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E-book286 pagine3 ore

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Info su questo ebook

L’ombra di un bacio sullo specchio. Un disegno che sorride. Voci, rumori che si inseguono tra pareti e corridoi. La casa in cui Dado è vissuto fino a pochi mesi fa si sta rianimando, riportando alla vita le esistenze di Gioia e di Alessandro. C’è una presenza chiara, che manda messaggi tutti da interpretare, fino a quando la medium chiamata a fare luce sui fenomeni sempre più intensi e sempre più sconcertanti, scoprirà l’indicibile verità alla quale nessuno di loro è preparato… Quale forza ancestrale ha rievocato il piccolo Dado? Tenendosi in costante equilibrio tra la ghost story e il thriller psicologico, Torna da me corre sul filo teso di un amore disposto a spingersi oltre confini che non andrebbero attraversati.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2023
ISBN9791222431642
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    Anteprima del libro

    Torna da me - Christian Ginepro

    PRIMO ATTO

    Il confine

    CAPITOLO 1

    «C’è un bambino qui.»

    La voce della piccola Lisa riempì la casa con la prepotenza che solo i bambini possiedono. Come obbedendo ad un incantesimo, il suono di quelle parole si propagò prima per tutta la lunghezza del corridoio, poi acquisì la vischiosità necessaria a riuscire a penetrare nelle orecchie di Alessandro e così facendo scese pesante fino al cuore, fermandone il battito per un interminabile mezzo secondo.

    «Non credo ci siano bambini qui» sorrise la giovane agente immobiliare, interrogando con lo sguardo il padrone di casa.

    «Ma io ne sento l’odore» insistette Lisa.

    Alessandro non era ancora organicamente pronto a rispondere, intento com’era a gestire lo sbalzo di sudorazione. Passandosi lentamente una mano sulla fronte rilanciò l’occhiata dell’agente verso la madre della bimba che, sferzata dall’istinto più che dalla comprensione, contribuì in fretta a rialzare la temperatura della conversazione: «Abbiate pazienza: a questa età convivono con un esercito di amici immaginari.»

    L’agente colse al volo l’assist per tirare fuori la sua risata di circostanza; quella rodata, che tante volte le aveva permesso di tirarsi fuori da situazioni ben più imbarazzanti di quella. «Questa casa può accoglierli tutti i suoi amichetti! Soprattutto se doveste decidere di dividere l’ampio soggiorno con cucina a vista al pianterreno ricavandone un’altra…»

    Lisa non poteva darsi per vinta. I suoi sensi poco allenati alla diplomazia parlavano per lei: E allora perché quella camera è chiusa? Il piccolo dito indice fece quello che fa l’indice: indicò senza esitazioni lo stomaco di Alessandro, dietro il quale appariva la porta della stanza di Dado, chiusa a chiave da sei lunghi mesi.

    La risposta della madre arrivò in controtempo: «Basta con le domande, Lisa. La signorina ci ha già detto che in caso di seconda visita tutte le stanze saranno aperte e visitabili.» Poi ne approfittò per guadagnare un punto a favore in caso di imminente trattativa: "Anche quella del bagno, mi auguro. Perché, sa» sussurrò garbatamente decisa alla giovane venditrice «quello andrebbe visto…»

    «Ha perfettamente ragione, signora. Ma non ero al corrente di questi piccoli impedimenti.»

    «Scusate.» si affrettò a dire Alessandro cercando di riprendere le redini della corsa ad ostacoli. Sulla fronte fece capolino una nuova piccola perla di sudore; un rapido gesto della mano ne cancellò la traccia. «Solo il bagno di sotto è visitabile. Problemi di…»

    «Di famiglia?» La voce dell’agente era ormai settata su una frequenza frivola tutt’altro che efficace. «E comunque la casa è così grande che potremmo concentrarci su tutto il resto.» Il suo studiato monologo scortò proprietario e potenziali acquirenti giù per le scale che portavano al piano terra. «È la classica abitazione statunitense: si vive di sotto; si dorme di sopra! Ma qui in provincia gli americani resistono poco. Si innamorano, si costruiscono un pezzo di Maine e poi lo rivendono appena si stufano della dieta mediterranea.»

