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I Malatesta: Filosofia, sentimento e guerra nella storia di una dinastia
I Malatesta: Filosofia, sentimento e guerra nella storia di una dinastia
I Malatesta: Filosofia, sentimento e guerra nella storia di una dinastia
E-book318 pagine4 ore

I Malatesta: Filosofia, sentimento e guerra nella storia di una dinastia

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Dai domini estesi fra la Romagna e le Marche, dalle rocche di collina e di pianura, dalla biblioteca cesenate e dal tempio riminese, il segno impresso dalla famiglia Malatesta sui propri territori è documentato non solo delle epoche della storia, ma anche dal lascito dello spirito. Singolare fu, infatti, la commistione tra la forza delle armi e l’elevazione del pensiero che permeò gli atti di questa casata. Tracciarne la vicenda, che va dagli echi ferrigni del Medioevo agli ultimi splendori del Rinascimento, significa illustrare un segmento della storia italiana e dar conto degli sviluppi del potere come un atto politico e insieme estetico, tra desideri di espansione, perigliose alleanze e atti esecrabili. In questo affresco di filosofia e guerra, ampio spazio è dato alle vicende d’amore e di morte della casata. I profili di Francesca da Rimini e di Parisina Malatesta ispirarono poeti, romanzieri e musicisti e lasciano ancora echi di nostalgia in chi al potere della morale e della ragion di Stato sa dar valore alla potenza dei sentimenti.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita19 set 2023
ISBN9788836163298
I Malatesta: Filosofia, sentimento e guerra nella storia di una dinastia

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    Anteprima del libro

    I Malatesta - Pierluigi Moressa

    MALATESTA_COVER_EBOOK.jpg

    Pierluigi Moressa

    I MALATESTA

    Filosofia, sentimento e guerra nella storia di una dinastia

    La Rosa Malatestiana

    Urbis Arimineae gloria tanta ruat.

    Liber Isottaeus, secolo XV

    «Così grande si diffonda la gloria di Rimini»: esplicito è l’augurio formulato nel libro dedicato a Isotta degli Atti. L’amore di Sigismondo per colei che fu la sua terza sposa viene celebrato lungo versi dalla metrica cesellata, concepiti nel tempo in cui la fama dei Malatesta raggiunse i vertici di un favore indiscusso. La famiglia riminese rappresentò lo specchio di epoche della storia capaci di affiancare alla forza militare lo sviluppo di una concezione estetica preziosa, di un afflato artistico moltiplicato attraverso le forme e le figure. Tra i simboli del casato spicca la rosa, fiore a quattro petali, simbolo di vitalità e attributo di vittoria. E di vittoriose espansioni si rese protagonista la dinastia malatestiana nel lungo intreccio da cui emergono molteplici i profili dei signori in carica e le ombre dei personaggi dotati di minor rilievo, ma comunque significativi entro lo scacchiere delle umane tensioni e delle relazioni politiche. La mutevolezza dei destini individuali, i giochi di dominio e le intese che percorsero la penisola compongono la trama di un lungo racconto destinato a concludersi solo per le trasformazioni imposte da fattori di più ampio respiro. La vicenda della famiglia divenne nota nel Medioevo romagnolo, epoca ferrigna e «sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni»,¹ quando acquistò un ruolo preminente al tempo in cui le contese più feroci iniziarono a declinare. I discendenti del Mastino da Verucchio seppero mantenere il dominio sul territorio con l’uso delle armi e la variazione nelle alleanze. Distintisi in differenti rami dinastici, i Malatesta raggiunsero vertici di fama con la figura di Sigismondo, che seppe riassumere i tratti del principe potente e del sagace condottiero, tanto da collocare il proprio nome tra gli artefici del Rinascimento italiano. Le lotte con Federico da Montefeltro e col pontefice, gli interessi per la cultura neoplatonica e per un linguaggio estetico denso di significati intimi fecero sì che il signore riminese consegnasse ai posteri i tratti di una personalità sorprendente destinata a offrire fonti continue di ricerca e interrogativi. Sulle vette appenniniche, sopra i contrafforti che guardano al Montefeltro, nella pianura distesa verso il mare i segni della potenza signorile si concretizzarono come opere militari difensive. A Rimini, il Tempio malatestiano è luogo per il culto religioso e sacrario di memorie, stupefacente nella concezione e nel profilo tanto da apparire al pontefice Pio II Piccolomini un esecrabile tempio pagano. Il suo valore è contenuto entro il sentimento capace di rendere tangibile l’intento di recuperare antichità familiari attraverso un linguaggio colto, sorta di rito per iniziati, ispirato alla concezione del potere esercitato dal signore. In esso trovò forma compiuta il desiderio di congiungere e rendere palesi l’ambizione di una politica spietata e il delicato amore per la bellezza. La mente di Sigismondo favorì lo sviluppo di una simbologia personale innervata dalla cultura neoplatonica mutuata dalla filosofia di Gemisto Pletone fino a costituire un unicum nel panorama delle corti europee. Fiorisce ancora la rosa malatestiana. Cercherò di svelare, tra i suoi petali, il senso palese e segreto di una storia che, attraverso i secoli, non cessa ancora di meravigliare.

