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Passioni che ritornano: Harmony Collezione
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Passioni che ritornano: Harmony Collezione
E-book159 pagine2 ore

Passioni che ritornano: Harmony Collezione

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Info su questo ebook

La loro era stata solo un'avventura di pochi giorni, sei anni prima. Intensa, come solo la passione giovanile può esserlo, ma tutto era finito lì e lui era partito alla conquista del mondo. Da solo.

Di fronte alla lettera che gli è stata consegnata solo ora, con quasi cinque anni di ritardo, Flynn Murray rimane di stucco. L'unica cosa che può fare è ritrovare Sara McMaster, colei che l'ha spedita, e sperare che le sue spiegazioni bastino a sanare le ferite del cuore di lei. Quando la rincontra, però, la vera sorpresa è scoprire che l'antico trasporto è ancora lì, intatto, pronto a travolgere entrambi nuovamente.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2019
ISBN9788858998502
Passioni che ritornano: Harmony Collezione
Autore

Anne McAllister

Autrice di grande versatilità, ha vinto il premio RITA per la letteratura romantica ed è acclamata dai fan di tutto il mondo.

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    Anteprima del libro

    Passioni che ritornano - Anne McAllister

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    One-Night Love-child

    Harlequin Mills & Boon Modern Romance

    © 2008 Barbara Schenck

    Traduzione di Edy Tassi

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5899-850-2

    1

    La lettera giunse inaspettata.

    «Non so di cosa si tratti, signore.» La signora Upham arricciò il naso, poi scosse con evidente disapprovazione la busta azzurra, macchiata e stropicciata. «È piuttosto... sporca.»

    Come al solito la segretaria aveva sistemato la posta sulla scrivania di Flynn in pile divise e ordinate. La corrispondenza relativa alla proprietà era la prima e la più alta, la seconda conteneva la corrispondenza con l’editore e le missive degli ammiratori, e l’ultima le lettere di sua madre.

    Era tutto preciso e organizzato, considerò Flynn tra sé. Gli sarebbe piaciuto che lo stesso ordine regnasse anche nella sua esistenza.

    Difficile, dal momento che la sua vita comprendeva Dunmorey, un umido e fatiscente castello vecchio di cinque secoli - affollato di ritratti di antenati che guardavano con sussiego i suoi sforzi per riuscire a conservare loro un tetto sulla testa - le fattorie circostanti, le terre e i loro affittuari. E poi c’erano suo fratello Dev, che aveva piani grandiosi per riportare in vita le scuderie di Dunmorey ma ben poco denaro per realizzarli, e sua madre che, da quando era rimasta vedova, sette mesi prima, non aveva fatto altro che ripetergli: «È ora che tu ti sposi». Flynn lanciò alla donna un’occhiata sconsolata: neppure una persona organizzata come lei sarebbe riuscita a mettere ordine nella sua vita!

    Chiederle di gettare via quella lettera sporca, come lei stessa l’aveva definita, le avrebbe fatto sicuramente piacere.

    Suo padre avrebbe approvato.

    Il defunto ottavo conte di Dunmorey non aveva mai tollerato ciò che non era decoroso e tradizionale. Una volta si era disfatto di una lettera che Flynn aveva scarabocchiato su un sacchetto di carta mentre si trovava in una zona di guerra a scrivere una delle sue storie.

    «Se non ti sei preso il disturbo di scrivermi una lettera come si deve, perché io avrei dovuto prendermi quello di leggerla?»

    Sarebbe stato piacevole se, ora che era morto, il defunto conte avesse smesso di dire cose del genere. Invece, Flynn trascorreva la maggior parte delle giornate cercando di affrontare tutte le esigenze di Dunmorey mentre dentro la sua testa udiva la monotona voce paterna che gli ripeteva incessantemente: «Sapevo che non ci saresti riuscito».

    A salvare il castello, intendeva. A essere un conte capace. A dimostrare il suo valore. Ecco cosa intendeva.

    La signora Upham tossicchiò. «Signore?»

    Flynn sollevò lo sguardo. Doveva rifare quei calcoli per vedere se sarebbe riuscito a trovare abbastanza denaro per aggiustare il tetto e, nello stesso tempo, sistemare le stalle prima che suo fratello Dev portasse a casa lo stallone da Dubai.

    Ma il denaro non sarebbe saltato fuori.