    Lisa tentò l’ultimo capriccio. «Ma io volevo vedere la mia camera.» La penombra prodotta dall’assenza di finestre lungo le scale contribuì a rabbuiare il suo sguardo deluso.

    Alessandro, che affrettandosi era riuscito a precedere tutti gli ospiti, rallentò il passo fino a fermarsi. Poi si girò verso la bimba e la fissò negli occhi. «Allora, signori» debuttò con simpatica confidenza «qui abbiamo una detective fatta e finita.» Lisa sorrise istintivamente al padrone di casa. «Mi piacciono i curiosi. Vediamo un po’.» Assunse una comica espressione meditabonda che fece allo stesso tempo risaltare la sua stempiatura e sbocciare un altro paio di sorrisi nella stanza. «Facciamo così: ti sfido.»

    «Cioè?» si incuriosì Lisa.

    Alessandro abbassò ad arte il tono della propria voce. «Devi sapere che questa casa è magica.» Lisa aprì leggermente la bocca. L’intatto incanto dei suoi cinque anni la fece subito cadere in trappola. «Alcune porte si aprono solo se si risponde correttamente a un indovinello. Se indovinerai potrai vedere la tua stanza.» Gli occhi della piccola assunsero una grandezza e una rotondità alle quali era impossibile resistere. La madre la baciò in testa e si iscrisse anche lei alla gara: «Sentiamo un po’: fammi far bella figura, amore.»

    Alessandro fissò i due occhioni e parlò lentamente: «Ha sei facce, ventuno occhi ma neanche un naso.»

    L’agente immobiliare cercò di salire goffamente sul carro di complicità che si stava formando. «Sei facce, ventuno occhi. È sicuro che sia un indovinello per bambini?»

    Nessuno le prestò attenzione. La madre di Lisa sbarrò gli occhi tradendone in un batter di ciglia tutta la somiglianza.

    La bimba si arrese subito: «È troppo difficile.»

    Alessandro, gongolò comicamente, scese l’ultimo tratto di scale e fece risalire il tono della propria voce. «Pensaci e la prossima volta mi saprai dire.»

    Erano tornati al piano terra. Sul divano del grande soggiorno aspettavano scomposti i due giacconi e il piccolo cappottino. La madre cominciò a vestire la bambina mentre Lavinia, questo era il nome della giovane agente, riuscì a trovare una fugace intimità con Alessandro vicino al tavolo a penisola della cucina a vista.

    La sua voce si abbassò in modo da poter scambiare un rapido feedback con il proprietario: «Sembra siano interessate.»

    Alessandro non le dimostrò soddisfazione. Lei incalzò: «Vorranno sicuramente fare una seconda visita. Magari la prossima volta gliela facciamo vedere tutta.»

    «Abbia… pazienza» balbettò l’uomo. «Sono giorni particolari.»

    Lavinia intanto era già scivolata verso la sua giacca a vento e la indossò con un unico gesto rotatorio, passando all’incasso i dieci e più anni di pomeriggi passati tra le sbarre della miglior scuola di danza classica della città. Madre e figlia erano già alla porta di ingresso, che Lisa aveva appena spalancato facendo entrare un freddo refolo di vento autunnale. Il piccolo giardino che portava al cancelletto esterno riposava provato e spelacchiato. Oltre il recinto in pietra si allungava a destra e a sinistra il lungo viale alberato che portava in centro, mal accessoriato da una sdentata collana di automobili parcheggiate lungo i marciapiedi. Ma il traffico a quell’ora del pomeriggio era a uso esclusivo delle centinaia di foglie secche cadute da giorni dai castagni. Un vorticoso e intermittente volteggiare dove il vento faceva la parte del destino e le foglie quella di miseri mortali. La bambina cominciò a correre in giardino tra i piccoli scheletri degli alberelli da frutto come se solo lei potesse vederne la promessa primaverile. «C’era un bambino e ne ho sentito il profumino.» La sua certezza si era già fatta filastrocca.