    Gennaio 2023

    L’autore

    Guelfi e ghibellini

    Antichi romani et anticamente gentiluomini.

    Baldo Branchi, secolo XV

    Tra la nebbia di incerte narrazioni e di vecchie leggende, emerge confuso e indefinito il ritratto dei primi Malatesta, destinato ad acquisire, per l’influsso di alcuni cronisti locali² e di una tradizione encomiastica, ascendenze di sangue entro la purezza di natali appartenuti a Roma antica. Di qui il casato avrebbe sviluppato una storia autonoma fino a trasferirsi nella valle del Marecchia con lo scopo di sfuggire agli odi di parte e ai rancori politici. Tre figli avrebbe generato il capostipite del ramo disceso dalla gens Cornelia, entro cui si erano distinti gli Scipioni; per questo, tre teste ornarono uno degli stemmi malatestiani.³ Altri assegnano, invece, alla casata una discendenza germanica e un rango nobiliare che la collocherebbe entro la cerchia di Ottone III, re dei Franchi orientali e imperatore romano. Tanto intima sarebbe stata l’unione con l’imperatore che alcuni personaggi della famiglia l’avrebbero seguito nel 996 durante la sua prima discesa in Italia e si sarebbero stabiliti in terra riminese. Non approfondiremo altre ipotesi fantasiose e idealizzanti degli scrittori rinascimentali desiderosi di trovare antenati più che illustri per il sangue della signoria adriatica.

    L’origine accertata dei Malatesta viene ricondotta a Pennabilli, centro appartenente all’alta valle del Marecchia. Il paese trae origine da due distinti insediamenti. Più antico è quello di Billi, derivato dall’etimo etrusco bilia («alberi»). In seguito alle devastazioni portate dai visigoti, i suoi abitanti si rifugiarono sui monti: uno di questi rilievi, detto il Roccione, fu indicato come Penna (in etrusco: «vetta»), mentre, intorno al 1100, tale Giovanni da Carpegna sarà il fondatore, sul luogo dell’antico villaggio, del castrum di Billi.⁴ Un figlio di Giovanni, noto per le intemperanze e il carattere violento, avrà il soprannome di Malatesta, termine che resterà a indicare la famiglia. Giovanni si trasferirà a Verucchio poi a Rimini. Intorno al 1150, Malatesta (I) viene indicato come cittadino riminese. La sua figura resta avvolta entro il mistero del tempo antico, mentre, sulla base di alcuni documenti, si può risalire ad alcuni acquisti di terre da lui compiuti fra il Marecchia e il Rubicone. I domini familiari conobbero espansioni nella valle dell’Uso e in Valconca, fino a lambire la marca anconetana. La ricchezza malatestiana appare consolidata fin dall’alto Medioevo grazie alle buone relazioni tanto con la Chiesa quanto con l’impero e grazie ai legami con potenti famiglie ravennati, tra queste i Traversari da cui provenne la sposa di Malatesta: Berta figlia di Pietro.