    Sarebbe stato molto più facile che il suo nuovo libro - in uscita il mese successivo negli Stati Uniti - entrasse nella classifica dei bestseller del New York Times. Se non altro aveva un vero talento per le interviste incisive e per le storie appassionanti.

    Era questo che faceva - quello che sapeva fare meglio - prima che il titolo di conte cambiasse la sua vita.

    Ma non aveva intenzione di arrendersi con Dunmorey, anche se la battaglia per impedire che il vecchio e severo castello irlandese si sbriciolasse sotto la sua custodia era accanita. Per lui era un dovere. E onestamente, in quanto secondogenito, non si era mai aspettato di doverselo assumere.

    Non era ciò che avrebbe scelto per se stesso, ma era determinato a dimostrare al padre, benché ormai morto, che poteva farcela.

    «Le cose di cui si deve occupare sono tutte qui» riprese la signora Upham indicando una delle pile sulla scrivania. «Se permette, andrò a gettare questa vecchia busta disgustosa.»

    Flynn grugnì qualcosa e ripartì dalla prima cifra.

    «Posso portarle un po’ di tè, signore?» insistette la donna. «Vostro padre ne gradiva sempre una tazza mentre scorreva la posta.»

    «No, grazie, signora Upham. Sto bene così.»

    Flynn aveva imparato piuttosto in fretta che seppure agli occhi della signora Upham non sarebbe mai stato all’altezza di suo padre - cosa che considerava con un certo sollievo - era in grado comunque di far valere la sua autorità. Gli bastava sfoderare quella che egli stesso definiva la sua voce da conte.

    Ogni volta che la usava, la signora Upham afferrava rapidamente il concetto.

    «Molto bene, signore» replicò lei mentre arretrava fuori dalla stanza, neanche si fosse trovata alla presenza della regina d’Inghilterra.

    Flynn rifece i calcoli. Ma ancora una volta il risultato fu tutt’altro che soddisfacente. Con un sospiro si accasciò sulla sedia, si stropicciò gli occhi e cercò di sciogliere le spalle. Di lì a un’ora aveva un appuntamento con un imprenditore edile per stabilire quali lavori fosse necessario eseguire nelle stalle prima che Dev portasse a casa lo stallone.

    Le stalle erano una priorità assoluta, rifletté, dal momento che il cavallo era un campione e di conseguenza una garanzia di profitti sicuri. Fino a quel momento, infatti, i compensi per le monte dei cavalli e le royalty dei libri non sembravano sufficienti a tenere a galla Dunmorey.

    Da quando apparteneva alla sua famiglia, il castello aveva visto tempi migliori e, per quanto sembrasse difficile, anche peggiori. Secondo Flynn rappresentava l’incarnazione del motto di famiglia: Eireoidh Linn, che più o meno significava Sopravvivremo.

    Fino a quel momento ci erano riusciti. Tuttavia il castello non era più legato a un vincolo di inalienabilità e quindi poteva essere venduto.

    Ma che Flynn fosse dannato, non sarebbe stato lui a macchiarsi di una colpa simile!

    Spinse indietro la sedia e cominciò a vagare per la stanza, schioccando le nocche. Stava per tornare verso la scrivania, quando i suoi occhi furono attirati dalla busta azzurra che giaceva sul fondo del cestino.

    Era decisamente sporca e stropicciata, eppure lo intrigava.

    Non era un’altra fattura o l’ennesimo fascicolo di preventivi. Non sembrava una circolare a proposito di una qualche vendita all’asta agricola o l’invito al ricevimento di una famiglia nobile.

    E da quanto poteva vedere, gli era stata inoltrata almeno una mezza dozzina di volte. Un’eco della sua esistenza passata.

    Flynn si chinò a prenderla. Originariamente era stata indirizzata presso la rivista Incite a New York.

    Le sue sopracciglia si inarcarono. Erano secoli che non scriveva più per Incite. Da quando si era occupato di quella che era stata battezzata La Grande Asta dei Cowboy nella piccola Elmer, nel Montana, circa sei anni prima.

    Suo padre aveva sempre definito quel genere di giornalismo aria fritta e sosteneva che era un peccato che Flynn non fosse abbastanza in gamba per scrivere articoli veri su argomenti davvero importanti.

    Invece lo era. E la sequela di indirizzi sbarrati sulla busta rappresentava una traccia dei luoghi in cui lo aveva dimostrato: Africa, Indie Orientali, Asia centrale e occidentale, Sudamerica, Medio Oriente.