    «Grazie ancora» si accomiatò la madre.

    Alessandro sembrava aver fretta di richiudersi la porta alle spalle tanto che l’agente dovette infilarsi agilmente tra lui e lo stipite per riuscire a sgattaiolare fuori di casa, rincorrendo la sua cliente che aveva percorso in un attimo i pochi passi che la dividevano dal cancello.

    Alessandro rallentò la chiusura della porta per non sembrare troppo sgarbato e fu dalla lama di panorama sul giardino che vide la schiena della piccola Lisa fermarsi di scatto.

    «Dado» disse lentamente la bambina.

    Alessandro sentì raggelarsi il sangue nelle vene. La mano rimase sul pomello. Impossibile comandarla in un verso o nell’altro. La bocca si mosse da sola, riuscendo a partorire nient’altro che parole asciutte come sabbia. «Come hai detto?»

    La bambina si girò lentamente, stupita di se stessa. «La risposta è Dado.» I due sguardi si fissarono di nuovo l’uno nell’altro.

    Lavinia si accodò sinceramente impressionata: «Ha sei facce, tutti quegli occhi, senza naso. Signora mia, sua figlia è un genio!»

    «Amore sei bravissima!» proruppe la madre dal cancello.

    La bambina nemmeno le sentì: era troppo intenta a sostenere lo sguardo di Alessandro che, come un animale terrorizzato, non si decideva a uscire dalla sua fragile tana. Lo spazio tra la porta e l’uscio permetteva a malapena di intravederne il resto dell’esile figura.

    «Voglio vedere la mia camera.» Lui non si mosse. Il vento gelido che prima sferzava il giardino concesse un attimo di tregua, contribuendo a sospendere il momento ai limiti dell’inaccettabile.

    La mano della madre ruppe l’incantesimo. Afferrò quella di Lisa e la trascinò con forza verso la macchina. «Un altro giorno» sentenziò definitiva lanciando all’eclissi degli occhi di Alessandro un ultimo sguardo istintivamente carico di pietà. La porta si chiuse senza far rumore. Il cigolio del cancello di ferro decretò la fine della visita, il giardino tornò a essere solo un piccolo giardino e il vento ricominciò imperterrito a soffiarsi il naso.

    CAPITOLO 2

    Come su una zattera. Sdraiato a faccia in su, gli occhi serrati nel tentativo di riprendere possesso delle coordinate mentali del proprio corpo, rese incerte dalla piccola vertigine procurata da quelle quattro lettere. D-A-D-O.

    Troppo pochi otto mesi di deriva per sperare di approdare su una terra più ferma di quella.

    Espirò lentamente aspettando che il mondo tornasse verticale. Poi inspirò con forza. E fu quell’odore a riportarlo a galla. Borotalco. Riaprì gli occhi e si ritrovò dove sapeva di essere: in piedi, appoggiato alla porta di casa appena chiusa, i palmi delle mani spalancati sul legno quasi a dover trattenere l’incursione di altre parole. Il rumore dell’auto che partiva sancì la fine del breve assalto.

    Da quella posizione i due grandi ambienti del piano terra, cucina a sinistra e salotto a destra, divisi dalla rampa che portava al primo piano, sembravano due enormi occhi separati da un naso a scalini. Ma chi osservava chi? Guardati sembrava sussurrargli quella casa. Guardami. In quei mesi aveva ricambiato colore. Era tornata esattamente la stessa del giorno in cui erano entrati per la prima volta. Troppo vuota. Poi troppo piena. Ora di nuovo vuota. Come lui, in effetti.