    Troviamo, nella discendenza del capostipite, alcuni personaggi: Malatesta Minore (II), Malatesta della Penna (III), Giovanni noto per le ripetute intemperanze tanto da essere obbligato a fare (21 dicembre 1197) solenne ammenda dinanzi ai consoli e al popolo di Rimini sulla pubblica piazza⁵ seguita il giorno seguente da un atto di sottomissione al vescovo. Tra le promesse compiute da Giovanni, annoveriamo la soggezione di Verucchio all’autorità consolare, l’assicurazione della propria residenza a Rimini in tempo di pace per un periodo da uno a tre mesi, stabilito delle autorità, col fine di favorire la sua partecipazione a ogni operazione difensiva nel caso in cui fosse scoppiata una guerra, la dichiarazione ufficiale di ostilità contro i nemici del libero comune adriatico: soprattutto i cesenati. I contrasti fra Giovanni, che aveva il proprio centro di potere entro il fortilizio di Verucchio, e il comune riminese proseguiranno almeno fino al 1216, senza impedire al Malatesta di sedere nel Civico consiglio generale.

    Suo nipote, Giovanni, cresciuto sotto la tutela dello zio in quanto orfano di padre, fu detto Malatesta (IV) della Penna. Era nato forse a Pennabilli nel 1183, figlio di Malatesta III e di Alaburga. La sua è la prima figura della famiglia caratterizzata da un profilo storico, tanto che le gesta a lui attribuite possono essere ricostruite con discreta precisione. Alla morte dello zio (1221), sarà Malatesta IV della Penna ad assumere la guida del casato.⁶ Contrasti e liti con esponenti riminesi di spicco, dispute col comune seguite da pacificazioni e promesse non mantenute: il comportamento del Malatesta non appare dissimile da quello tenuto da altre famiglie cittadine. A lui il podestà in carica, Ottone da Mandello, concesse la cittadinanza riminese con tutte le esenzioni conseguenti, il contributo per l’edificazione di alcune dimore in città e per il restauro della torre di famiglia. Nel 1228 Malatesta della Penna fu chiamato a Pistoia per svolgere le funzioni di podestà.⁷ Lo accompagnarono suo figlio Malatestino⁸ (nato da sua moglie Adalasia), Angilero, uomo d’armi, Ranieri e Andalo, giuristi di origine forlivese. Il podestà si distinse nelle delicate vicende attraversate dal comune toscano e durante le lotte con Firenze culminate nella battaglia di Vairano dove Malatesta venne sconfitto, fatto prigioniero e successivamente scomunicato per essersi messo in contrasto col legato papale.

    Arriviamo al 1229. Federico II di Svevia imperatore (1194-1250) intendeva riaffermare con vigore il proprio potere in Italia, mentre gli schieramenti di guelfi e ghibellini infiammavano di violenze e ripicche i comuni romagnoli. Troviamo Malatesta della Penna schierato coi ghibellini: fedele, dunque, all’imperatore. È questo l’anno della cosiddetta guerra delle Chiavi voluta da papa Gregorio IX⁹ come crociata contro Federico II finalizzata a ottenere il controllo delle terre imperiali in Puglia e in Abruzzo e a conquistare il regno di Sicilia. Federico, scomunicato con l’accusa di avere ritardato per un tempo troppo lungo la crociata che era stato esortato a intraprendere,¹⁰ si trovava a quel tempo in Terrasanta. Tornato a Brindisi, intraprese una vigorosa controffensiva antipapale destinata a concludersi rapidamente con la vittoria delle armi imperiali. La pace stabilita a San Germano¹¹ (20 luglio 1230) fu seguita da un atto di magnanimità compiuto da Federico, che concesse l’amnistia a tutti i nemici della corona, mentre, il mese successivo, la scomunica nei suoi confronti venne tolta. Le ostilità tra guelfi e ghibellini esplosero, tuttavia, con più vigore soprattutto in Romagna, dove il partito filoimperiale contava maggiori seguaci. La seconda Lega lombarda, formatasi nel 1226, aveva visto l’alleanza di numerosi comuni dell’Italia settentrionale contro l’imperatore che li avrebbe sconfitti (27-28 novembre 1237) a Cortenuova presso Bergamo.¹² Anche Bologna faceva parte della Lega, mentre in Romagna, Imola, Forlì, Bertinoro e Ravenna si erano schierate con l’imperatore e Faenza aveva deciso di mantenersi nell’orbita guelfa e bolognese. Alla coalizione ghibellina si aggiunse (1230) Rimini, che nel 1235 darà un contributo in armi durante la battaglia di Calcinara, dove gli avversari cesenati risulteranno vincitori. In quello stesso anno, Malatesta assistette all’ingresso in Rimini di Federico II, che sostò in città e concesse all’Ordine teutonico¹³ la Bolla d’oro: riconoscimento di sovranità sul Kulmerland¹⁴ e sopra tutte le terre sottratte ai prussiani. Il 1239 fu l’anno che vide la piena affermazione di Malatesta della Penna a Rimini: ricevette, primo fra i notabili locali, l’incarico di podestà.

