e castelli, attraverso cicli pittorici (oggi perduti) affidati ad artisti come il Foppa, Bartolomeo da Cremona, Bonifacio Bembo. Lo stesso duca impartì puntigliose istruzioni ai pittori affinché le rappresentazioni si intonassero alle necessità allegoriche e celebrative. Alla corte sforzesca non mancava la musica, grazie alla creazione di una cappella ove figuravano i migliori cantori d’Europa sotto la direzione di Gaspard van Weerbecke. Il fiammingo allestì il coro più numeroso del continente; a esso volle affidare le proprie composizioni realizzate in uno stile melodico del tutto originale per l’epoca.

    Per Caterina venne progettato, in tenera età, un matrimonio, così come era costume dell’epoca. Il prescelto fu Onorato Torelli, figlio di Marcantonio, capitano delle milizie sforzesche. Con una dote di diecimila ducati, la bambina (di appena sette anni) fu promessa sposa. Onorato, da tempo infermo, ben presto morì; ogni progetto per sistemare la fanciulla venne sospeso.

    Nel marzo 1471 si realizzò una missione sontuosa: il viaggio del duca milanese a Firenze. L’occasione risultò importante per esibire la ricchezza e la potenza della casata sforzesca. Pretesto della visita fu il proposito, manifestato da Galeazzo, di sciogliere un voto all’Annunziata. Motivo reale apparve il desiderio di mostrare ai Medici come il potere delle armi sforzesche fosse indispensabile per garantire a Lorenzo il Magnifico un ruolo di equilibrio politico entro la penisola. Allo stesso tempo, Galeazzo appariva sollecitato dall’urgenza di formare un accordo con Firenze dopo il colpo di mano realizzato su Imola. Il duca cavalcò fino alla capitale toscana accompagnato da sua moglie Bona e dalla piccola Caterina; incerta è la presenza di altri figli. L’arrivo fu imponente: un centinaio di armati, cinquecento fanti, cinquanta staffieri e altrettanti cavalieri, duemila cavalli, dodici carri coperti di panno ricamato in oro, cinquecento coppie di cani, grande numero di falconi e sparvieri. Damigelle, baroni, cortigiani col loro seguito completavano il corteo che apparve superiore perfino all’ideale cavalcata dei Magi, sontuoso affresco con cui Benozzo Gozzoli aveva raffigurato (1459) in palazzo Medici l’arrivo dei dignitari al concilio di Firenze, tenutosi nel 1439. Il clima in città si mantenne festoso per tutto il tempo della visita, benché si fosse in Quaresima. Scriveva Machiavelli: «Se dunque il duca trovò la città di Firenze piena di cortigiane delicatezze e costumi a ogni bene contrari, molto più la lasciò». Fu questo il primo viaggio politico della piccola Caterina, che di lì a pochi anni si sarebbe trovata coinvolta in vicende di grande peso entro le alleanze ducali. L’incontro fiorentino rinsaldò la collaborazione tra gli Sforza e la famiglia medicea, concordia instaurata da tempo per opera del duca Francesco e di Cosimo il Vecchio. Si rinnovò anche la memoria del viaggio compiuto dal giovane Galeazzo a Firenze dodici anni prima, quando aveva ricevuto l’onore di cavalcare alla destra di Pio II, nel tempo in cui il pontefice era interessato a reclutare forze cattoliche per la crociata destinata, almeno negli intenti, a liberare Costantinopoli dagli ottomani.

    Al ritorno, la comitiva toccò Lucca e Porto Venere, dove si imbarcò per Genova, città soggetta al potere sforzesco. Benché accolto con onore, Galeazzo diede prova di sfiducia verso la nobiltà locale, preferendo alloggiare entro il castello anziché nelle sontuose stanze del palazzo dei duchi. L’angoscia di un attentato perseguitava lo Sforza fin dal viaggio con cui aveva raggiunto Milano nel 1466 per succedere al proprio padre. Richiamato dalla Francia alla morte di Francesco, il giovane erede, benché si muovesse in incognito e fosse travestito da mercante, aveva subito l’attacco degli armati sabaudi ed era stato costretto a rifugiarsi nell’abbazia di Novalesa. L’intervento di sua madre, non senza difficoltà, poté convincere gli ufficiali piemontesi a liberarlo.