    Guardami. Guardati.

    Il bagnetto al piano, ingombro di scatoloni preparati forse un po’ troppo presto, era inutilizzabile da tempo ma un frammento di specchio ancora resisteva all’assedio dei cartoni. Accese la luce e andò a cercare il riflesso del proprio volto. «Trentacinque anni» si ritrovò a dirsi. «Con queste occhiaie posso dimostrarne anche cinquantotto.»

    Il naso aquilino governava in modo dittatoriale due occhi e una bocca naturalmente arresi a una infantilità tutto fuorché virile. Ma quel naso non ammetteva insubordinazioni: Comando io sentenziava dall’alto, rendendo impossibile qualsiasi tipo di accordo tra le parti. Il risultato era quello di un volto che non si sarebbe trovato male in uno di quei film a basso costo dove i folletti sono troppo alti per essere veri. La capigliatura dimentica da anni di una qualsivoglia utilità del pettine o della spazzola, chiudeva il quadro. E sentenziava muto dallo specchio: No, non sei ufficialmente bello.

    Ma quegli occhi grandi: Gioia si era arresa al loro primo affondo.

    L’odore di borotalco bussò nuovamente alle porte del dittatore aquilino. Alessandro non si scompose: sapeva cos’era.

    Allungò un braccio fra le scatole, riuscì a fatica ad aprire il rubinetto con due dita, fece scorrere l’acqua sui palmi e richiuse con un colpo secco. Si passò la mano bagnata sul viso e si asciugò sulla manica del maglione. Affidò un ultimo sguardo al proprio riflesso e fece in fretta la prova di un sorriso. Il gemello di vetro gli restituì subito il suo prestito a interessi zero.

    Le tracce di profumo lo scortarono fino in cima alle scale e il rumore dei passi si spense mite appena venne accolto dalla moquette del corridoio.

    Al suo passaggio le quattro porte, due a destra e due a sinistra, sembravano bianche sentinelle: rigida sull’attenti quella chiusa di Dado e piegate a osservarla le tre della camera matrimoniale, di quella degli ospiti e della sala giochi di Alessandro. E in fondo la porta del bagno grande. L’odore arrivava da lì, naturalmente.

    Nel tentativo di dare efficacia alla propria intonazione, risistemò al suo posto il sorriso provato al piano terra.

    «Amore. Sono andati via.»

    Uno, due, tre, quattro, cinque. Cinque secondi di silenzio all’aroma di borotalco gli riconcessero diritto di parola.

    «Senti io non credo che tutto questo ci faccia bene. Ti faccia bene.»

    Gioia non rispose. Accovacciata a terra con la schiena appoggiata alla porta diede un altro sbuffo di borotalco. I blue jeans ormai erano bianchi e tutto il bagno era invaso da una nuvola profumata. Strinse gli occhi arrossati e due lunghe lacrime si fecero strada sulle guance fino a precipitare in perfetta sincronia sul petto, come due tuffatrici. Le accolse la lana di un maglioncino color tortora. E lì rimasero.

    In corridoio Alessandro quasi le sentì cadere. Si inginocchiò e parlò dolcemente al profilo della porta.

    «Gioia non mi piace che ti chiudi in bagno, lo sai. Ho la chiave. Apro?»

    Il colpo secco della nuca di Gioia sbattuta con violenza a pochi millimetri da lui lo fece sobbalzare. Si rialzò di scatto e diede fondo a tutta l’autorità che l’adrenalina gli aveva appena concesso. «Gioia!»

    «Sto bene. Scusa.»

    «Non è questo un modo…»

    «No. Sto bene. Scusa.»

    Alessandro si fece trafiggere dalla pochezza di quel ripetitivo vocabolario. Ignaro di tutto, il campanello di casa prese a suonare, indifferente.

    «Come posso aiutarti, amore mio?»