    L’imperatore, nel frattempo, aveva tentato di ridimensionare il potere del comune guelfo di Bologna, progettando un massiccio attacco in armi contro le sue mura. I contrasti tra Imola e il centro felsineo coinvolgevano da tempo anche i guelfi faentini distintisi per i frequenti attacchi contro altre città romagnole (Forlì, Ravenna, Forlimpopoli) e per l’alleanza con Cesena. Improvviso e inatteso si registrò il voltafaccia di Ravenna che spinse l’imperatore ad attaccare la città, sottoponendola a un duro assedio fino alla capitolazione in soli sei giorni. A questo punto, Federico, lasciato il conte Malvicini di Bagnacavallo a presidiare Ravenna con l’incarico di podestà, si diresse verso Faenza: punto strategico dei guelfi bolognesi in Romagna. La presa della città appariva indispensabile nello scacchiere romagnolo, tanto più che la sua occupazione avrebbe consentito agli imperiali di avere le spalle coperte in vista dell’attacco a Bologna. Federico mosse contro Faenza il 26 agosto 1240: la città riceveva anche l’appoggio dei veneziani, che vi avevano inviato come podestà Michele Morosini e intendevano bloccare con ogni accorgimento l’espansione federiciana verso Ferrara. Gli schieramenti apparvero subito agguerriti: Faenza poteva contare su un ampio numero di militi veneziani e bolognesi nonché sugli armati del conte Guido Guerra, fuoriuscito dal campo imperiale; fin dal 1231, era stata dotata di nuove robuste mura e di ampie fortificazioni. L’assedio si rivelò inaspettatamente lungo per i piani imperiali, e Federico intuì che avrebbe dovuto prendere la città per fame: si preparò a trascorrere lunghi mesi attendendo il cedimento e la resa, che avvenne il 14 aprile 1241 e segnò l’affermazione del potere svevo in gran parte della Romagna: stile di governo che l’imperatore avrebbe desiderato imporre all’intera penisola. Il lungo assedio aveva impoverito le finanze imperiali, cosa che fece desistere Federico dall’attaccare Bologna. Il suo progetto di estendere il controllo strategico a tutta l’Italia settentrionale terminò con la battaglia di Parma (18 febbraio 1248), quando la città, fedele da tempo all’imperatore, si sottrasse all’alleanza per il prevalere del partito antifedericiano: assediata per molti mesi dalle truppe di Federico, riuscì a sovvertire le sorti del conflitto grazie all’abilità e alla tattica dei comandanti guelfi sostenuti dal pontefice Innocenzo IV.¹⁵ La morte di Federico II (13 dicembre 1250), avvenuta non lungi da Foggia, segnerà il definitivo cambiamento dell’assetto politico nella penisola.

    Intanto a Rimini, le funzioni podestarili erano state rinnovate a Malatesta della Penna nel 1247, un anno prima della sua morte. Dai documenti risulta, a quel tempo, la presenza in vita di un fratello (Malatesta), di una figlia (Emilia) e di tre figli maschi: Guido, morto giovane, Giovanni (che darà origine al ramo di Sogliano) e Malatesta V, nato nel 1212 (detto inizialmente Malatestino per distinguerlo dallo zio), destinato a essere celebre come Malatesta da Verucchio.

    Il Mastin Vecchio

    Là dove soglion fan dei denti succhio.