    Sul piano delle vicende politiche romane, papa Paolo II, il veneziano Pietro Barbo, morì il 26 luglio 1471. Nel conclave, dopo un iniziale vantaggio del celebre cardinale Bessarione¹, prevalse una linea favorevole alla politica del duca di Milano. Tra vari candidati² fu scelto, dopo una settimana di votazioni, il ligure Francesco della Rovere, che fu eletto papa il 9 agosto. Questi, entrato in giovane età nell’ordine dei frati minori conventuali, ne divenne ministro generale. Noto per la cultura teologica, tenne cattedra nelle principali università italiane. Cardinale nel 1467, salì al pontificato assumendo il nome di Sisto IV in onore del santo celebrato il giorno della sua elezione. Nella biografia del nuovo papa entrarono (da lui stesso amplificate) alcune narrazioni leggendarie; tra queste, i sogni premonitori di sua madre sul destino illustre del piccolo. Il pontificato di Sisto viene considerato un esempio di nepotismo: Giuliano della Rovere (il futuro papa Giulio II), Pietro Riario e, alla sua morte, Raffaele Riario, nipoti del pontefice, furono da lui elevati alla porpora cardinalizia. Altri intrapresero la carriera politica: Giovanni della Rovere ricevette la carica di prefetto dell’Urbe, mentre Girolamo Riario aspirò lungamente ad alti onori. Questi, nato nel 1443, figlio di Bianca della Rovere, sorella del papa, era contabile al porto di Savona, la sua città natale.

    1. Basilio Bessarione, di origine turca, si distinse al concilio di Firenze per l’unione delle Chiese greca e latina. Fu personaggio di spicco dopo la caduta di Costantinopoli per la salvaguardia del patrimonio culturale bizantino.

    2. Francesco Gonzaga, Angelo Capranica, Guillaume d’Estouteville, Bartolomeo Roverella, Amico Agnifili, Giacomo Ammannati Piccolomini.

    Entrato alla corte papale, si mostrò completamente digiuno non solo di qualità diplomatiche, ma anche di buone maniere, entrando in frequenti contrasti con gli esponenti della nobiltà romana. La sua sete di potenza lo spinse a cercare conquiste sempre nuove entro i domini signorili della penisola.

    Possiamo scorgere le sembianze di Girolamo Riario nel celebre affresco di Melozzo da Forlì (oggi staccato e visibile entro i Musei vaticani) Sisto IV nell’atto di nominare il Platina prefetto della Biblioteca vaticana (1477). Pare che il pittore sia riuscito a rendere manifesto il clima della corte papale: entro un’ambientazione architettonica sontuosa, composta di arcate e di cassettoni dorati, il pontefice siede austero e assorto, quasi assopito; dinanzi a lui è inginocchiato l’umanista Bartolomeo Sacchi (detto il Platina dal paese natale, Piadena, in Lombardia), uomo di ampia cultura prediletto da Sisto. Nella composizione della scena, il bibliotecario appare umanamente devoto ed emotivamente partecipe, mentre le altre figure risultano quasi elementi di contorno più che autentici protagonisti del dipinto. Due cardinali stanno in piedi accanto al papa e Giuliano della Rovere fronteggia lo zio in una sorta di premonizione del futuro pontificato; l’altro, di fianco al trono, viene riconosciuto (pur con qualche dubbio della critica contemporanea) come Raffaele Sansoni Riario, protonotario apostolico. Distanti dal gruppo, quasi distratti in altri pensieri, si delineano, in veste di gentiluomini, Giovanni della Rovere e Girolamo Riario. Questi, alto di statura e in abito ornato, si presenta come un giovane uomo dalla bellezza raffinata; il pennello di Melozzo conferisce al suo volto un tratto imbronciato, forse capriccioso. Sotto le pitture, dettata dallo stesso Platina, corre un’iscrizione³ che fa memoria delle opere compiute dal pontefice: chiese, ospedale di Santo Spirito, villaggi, piazze, mura fortificate, il ponte Sisto, l’acquedotto di Trevi, il porto di Civitavecchia e soprattutto la biblioteca, la prima pubblica, distinta in quattro sale (latina, greca, segreta, pontificia). Il nome di papa Sisto è legato anche alla celebre cappella (Sistina, appunto) da lui voluta e fatta decorare tra il 1481 e il 1482. Lavorarono al cantiere della Sistina, strutturata su disegno di Baccio Pontelli, promettenti e rinomati artisti come Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Cosimo Rosselli. Sarà un altro papa roveresco, Giulio II, a modificarne la decorazione con

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