    Il campanello suonò una seconda volta. Poi una terza. Infine, il suo rumore molesto abdicò a favore di quello della porta principale che sbatteva contro il muro.

    Alessandro diede le spalle a quella del bagno e ripercorse la strada felpata tra le sentinelle. Non fece in tempo a sentire la risposta di Gioia: «Non puoi.»

    I rumori al piano terra divennero voce: «Si può?»

    CAPITOLO 3

    «Porca puttana che caldo che fa. Sto sudando come un maiale.» La diarrea verbale di Dante irruppe in cucina carica di sacchetti della spesa.

    Alessandro intuì l’enorme sagoma del padre dietro quella barricata di carta riciclata. «Ci hai messo un attimo.»

    Dante proseguì il suo percorso alla cieca e approdò con malagrazia nel porto insicuro della penisola in cucina. «Me la sto facendo addosso.»

    Eccola lì, davanti a lui: una piccola oasi di buonumore. Sempre pronta a riempire frigoriferi e silenzi. Alessandro non sapeva comunicarglielo ma il padre svolgeva un ruolo fondamentale in quel periodo di apnea. Non ebbe quindi reticenze nel lasciarsi tirare dentro la solita salvifica scaramuccia quotidiana. «Ci saranno cinque gradi là fuori. Come fai ad avere caldo? Prova ad assumere meno liquidi e vedi che sudi di meno.»

    «Certo. Porca puttana. Non so chi cazzo diceva che siamo fatti per il novantanove per cento di acqua. Ma mi gioco quell’uno per cento che quel tizio non pisciava da tre giorni.»

    «Papà!» lo placcò il figlio «di sopra c’è Gioia.»

    «Ah!» Dante, finalmente libero da pacchi e pacchettini non accennò a modulare la sua naturale molestia. Anzi. Non esitò ad alzare il volume della voce per poter raggiungere il piano di sopra. «Scusa Gioia! Vado a quello di sotto.»

    «Papà!»

    Dante rallentò la sua corsa al bagno di servizio. Ma questa volta imbastì la sua scusa in tono più confidenziale. «Non lo so fare. Va bene?»

    «Allora stai zitto.»

    Ogni volta che il padre perdeva l’irruenza fisica data dai cento e passa chili per centonovanta centimetri, Alessandro poteva intravedere in lui tutta la goffa tenerezza che farciva i racconti delle zie che lo avevano cresciuto. Nelle favole di quando Alessandro era bambino, papà era sempre un Orso Gentile e la mamma volava sempre in cielo in una nuvola di piume d’oro. Sempre troppo presto.

    Ma almeno volava.

    Dante lasciò sospeso in aria un rimbrotto e girò le cosce muscolose verso il bagnetto.

    «Guarda che quello giù è ancora ingombro» si sbrigò a ricordargli Alessandro.

    L’orso bianco fucilò il figlio con gli occhi, prese velocità per salire le scale ma al terzo gradino si ricordò di Gioia e perse contemporaneamente foga e coraggio.

    Si girò di scatto e si fiondò fuori di casa. «Guarda te se mi tocca pisciare in giardino.»

    «Papà!»

    «Vado a scaricare la macchina! Posso?» Fece un ironico inchino e uscì.

    Mentre lui percorreva a passi da gigante il vialetto d’ingresso, Alessandro cominciò a controllare la spesa.

    «Tutto qui?»

    «Cosa?»

    «Tutta qui la spesa?» rinforzò Alessandro.

    La distanza tra figlio in casa e padre alla macchina trasformò la scaramuccia in assordante bombardamento verbale.

    «Tanto non ci volete stare più qui, no?»

    «Papà!»

    «’Ste cazzo di buste dell’acqua!»

    «Hai comprato due cose.»

    «Allora vacci tu la prossima volta.»

    «E tu allora dammi il resto!»