    Inferno XXVII, 48

    La Rimini medioevale recava ancora i segni di una grandezza risalente al tempo antico di Roma, quando, col nome di Colonia Augusta, era stata prediletta dall’imperatore Ottaviano, onorata di arco d’ingresso eretto (27 a.C.) nel punto in cui terminava la Flaminia: via consolare creata (220 a.C.) per connettere l’Urbe al porto adriatico. La città, dotatasi nel 1204 del palazzo dell’Arengo e provvista di mura, erette da Federico II tra il 1225 e il 1248, si era espansa come libero comune seguendo l’orientamento della pianta romana.¹⁶ Le difese federiciane proteggevano anche il lato esposto all’Adriatico, estendendosi oltre l’impianto antico. Col tempo verranno definiti i toponimi dei quartieri: borgo Santa Colomba (poi Cittadella), sorto accanto alla cattedrale e comprendente le residenze malatestiane; borgo Pomposo¹⁷ (poi Pataro),¹⁸ esteso dall’arco di Augusto fino a piazza della Fontana; Montecavallo, situato a nordest del cardo romano;¹⁹ borgo del Mare (poi Clodio). All’esterno della pianta augustea, borgo San Giuliano sarà cinto di mura nel secolo XIV, tempo in cui l’assetto difensivo conoscerà operazioni di rinnovo e di rinforzo, mentre i borghi esterni erano Sant’Andrea, San Giovanni e Marina. Otto divennero le porte cittadine: San Gaudenzo (chiamata successivamente San Genesio e anche San Bartolomeo), Sant’Andrea (poi Montanara), del Gattolo, San Giovanni Battista, San Pietro, Galliana, San Giorgio, San Cataldo. A Rimini si stabilirono ordini monastici, tra questi, i Domenicani, la cui predicazione, assai incisiva sul contesto sociale, ebbe inizio nel 1256. La città aveva ricevuto dall’imperatore l’autorizzazione a battere moneta, mentre l’arte della lana, introdotta nel 1261, avrebbe favorito l’ingresso di altre attività. Malatesta, Gambacerri, Omodei, Parcitadi erano le famiglie più in vista, protagoniste di rivalità e di lotte per la supremazia. I Malatesta vantavano il loro centro di potere in Verucchio, ove erano state innalzate nuove difese castellane sulle fondamenta di quelle antiche. La mole della rocca del Sasso domina tuttora la valle del Marecchia ed esprime i segni di una potenza inattaccabile: a essa era stato affiancato un altro fortilizio, detto del Passerello o rocca Inferiore; ai possedimenti verucchiesi si aggiungevano i castelli di Pennabilli, Roncofreddo e Ciola.

    La figura di Malatesta da Verucchio passerà alla storia col soprannome di Mastin Vecchio, termine impiegato da Dante Alighieri nell’Inferno, certamente in uso al tempo, riferito alla violenza del personaggio e, nella Commedia, alla sua avidità: «E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verucchio, / che fecer di Montagna il mal governo, / là dove soglion fan dei denti succhio».²⁰ Malatesta V²¹ fu, dunque, il reale capostipite della potenza medioevale della casata. Nato a Verucchio probabilmente nel 1212,²² all’età di vent’anni si trasferì a Rimini seguendo le vicende della politica paterna orientata in senso filoimperiale. Federico II stava raccogliendo successi nell’Italia settentrionale; per questo, l’alleanza con l’Aquila sveva giovava al prestigio dei suoi seguaci. Il matrimonio (1246) con Concordia dei Pandolfini (figlia del visconte Enrichetto, vicario imperiale, e di una discendente dei riminesi Parcitadi) consacrò il vincolo di Malatesta V con la fazione ghibellina e gli consentì di arricchirsi, per via dotale, di ampie terre poste fra la tenuta sanmaurese di Giovedia e il Gualdo presso Savignano. Abile e determinato, Malatesta pose le forze militari di cui disponeva al servizio del conte di Romagna, che a Imola fungeva da rappresentante dell’imperatore. Dopo la sconfitta subita a Parma da Federico II, Malatesta si preparò a un cambio di alleanze. E non lo trattenne certamente il legame acquisito per matrimonio con la parte ghibellina. Appoggiato, anzi, da Guido dei conti di Carpegna, da Ramberto di Giovanni Malatesta e da Taddeo del Montefeltro, si schierò con la fazione guelfa, accogliendo in Rimini la famiglia Gambacerri che era stata bandita nel 1240. Successivamente, fin dal 1248, Malatesta provvide a sostenere il cardinale legato Ottaviano degli Ubaldini, intento a recuperare al pontefice la fedeltà delle popolazioni romagnole. Il successo dell’azione condotta dal porporato fu tale che tutto il territorio, da Imola a Rimini, riconobbe l’autorità pontificia.²³ Il mutamento di partito produsse a Malatesta indubbi vantaggi: lo troviamo podestà riminese in più occasioni²⁴ e artefice di mosse diplomatiche significative tali da consentirgli appoggi e riconoscimenti da parte di papa Urbano IV.²⁵ L’abilità di Malatesta V traspare sia dalle sue intuizioni strategiche sia dalla capacità di prevedere i bisogni dei potenti. Si ricorda, infatti, un suo intervento volto a bloccare gli accordi tra Baldovino II,²⁶ già imperatore di Costantinopoli, e Manfredi,²⁷ re di Sicilia, ai danni del pontefice. La sua appassionata adesione al guelfismo gli varrà altre importanti cariche²⁸ e un ruolo di preminenza nella riconciliazione (1267) tra le famiglie riminesi che lottavano per la supremazia.