    Uno più pericoloso dell’altro.

    Fissò la busta, travolto da una cascata guizzante di ricordi, di eccitazione, di sfide e di vita.

    Studiò di nuovo la calligrafia chiara e femminile sotto le altre. Ma non la riconobbe. Era affascinato dal fatto che la lettera fosse riuscita a raggiungerlo. Il singolo francobollo americano con cui era stata affrancata era stato annullato la prima volta nel novembre di cinque anni prima.

    Cinque anni?

    Nel novembre di cinque anni prima Flynn si trovava nel bel mezzo della giungla sudamericana, impegnato a scrivere una storia su una guerra tribale, vivendola in prima persona.

    «Ti sembra il caso?» Il suo editor di Londra si era dimostrato scettico quando Flynn aveva annunciato di volersi recare laggiù. «Ti hanno già sparato, quest’anno. Stavolta potresti rimanerci secco.»

    Suo fratello maggiore Will - l’erede, come lo aveva sempre definito suo padre - era morto pochi mesi prima. E secondo il padre, la morte di Will era stata colpa di Flynn.

    «Stava venendo all’aeroporto per incontrare te!» si era infuriato il conte, legittimando solo il proprio dolore, senza mai riconoscere quello di Flynn. «Sei stato costretto a tornare a casa in convalescenza! Tu eri quello a cui hanno sparato!»

    Ma non quello che era morto.

    Invece a morire era stato Will, il figlio affidabile, sensibile, responsabile. Will, che si era fermato sulla strada per l’aeroporto per aiutare un motociclista a cambiare una gomma e che era stato investito da una vettura di passaggio.

    Nella frazione di un secondo il mondo era cambiato. Will se n’era andato e Flynn era diventato l’erede al posto suo.

    Difficile stabilire chi ne fosse più contrariato, se Flynn stesso o il conte.

    Ma Flynn non era morto. E quando suo padre era stato colto da un attacco di cuore, il luglio precedente, lui era ancora l’erede.

    Adesso era lui il conte. Non viaggiava più. Il castello di Dunmorey era diventato la sua prigione.

    E una lettera vecchia di cinque anni, che lo aveva inseguito attorno al mondo e che lo aveva finalmente raggiunto, sembrava di gran lunga molto meno impegnativa e molto più attraente dei suoi doveri.

    Flynn l’aprì. All’interno c’era un unico foglio di carta bianca. Lui lo tirò fuori e lo spiegò. La lettera era breve.

    Flynn, questa è la terza lettera che ti scrivo. Non preoccuparti, è anche l’ultima. Non mi aspetto niente da te. Non voglio niente. Pensavo solo che avessi il diritto di sapere.

    Il bambino è nato questa mattina poco dopo le otto. Pesa tre chili e quattrocento grammi. È sano e forte. Ho deciso di chiamarlo come mio padre. Ovviamente lo terrò. Sara.

    Flynn fissò le parole inebetito, sforzandosi di comprendere il loro significato e di collocarle in un contesto nel quale avrebbero avuto senso.

    Non mi aspetto niente... diritto di sapere... bambino.

    Sara.

    Il foglio gli tremò fra le dita. Il cuore gli scalciò nel petto. Ricominciò a leggere, questa volta dalla firma: Sara.

    Nella mente gli saettò una visione di intensi occhi castani, di un ovale perfetto e di un corto caschetto. Una visione di pelle morbida e dorata e di labbra che sapevano di cannella e spezie.

    Sara McMaster.

    La splendida e deliziosa Sara del Montana.

    Dio santo!

    Fissò la lettera mentre il suo significato gli diventava chiaro.

    Sara era rimasta incinta. Sara aveva avuto un bambino.

    Un maschio...

    Suo figlio.

    Era il giorno di san Valentino.

    Sara non poteva ignorarlo perché la sera prima aveva aiutato suo figlio di cinque anni, Liam, a stampare faticosamente il suo nome su ventuno biglietti augurali completi di immagini a fumetti che recavano le scritte Sei mia e Sono tuo.

    Non poteva ignorarlo perché insieme avevano ricoperto una scatola da scarpe con della carta bianca a cuori rossi per trasformarla in una cassetta delle lettere e perché era stata costretta a cucinare tortine ricoperte di glassa al cioccolato e una decorazione di cuoricini di zucchero rossi e bianchi, visto che proprio un istante prima di andare

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