    Dante riapparve alla porta e appoggiò le confezioni a terra. Sudava ancora più di prima.

    «Cosa?» divagò.

    Alessandro tese inequivocabilmente la mano.

    «Il resto.»

    «Quel figlio di puttana di Shamir…»

    «Papà.» L’espressione di Alessandro tentò inutilmente di essere severa. Ne uscì più un’implorazione che uno sgrido.

    L’altro cominciò freneticamente a mettere a posto la spesa pur di non sostenere lo sguardo del figlio. «Davanti al supermercato. Io non so come diavolo faccia. Ti giuro sono stato mezz’ora a cercare di capire il suo stile. Mezz’ora prima di puntare qualcosa.» Il piano del tavolo era oramai sgombro, fatti salvi tre vasetti di yogurt. Li prese subito in ostaggio e si mise a spostarli rapidamente come si fa con il gioco delle tre carte.

    «Mezz’ora. Me lo ha fatto veloce, me lo ha fatto piano, davanti alla faccia.»

    Alessandro non riuscì a trattenere per sé un «che stupido.»

    Dante affrontò il figlio protetto dalla trincea fornita dal tavolo che li divideva. «E allora sono arrivato ad una conclusione.» Abbassò il tono della voce, quasi avesse timore di pronunciare le parole che stava per dire. «Quella è magia. Magia vera.»

    Il padrone di casa alzò gli occhi al cielo e andò a chiudere la porta. L’ospite lo seguì proseguendo con la propria tesi. «E quello lì è pure arabo, mezzo africano. Chissà che riti gli insegnano laggiù a questi da ragazzini. Magia vera, fidati… e nera!»

    «Papà. La magia non esiste. Quella non si chiama nemmeno prestidigitazione. È puro e semplice istinto di sopravvivenza.

    Se non intorta te, Shamir stasera non mangia. Quindi ti fotte cinquanta euro e ti manda a casa con le tasche piene di senso di mistero.» Alessandro finì il suo percorso dove lo aveva iniziato, al tavolo della cucina. Il padre non aveva mai smesso di seguirlo come un grosso e goffo anatroccolo. Come succedeva spesso, i ruoli padre/figlio si erano invertiti senza nemmeno che se ne fossero accorti. «Lasciatelo dire da un esperto.»

    «Tu questi giochetti non li hai mai saputi fare.» Dante cercò di guadagnare punti colpendo il figlio nel vivo della sua piccola passione: i trucchi di magia.

    «Evidentemente mi è sempre mancato l’istinto di sopravvivenza.»

    Alessandro segnò il punto-vittoria ottenendo dal padre qualche istante di silenzio nemmeno tanto richiesto.

    Fece finta di risistemare la spesa e Dante tornò al suo giaccone, che lo aspettava sfinito sul divano.

    «È magia! Te lo dico io» riprese. «Lo so perché da piccolo anche io ero un po’ così.»

    Ad Alessandro sfuggì una risatina affettuosa. Dante continuò. «Come Dado.» La risata ebbe vita breve. Alessandro rimase in silenzio a fissare il pacco di caffè che teneva inutilmente in mano. Dante non ci fece caso e proseguì.

    «Infatti queste cose saltano una generazione. È chiaro che Dado aveva quel sesto senso in più. Si vedeva. Se ne sentiva l’odore.»

    Alessandro rimise a fuoco lo sguardo perso nella carta argentata del caffè e lo piantò lentamente sugli occhi del padre. «L’odore, hai detto?»

    Dante aveva già raggiunto e riaperto la porta di casa. «Stasera vengono due mie amiche al cinema: una un po’ più amica dell’altra. Due ridotti, please. Anzi, un omaggio e un ridotto: l’omaggio per quella più amica, naturalmente. Anzi, omaggio a tutte e due, che nella vita non si sa mai.»

    E si chiuse dietro la porta di casa con la solita innata ed eccessiva foga. Boom!

    «Cazzo,

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