    Rimasto vedovo nel 1263, Malatesta aveva generato da Concordia cinque figli: Rengarda, Malatestino, Giovanni detto il Ciotto o lo Sciancato (per questo chiamato Gianciotto), Paolo e Ramberto. La seconda moglie, sposata nel 1266, fu Margherita Paltanieri, nipote di Simone,²⁹ potente cardinale. La nuova unione rafforzava la relazione del notabile riminese con la Chiesa. La posizione di Malatesta da Verucchio apparve sempre più solida non solo entro il guelfismo romagnolo, ma anche negli equilibri diplomatici di rilevanza internazionale. Allo stesso tempo, l’acquisizione di possedimenti terrieri gli aveva consentito di incrementare il patrimonio familiare. Da Margherita egli generò tre figli: Simona, Pandolfo, Maddalena. In onore della seconda moglie, volle erigere in Bellaria la chiesa di Santa Margherita, edificio annesso alla fortificazione di Castrum Lusi, il castello da lui innalzato nei pressi del fiume Uso.³⁰ Affine politica matrimoniale, volta a ricercare alleanze, egli vorrà esercitare nei confronti di alcuni dei propri figli: Rengarda sposerà Francesco Manfredi (1265-1343), esponente guelfo di Faenza; Gianciotto si unirà a Francesca da Polenta (1259-1285), figlia del ravennate Guido il Vecchio (m. 1310); a Paolo toccherà in moglie Orabile Beatrice di Uberto conte di Giaggiolo in Val Bidente. Il possesso della contea di Giaggiolo, dopo la scomparsa del conte Uberto I (1263), diverrà motivo di scontro fra i Malatesta e il capo dei ghibellini romagnoli: Guido da Montefeltro (1223-1298). Questi, sposo di Manentessa di Giaggiolo (sorella di Uberto), era stato investito del titolo comitale alla morte del cognato. La posizione del castello era strategicamente importante; per di più, il titolo di conte di Giaggiolo avrebbe consentito al condottiero feretrano di acquisire la cittadinanza forlivese cui egli teneva molto in relazione ai suoi rapporti coi ghibellini locali. Malatesta da Verucchio, dal canto suo, pretendeva il controllo di Giaggiolo in ragione del matrimonio del figlio Paolo con Orabile Beatrice e in questo veniva spalleggiato dalla Chiesa: l’abate di Galeata e l’arcivescovo di Ravenna sostenevano palesemente le sue ragioni. Gli accordi risultarono favorevoli al Malatesta, ma il conflitto fra i due comandanti era ancora aperto e si sarebbe protratto nel tempo.

    Frattanto, la discesa in Italia di Corradino di Svevia³¹ (1268) aveva di nuovo acceso gli animi della parte ghibellina. A Rimini, Malatesta si proclamò difensore dell’autorità del pontefice Clemente IV.³² Questo gli valse la stima di Carlo I d’Angiò³³ che volle nominarlo proprio vicario in Firenze, ove Malatesta restò fino al 1269. Al suo ritorno a Rimini, le questioni della politica romagnola e l’aumento di potere dei ghibellini forlivesi preoccuparono Malatesta, la cui notorietà si estendeva ormai oltre i ristretti confini municipali. Venne, perciò, chiamato a Bologna come capitano del popolo nel 1275, mentre vi era podestà Nicoluccio Balugani da Jesi. Abbiamo visto entrare in scena la figura di Guido conte di Montefeltro (1223-1298); uomo d’armi assai stimato, combatté per la parte ghibellina. Nominato condottiero dell’esercito forlivese, partecipò al fianco di Federico II all’assedio di Faenza e a quello di Parma; successivamente si pose al servizio di Manfredi di Svevia dopo la sua incoronazione a re di Sicilia. Nel 1259 troviamo Guido podestà di Urbino, carica che ricoprirà anche a Jesi (1260). Ritiratosi nuovamente in Urbino dopo la discesa di Carlo I d’Angiò (1265), seppe mantenere il controllo del Montefeltro, partecipando nel 1266 alla dieta voluta dal duca Ludovico II di Baviera per riorganizzare la fazione filoimperiale. Col ruolo di capo ghibellino ancor più consolidato, Guido affiancò il giovane Corradino³⁴ di Svevia durante la sua discesa in Italia e riunì in Campidoglio a Roma i maggiori esponenti del ghibellinismo toscano. Non sappiamo per quale motivo egli si rifiutasse di consegnare a Corradino il Campidoglio dopo la sua sconfitta a Tagliacozzo; possiamo, però, ipotizzare che la potenza dell’esercito condotto da Carlo d’Angiò lo facesse desistere dalla difesa di Roma. Scomunicato dal papa (5 aprile 1268), che lo definì «inurbano vicario dell’Urbe», Guido riparò ancora a Urbino, dove i contrasti con Malatesta trovarono rapidamente vie di fatto. Postisi al comando di uomini armati, i due condottieri raggiunsero Monteluro presso Tavullia³⁵ (20 giugno 1271) e si batterono fieramente. Lo scontro risultò favorevole al riminese. Guido da Montefeltro, caduto da cavallo, venne fatto prigioniero, poi rilasciato:³⁶ il potere malatestiano aveva dato prova ulteriore di solidità.

    La nomina di Rodolfo I d’Asburgo (1218-1291) a re dei Romani (1273) e l’attesa della sua venuta in Italia per l’incoronazione, che mai in realtà si realizzò, mossero ulteriormente gli animi dei ghibellini romagnoli, convinti di poter sottrarsi definitivamente al dominio papale. Forte di questa aspettativa, Guido da Montefeltro il 19 aprile 1274 penetrò in Faenza e ne espulse la parte guelfa. Le vicende di questo periodo appaiono fulminee e complesse. Il 1274 è anche l’anno in cui le due maggiori famiglie bolognesi, Lambertazzi (ghibellini) e Geremei (guelfi), diedero origine a scontri estremi e violenti, esplosi dopo decenni di rivalità e contrasti. Fu una sorta di guerra civile con incendi, morti e devastazioni; ebbero la meglio i Geremei che, con l’inganno e grazie all’intervento dei loro alleati lombardi e ferraresi, sopraffecero gli avversari. Questi ripararono in Romagna e furono accolti in gran numero a Faenza, retta dal podestà forlivese Superbo Orgogliosi, e in parte a Forlì: si trattava di circa dodicimila persone, affrante e private dei loro beni. Intanto a Bologna Malatesta aveva assunto il comando militare, allestendo un esercito poderoso che egli stesso guidò alle porte di Faenza per chiedere la consegna dei fuoriusciti (24 aprile 1275); qui avvenne uno scontro in cui i guelfi uccisero quaranta fanti. Malatesta tentò vanamente di conquistare Solarolo; allora, Teodorico Ordelaffi decise di farsi portavoce dei ghibellini: con l’appoggio del capitano del popolo Guglielmo de’ Pazzi di Valdarno,³⁷ respinse ogni richiesta guelfa e intimò ai bolognesi di tornare sui loro passi. Questi, che avevano posto il campo al ponte di San Procolo, sul fiume Senio, non lungi da Faenza, vi tornarono e furono assaliti dai Lambertazzi con settecento armati: fu una grande battaglia che provocò perdite cospicue da ambo le parti. I bolognesi fuggirono, inseguiti dagli avversari fino al rio Sanguinario nei pressi di Imola. Ma la disputa era appena cominciata: non passarono due mesi (13 giugno), e di nuovo Malatesta annunciò l’arrivo dei bolognesi sotto le mura di Faenza con un contingente agguerrito. I faentini invocarono subito il soccorso forlivese, che giunse rapidamente sotto il comando di Guido da Montefeltro; questi entrò in città e valutò lo schieramento nemico: il grosso dell’esercito

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